lunedì 26 aprile 2010

IL BOSCO DOPO IL MARE

In occasione del 25 aprile, la casa editrice Infinito Edizioni ha messo a disposizione un testo scritto dal grande intellettuale Predrag Matvejevic per presentare "Il bosco dopo il mare" il libro di Giacomo Scotti, dedicato alla lotta antifascista e antinazista nei Balcani e al sacrificio di migliaia di italiani, a fianco delle forze di liberazione partigiane jugoslave. Buona lettura.


Di Giacomo Scotti, poeta, narratore e favolista, instancabile ricercatore, pubblicista e traduttore in italiano di non so quante opere letterarie nostre e dall’italiano nella nostra lingua, ho già scritto in diverse occasioni. La sua energia e i risultati letterari da essa scaturiti suscitano il mio profondo rispetto e alimentano la nostra pluriennale amicizia.

Ambedue siamo venuti a trovarci spesso in situazioni non proprio piacevoli, che io definisco come posizioni “fra il tradimento e l’offesa”. Negli ambienti plurinazionali nei quali abbiamo operato per lunghissimi anni – Giacomo Scotti a Fiume, nel Quarnero, in Istria e a Trieste, a tutela e nelle file della comunità italiana, io nella Jugoslavia multietnica e soprattutto nella Croazia in cui ho vissuto e nella Bosnia-Erzegovina dove sono nato – qualsiasi parola critica indirizzata alla propria comunità nazionale, maggioritaria o minoritaria che sia, viene interpretata sovente come un tradimento, mentre la critica rivolta a un esponente di un’altra cerchia o di un’altra nazione è vista e respinta come un’offesa. Queste reazioni restringono lo spazio della parola critica, lo trasformano via via in una fenditura sempre più stretta, nella quale il significato della stessa critica si esaurisce, si perde.

Più volte mi è capitato di prendere le difese di Scotti e del suo diritto alla “critica di tutto l’esistente” come essa veniva definita dalla sinistra nell’ex Jugoslavia. Scotti non mi è rimasto debitore, venendomi in aiuto soprattutto quando, dopo essere emigrato in Francia, andai a vivere in Italia in volontario esilio. Ci eravamo dati reciprocamente la mano già mezzo secolo addietro.

Il bosco dopo il mare, il libro di Scotti sugli Italiani che passarono nelle file partigiane nei Balcani, un terreno nel quale l’autore scava con ottimi risultati sin dagli inizi degli anni Sessanta del secolo da poco tramontato, ha lasciato in me una profonda impressione, mi ha commosso. Ha ridestato i ricordi di un tempo che segnò la mia tarda infanzia e la mia prima giovinezza, vissute nella nativa Mostar occupata dall’esercito italiano. Perciò, invece di ricorrere a un discorsetto d’occasione e di scrivere parole di elogio, di ammirazione sulla vita e sull’opera di una persona come solitamente si usa in occasione degli anniversari – e Scotti ha appena festeggiato gli 80 anni di vita e i 60 di una feconda scrittura senza aver perso la freschezza intellettuale e tanto meno l’entusiasmo creativo – mi sembra più appropriato dedicargli un brano della mia biografia molto strettamente legato all’Italia e a questo nuovo racconto partigiano di Scotti, nel quale il narratore e il ricercatore/storico si confondono. Il brano è intitolato Mario, e Mario è in qualche maniera il parente più prossimo, forse un fratello, sia per Giacomo che per me, ma soprattutto per il protagonista principale – Clemente Vavassori – del libro di Scotti.

A volte, sia in Jugoslavia che in Italia, si è evitato di parlare dei “garibaldini”, come noi chiamavamo quei soldati italiani che, disertando l’esercito occupatore di Mussolini, scelsero di entrare nelle file della Resistenza antifascista jugoslava, nelle file dell’esercito partigiano di Tito. Riproporre nuovamente questo tema oggi, quando anche in Italia varie mitologie del passato cercano di ribaltare e stravolgere la realtà storica, mi sembra giustificato e opportuno.

* * *

Si tratta di alcuni episodi di un tempo lontano, che influirono fra l’altro sul mio rapporto con l’Italia. Senza di loro, forse, non mi sarei deciso a stabilirmi in questo Paese emigrando dall’ex Jugoslavia in guerra. La mia testimonianza potrebbe essere intitolata Come ho conosciuto l’italiano. Il ragazzino di allora non distingueva “un italiano” dall’italiano in genere.

Era primavera, primi giorni di aprile. Allora cominciò la guerra nel nostro Paese. Ricordo uno strano contrasto: da una parte le giornate luminose e serene, dall’altra i volti scuri e preoccupati. Nel cielo volavano aerei e sganciavano bombe sulla città dove vivevo con mia madre e una sorellina. Mio padre era stato mobilitato nell’esercito e mandato al fronte. All’epoca, nel 1941, non conoscevo neppure il significato della parola fronte, né sapevo dove potesse trovarsi.

A Mostar ci sono diversi ponti sul fiume, tra questi lo Stari Most (il ponte vecchio), che dà il nome alla città. Vi correvo quasi ogni giorno per osservare la Neretva che continuava a scorrere, come aveva sempre fatto, come scorre tuttora. Guardavo nell’acqua e, nell’aria, i gabbiani che venivano dal mare per posarsi accanto a me sul parapetto in pietra. In Erzegovina ci sono più pietre che terra. E la vita è dura.

La nostra città fu occupata dalle truppe italiane. Guardavo quei soldati con sospetto e timore. Il primo che incontrai aveva in testa un elmetto dal quale scendeva un ciuffo di penne: sentii che quei soldati con svolazzanti piume di gallo erano chiamati bersaglieri. Ne fui spaventato, avevo appena compiuto otto anni. Mi parve che fosse mio dovere proteggere la famiglia, essendo “l’unico maschio di casa”. Soprattutto difendere mia sorella, di alcuni anni più piccola di me. Divenni, ai miei stessi occhi, il suo protettore. Mi sentivo molto più adulto, più grande della mia età. La sera, prima di addormentarmi, pregavo con sincero ardore. Smisi di giocare. Evitavo d’incontrare i compagni di giochi. Avevo un cagnolino bianco che si chiamava Buška, divenne il mio migliore amico. Soffrivo nel vedere mia madre costretta a faticare tutta la giornata fuori casa. Era ancora giovane e bella, per me la più bella madre del mondo. Diventavo geloso quando si fermava a parlare con qualcuno: “Andiamo via, su!”, la tiravo per la gonna.

Mio padre non ci dava notizie; presto venimmo a sapere che era finito in un campo di lavori forzati, in qualche parte della lontana Germania. Avevano scoperto che era nato a Odessa e questo bastò per sbatterlo nel lager. Cominciai a scrivergli lettere, le spedivo a un indirizzo che, accanto al nome e al cognome, comprendeva soltanto due parole: “lager” e “Deutchland”. Nella mia innocenza pensavo che i postini sapessero certamente dove si trovava mio padre. Fu così che cominciai a scrivere. Talvolta, ripensandoci, ho l’impressione di non aver fatto altro che scrivere lettere per tutta la vita. Spesso spedite a indirizzi sbagliati…

Eravamo privi di tutto: mancavano il pane e il vestiario, la legna e il carbone per scaldarsi. Mia sorella si faceva sempre più pallida col passare dei giorni. La prese in cura un anziano dottore che da poco era riuscito a fuggire dalla “zona di occupazione” tedesca in Croazia trovando rifugio nella “zona italiana”, dove gli ebrei – e lui era un ebreo – si sentivano più sicuri. Il dottor Jungwiert – così si chiamava, ricordo bene il suo nome – pronunciò un giorno una parola che al solo sentirla mi gelò il sangue nelle vene: “Tubercolosi”. C’era un solo rimedio, spiegò: “Bisogna nutrirla bene”. E con cosa, dottore?

Poi successe qualcosa di peggio: nostra madre tornò dal lavoro con alcuni denti in meno. L’unica merce che si poteva vendere o scambiare per procurarsi dei generi alimentari era l’oro. Mia madre aveva alcuni denti d’oro e se li era fatti estrarre per venderli in cambio di cibo. Ma non bastarono. Tutto quello che era stato comprato fu ben presto consumato. E mia sorella non era ancora guarita.

Qui comincia appunto la storia che voglio raccontare.

Nelle vicinanze della nostra abitazione si trovava una caserma nella quale si sistemarono i soldati italiani. Cercavo di non badarci. Giravo alla larga per non incontrarli, la loro presenza mi era sgradita. Ma un giorno mia madre m’incoraggiò: “È gente che canta. Alcuni pregano pure, certamente ci sono delle brave persone anche fra di loro”. Mi suggerì di avvicinarmi a quei soldati per pregare qualcuno di loro di darci un po’ di riso per la mia piccola sorella. Imparai alcune parole italiane: dare, riso, sorellina, malata. Passai accanto a un soldato, poi a un secondo e a un terzo, farfugliando quelle parole, ma nessuno alzò gli occhi su di me. Probabilmente pensarono che fossi un mendicante. Il primo suonava l’armonica a bocca, il secondo guardava delle fotografie, il terzo era semplicemente immerso nei suoi pensieri. Fermatomi davanti al terzo, pronunciai per la seconda volta le quattro parole imparate a memoria, stavolta spiccicando meglio le sillabe. Mancavano le preposizioni, il verbo non era coniugato. La grammatica era assente ma speravo d’essere capito. Il soldato, infatti, trasalì, mi guardò, mi accarezzò i capelli, disse qualcosa che non capivo. Compresi però di essere di fronte a un uomo mite. Mi fece segno di aspettare, mi avrebbe portato qualcosa.

Tornò presto con una piccola gavetta militare, di color verde, con il coperchio di latta zincata. Il recipiente era pieno di riso cotto e condito. Non lo assaggiai nemmeno, portai subito tutto a casa. Tornai davanti alla caserma l’indomani, ci tornai anche dopodomani, e poi ogni giorno, per farmi riempire la gavetta con la minestra di riso.

Mia sorella, cibandosi di quel rancio militare, prese a star meglio. Ecco, conobbi così “l’italiano”, un soldato che si chiamava Mario. E questa fu la più bella storia in una triste infanzia.

Nell’autunno del Quarantatrè l’esercito italiano in Erzegovina e negli altri territori occupati cessò di combattere. I soldati fuggirono da varie parti, si dispersero. Alcuni passarono nelle file partigiane, altri si arresero ai tedeschi e finirono nello Stalag. Oppure furono trasferiti forzosamente sul fronte orientale, verso l’inverno russo che i giovani mediterranei non sopportavano; altri ancora vagarono qua e là per sfuggire alla cattura, decisi a raggiungere la costa adriatica, mettere le mani su qualche trabaccolo e passare sulla sponda opposta. Tornare a casa. A quell’epoca avevo ormai compiuto undici anni e mi rendevo conto di quello che stava succedendo.

Una sera, sul tardi, qualcuno bussò alla porta della nostra abitazione. Chi è?

“Mario”.

Entrò in casa silenzioso e guardingo. A mio zio, che si trovava nel corridoio d’ingresso, rivolse alcune parole: il soldato cercava un rifugio, una salvezza. Dietro la nostra casa c'era un piccolo locale che serviva da lavanderia. Lo sistemammo “provvisoriamente” in quel vano. Ma trepidavamo per lui e per noi stessi, nel timore che potessero scoprirlo. Ogni giorno, verso l’ora di pranzo, di nascosto, portavo a Mario una parte del poco cibo che noi si riusciva a trovare. Glielo portavo nella stessa gavetta verde che proprio lui mi aveva dato. Non so chi di noi due attendesse con maggior ansia quell’incontro: Mario che rimaneva per l’intero giorno solo e inquieto nell’angusta lavanderia, oppure io che all’improvviso ero diventato “grande”, pari agli adulti, complice del loro gioco. A quel punto sapevo già dire qualcosa di più delle quattro parole d’italiano e riuscivo anche a capire meglio. Imparai, tra l’altro, alcune parole di una canzone canticchiata da Mario, nella quale si parlava di Lugano: Addio Lugano bella… Ma dov’era Lugano? Che città meravigliosa era mai quella cantata dal mio “amico segreto”?

Non ricordo bene quanto tempo durarono quei nostri incontri. Ripensandoci, a volte mi pare che si protrassero a lungo, altre volte che passarono presto. Un giorno Mario mi spiegò che desiderava incontrare di nuovo mio zio, voleva parlargli. Mio zio aveva evitato la chiamata al fronte per una ferita alla gamba, che gli era valsa la destinazione a non so quali lavori nelle “retrovie”, a compiti sulla cui natura non osavamo chiedergli spiegazioni. S’incontrarono quella stessa sera, senza di me. L’indomani Mario sparì.

Mi sentivo triste, abbattuto. Perchè non mi aveva avvertito? Come ha potuto? Gli scrissi una lettera piena di rimproveri, ma non sapevo a quale indirizzo spedirla. Mia madre mi disse che dovevo gettarla nel fuoco, distruggerla, “per non farla trovare”, per evitare guai. Perchè, aggiunse, “Mario ha raggiunto il bosco”. E questo, a quell’epoca, significava che si era unito ai partigiani.

La guerra continuò. Continuarono anche le nostre tribolazioni, ma ormai ci eravamo abituati. I parenti che vivevano in campagna ci portavano ogni tanto quel poco di cibo che bastava a tenerci in vita. Vendemmo tutto ciò che si poteva vendere. C’indebitammo.

Trascorrevo tutto il tempo libero a suonare su un vecchio pianoforte, sognando di diventare un pianista famoso e guadagnare, così, un sacco di quattrini, tanti da poter pagare i debiti, rimettere a posto i denti della mamma, sfamare tutti i bambini della città. Mi innamorai di una giovane suora che mi dava lezioni gratuite di piano, avevo già dodici anni.

Si attendeva da un giorno all’altro che la guerra finisse. Ogni sera ascoltavamo Radio Londra. A Napoli c’erano già gli alleati. I russi si avvicinavano ormai ai confini del nostro Paese e proprio da loro mi attendevo il miracolo: ero sicuro di trovare fra i soldati russi, quando sarebbero arrivati da noi, qualcuno dei parenti di mio padre che fino ad allora non eravamo riusciti a conoscere. Un parente che sicuramente aveva una bella voce per cantare. Gli davo i nomi che trovai nella letteratura russa che cominciavo a leggere in lingua: Anatolij, Serghej, Vsevolod.

Il 13 febbraio 1945 finalmente Mostar venne liberata. In città entrarono i partigiani. In mezzo a loro c’erano numerosi combattenti italiani sparsi tra le varie brigate. C’era anche un intero battaglione chiamato Garibaldi. La sera di quel lungo e freddo giorno di febbraio qualcuno tornò a bussare alla porta della nostra casa. Il cuore mi salì in gola. Dal suono o meglio dalla cadenza e dall’intensità di quel bussare riconobbi qualcosa che già avevo sentito. Era il bussare di una mano familiare.

“Sono Mario”.

Era tornato! Mi abbracciò, mi piantò sulle sue ginocchia. Rimase con noi non so quanto nella gelida stanza della nostra casa. “Tornerò domani”, s’accomiatò. E venne ogni giorno, per tre o quattro settimane, fino a quando il suo battaglione rimase in città. Tornò ad aiutarci. Le navi alleate avevano cominciato a gettare le ancore nel porto di Dubrovnik, sbarcando armi, munizioni e viveri per l’esercito partigiano e per la popolazione. Sui pacchi degli aiuti stava scritto UNRRA. Ancora ricordo com’erano fatti. C’era di tutto in quei pacchi, dal vestiario alla cioccolata. Aspettavamo l’arrivo di Mario ogni giorno verso mezzogiorno, chiedendoci che cosa ci avrebbe portato.

Ma la guerra non era finita. I partigiani si accingevano a sfondare le linee tedesche per proseguire la marcia verso il nord del Paese. All’inizio di aprile, liberarono Sarajevo. Nel corso della primavera – l’ultima primavera di guerra – se ne andò anche Mario per partecipare alle operazioni finali. “Tornerò”, disse nella nostra lingua: “Vratit ću se!”.

Non tornò.

Non riuscimmo a sapere più nulla di lui. Le ultime operazioni belliche impegnarono l’esercito in scontri durissimi: i partigiani erano abituati alla guerriglia, non alla guerra frontale. Molti persero la vita in quelle battaglie di aprile e nei primi giorni di maggio. Se avesse potuto, Mario sarebbe certamente tornato.

Sapeva che io lo aspettavo.

Ma non tornò.

La storia che ho voluto raccontare, tuttavia, non è ancora terminata. La guerra lasciò irrisolti molti problemi su un territorio verso il quale la grande Storia non è stata molto tenera. Mi avviai agli studi superiori, ma non a quelli di musica: m’iscrissi al quadriennio di lingue e letterature romanze a Sarajevo; presi a studiare seriamente anche l’italiano. A causa dell’insonnia e della depressione – disturbi cominciati probabilmente con le notti passate in bianco durante la guerra – fui costretto a lasciare i libri. Nel frattempo mi chiamarono alla leva militare. La naia mi toccò nel periodo peggiore: era scoppiata la cosiddetta “crisi di Trieste”, che minacciava di trasformarsi in una nuova guerra. Dalla caserma di Zemun, presso Belgrado, dove si trovava il mio battaglione, fui trasferito sul monte Platak che domina la città di Rijeka/Fiume. In quella regione di frontiera il nostro addestramento militare, con tiri, finte battaglie e lunghe marce, continuò giorno dopo giorno, nelle ore mattutine e in quelle pomeridiane. Eravamo pronti a intervenire nel vicino Territorio di Trieste suddiviso nelle Zone A e B. Le marce si protraevano per diverse ore, cadevamo a terra per la stanchezza; correvamo all’assalto di immaginari fortini e trincee nemiche, eseguendo gli ordini, sparando e urlando “hurrah”. Gli allarmi si ripetevano ogni notte, lasciandoci poche ore di sonno. Servivano a tenerci pronti a qualsiasi evenienza. “Sveglia! Il nemico non dorme!”, urlavano gli ufficiali di picchetto, ma non dormivo neppure io. Anche dall’altra parte del confine le giovani reclute italiane si preparavano alla resa dei conti con “sti slavi”, anche loro si addestravano, marciavano, correvano all’assalto, sparavano contro di noi con tutte le armi. Mi tormentava un pensiero: “E se Mario avesse un figlio e quel ragazzo fosse dall’altra parte del confine? Se scoppiasse la vera guerra e lo colpissi?”. Mi consolavo pensando al fatto che ero un cattivo tiratore, avrei certamente mancato il bersaglio. Anche oggi, quando in Italia incontro qualche mio coetaneo, mi chiedo se non sia stato in mezzo a coloro che io avrei dovuto uccidere o che avrebbero potuto uccidere me.

Una sera, alla periferia di Fiume, sentii tre ragazzi e una ragazza che, seduti in disparte, cantavano in italiano la canzone Vola, colomba bianca vola… Cantavano sottovoce, con nostalgia, ma anche con una punta di orgoglio. Quando scorsero il soldato che si avvicinava – ero io – se la diedero a gambe. Non riuscivo a credere ai miei occhi: c’è qualcuno che fugge alla mia vista, cioè al cospetto di un ragazzo pallido e nervoso, studente universitario senza laurea, figlio di un emigrato di Odessa, “amico di Mario”!

Ben presto mi fu raccontata la storia dell’esodo dei nostri italiani dalle terre istroquarnerine. Venni a conoscere anche l’altra storia, quella dei massacri compiuti dalle Camicie nere in Dalmazia e in Montenegro durante l’occupazione. Non riuscivo a credere o non volevo credere né all’una né all’altra, eppure sentivo e intuivo che in entrambe c’era del vero. Fu così che divenni anch’io un componente della minoranza, non soltanto nazionale o politica, ma della minoranza in assoluto. Ignoravo dove la cosa mi avrebbe portato. Forse non soltanto nella letteratura.

Qualche anno più tardi, avendo conosciuto non pochi intellettuali della minoranza italiana del territorio istro-quarnerino, mi fu più facile capire i problemi di quegli italiani esuli e di quelli “rimasti con noi” e talvolta dimenticati dai loro connazionali. Era possibile collaborare con q uel piccolo “popolo d’Italia” nella Jugoslavia che non era ancora “ex”: ricordo in questa occasione Giacomo, Eros, Nelida, Lucio, Alessandro, Claudio e altri amici che conobbi prima di arrivare nella patria di Mario.

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