venerdì 28 settembre 2012

GRECIA: TROVATO L'ACCORDO SULLE NUOVE MISURE DI AUSTERITY. IN ARRIVO ANCHE NUOVE PROTESTE

Giornata di mobilitazione, con qualche momento di violenza, ieri ad Atene e nelle principali città greche per lo sciopero generale indetto dai sindacati, il primo dalla formazione del governo Samaras dopo le recenti elezioni anticipate. Grecia paralizzata decine di migliaia di persone in piazza per un'ennesima protesta contro il nuovo pacchetto di duri tagli alla spesa pubblica e riforme messo a punto dal ministro delle Finanze, Yiannis Sturnaras, che dopo l'ok del primo ministro Samaras ha avuto il via libera anche dagli alleati di governo (oltre al partito del premier, Nea Demokratia, i socialisti del Pasok e Sinistra Democratica) e che dovrà ora ottenere il placet della troika Ue, Fmi e Bce. Il nuovo giro di vite, che vale 13,5 miliardi di euro, è necessario per ottenere la nuova tranche di aiuti internazionali da 31,5 miliardi, senza i quali Atene rischia la bancarotta. Lo sciopero generale ha paralizzato ogni attività economica: scuole e uffici pubblici chiusi, navi ferme nei porti, trasporti pubblici in attività solo per portare i partecipanti alle manifestazioni al centro di Atene per una protesta che le cronache hanno descritto come la più grande da quella del maggio 2011. 

Anche ieri, nella capitale greca, non sono mancati momenti di tensione con il lancio di molotov da parte di alcuni gruppi di manifestanti contro gli agenti che hanno reagito con cariche e un nutrito lancio di lacrimogeni. Ci sono stati alcuni feriti tra i poliziotti, ma complessivamente gli incidenti sono stati molto meno gravi di quelli avvenuti nei mesi scorsi in altre situazioni analoghe e la situazione è tornata ben presto alla calma. Questo è stato dovuto certamenrte al grande spiegamento delle forze dell'ordine, che presidiavano in massa il Parlamento e gli altri obiettivi sensibili, ma probabilmente anche al senso di rassegnazione che sembra ormai prevalere nella popolazione, che si rende conto dell'ineluttabilità delle misure di austerità ma vorrebbe maggiore giustizia nella ripartizione del peso dei sacrifici che, secondo le indiscrezioni, riguarderebbero un ulteriore diminuzione degli stipendi, l'eliminazione delle tedicesime, l'aumento dell'età pensionabile, la riduzione delle pensioni sopra i 1000 euro e il taglio del numero dei dipendenti pubblici.

"Le nuove insopportabili e dolorose misure non devono passare, questa politica è senza sbocco e distrugge lo stato sociale", ha detto il presidente del sindacato Adedy, Costas Tsikrikas. Alexis Tsipras, il leader di Syriza, il partito della sinistra radicale, ha attaccato duramente il governo Samaras. "Ora la parola passa alla società... La Grecia non potrà essere trasformata in un enorme cimitero sociale". Aleca Papariga, segretario generale del Partito comunista, ha nuovamente attaccato l' Unione europea, ritenuta responsabile delle sofferenze dei greci: “'Il popolo greco deve capire che una Grecia svincolata dall'Ue, può garantirsi il benessere sociale ed evitare il peggio”. Tuttavia, la grande maggioranza dei suoi concittadini, almeno stando ai sondaggi, continua a ritenere giusta la permanenza nell'euro pur essendo molto scettica sulla possibilità di evitare il crack. Intanto fonti vicine ai sindacati hanno fanno sapere che le manifestazioni contro il governo continueranno probabilmente con un nuovo sciopero generale già all'inizio di ottobre. Le tensioni in Grecia, dunque, non sono destinate a placarsi in tempi brevi.

Intervista a Elisabetta Casalotti da Atene per il notiziario di Radio Radicale




giovedì 27 settembre 2012

ONU: LA SERBIA ALLA PRESIDENZA DELL'ASSEMBLEA GENERALE

di Marina Szikora [*]
In vista dell'apertura della 67esima sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il suo presidente, l'ex ministro degli esteri serbo, Vuk Jeremić afferma fermamente che il premier del Kosovo Hasquim Taci in questa occasione non prendera' la parola come premier di uno stato indipendente. Ospite del notiziario dell'emittente serba B92, il neoeletto presidente di questa sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha sottolineato che i capi e rappresentanti di stati per la prima volta parleranno anche dello stato di diritto. "Abbiamo messo in evidenza i temi relativi alla sovranita' e unita' degli stati. Penso che questa sia una questione importante anche per la Serbia" ha detto Jeremić, aggiungendo che nel mondo esiste un gran numero di Paesi, innanzitutto quelli piccoli, per i quali il diritto internazionale e' di importanza fondamentale.
Lunedi' quindi, un giorno dall'apertura ufficiale della 67esima Assemblea Generale, si e' tenuta la riunione dedicata allo stato di diritto ad alto livello. Partecipando a questa riunione, il premier croato Zoran Milanović nel suo intervento ha detto che la Croazia e il suo governo sono pienamente impegnati a rispettare lo stato di diritto perche' lo riconoscono come l'essenza di qualsiasi societa' democratica. Il premier croato ha ricordato la lunga ed impegnativa via che la Croazia ha passato negli ultimi vent'anni sottolineando che tutto questo tempo ha compiuto sforzi a fin di rispettare i principi dello stato di diritto. Milanović ritiene che ogni governo dovrebbe attingersi costantemente alle norme internazionali ed ai meccanismi nella lotta contro la corruzione, criminalita' organizzata, terrorismo e serie violazioni del diritto umanitario.Il premier croato ha rilevato che a fin di rafforzare lo stato di diritto, i paesi dovrebbero collaborare meglio soprattutto nell'ambito delle Nazioni Unite e ha invitato il Consiglio di Sicurezza e l'Assemblea Generale a contribuire a questo obiettivo. Milanović ha salutato anche la dichiarazione sullo stato di diritto rilevando soprattutto di appoggiare l'intenzione delle Nazioni Unite a collegare lo stato di diritto e i tre pilastri fondamentali dell'organizzazione mondiale: pace e sicurezza, diritti umani e sviluppo e contribuire cosi' ad un mondo piu' progressivo, piu' di pace e piu' giusto.

Sempre a New York, lunedi' la ministro degli esteri ed affari europei croata, Vesna Pusić ha incontrato per la prima volta il suo neo collega serbo, Ivan Mrkić in un colloquio durato una quarantina di minuti. Un incontro questo, che secondo i media croati, ha rappresentato una specie di inventario delle questioni aperte tra Serbia e Croazia. L'accusa di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia non e' stata menzionata. Comunque, non si e' parlato soltanto del passato bensi' anche del futuro, quello comune, europeo, informa la radioteleviosione croata HTV. Sono stati individuati tre gruppi di temi che entrambi le parti ritengono siano importanti. Il primo gruppo rigurada i temi del passato, vale a dire le questioni aperte che esistono tra i due paesi dovuti alle guerre degli anni novanta. Si e' parlato anche della collaborazione economica nel momento quando la Croazia il prossimo primo luglio 2013 aderira' all'Ue e al tempo stesso uscira' dalla CEFTA, l'Accordo centroeuropeo sul libero commercio. Come spiegato dalla ministro Pusić, e' interesse sia della Serbia che della Croazia stabilire un regime piu' possibilmente liberale e una collaborazione economica piu' facile. Il terzo gruppo di temi riguarda il comune futuro europeo e la necessita' di assumersi la responsabilita' per la stabilizzazione della regione. Esistono questioni aperte del passato, ma abbiamo anche molte cose che ci attendono nel futuro e per questo collaboreremo regolarmente, ha detto il ministro serbo Mrkić.

A rappresentare la Serbia all'Assemblea Generale a New York c'e' il presidente Tomislav Nikolić. Siccome il Kosovo non e' membro delle Nazioni Unite, si prevede cha la presidente kosovara Atifete Jahjaga vi partecipera' o come ospite della delegazione dell'Albania oppure in conessione con la missione Onu in Kosovo – l'UNMIK. La Serbi non e' pronta a nessuna condizione a riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ha detto il suo presidente Tomislav Nikolić martedi', prima giornata dell'Assemblea Generale, informano i media serbi. Nikolić ha aggiunto che nel proseguimento dei negoziati con Priština la Serbia "entra pienamente pronta a contribuire ad una vita migliore di tutti i cittadini del Kosovo, in condizioni democratiche e sicure" ma "non negoziera' sull'attuazione dell'indipendenza" del Kosovo che Nikolić ha qualificato come "un cosidetto stato". Il presidente serbo ritiene che la questione del Kosovo si puo' risolvere in modo pacifico e ha promesso che la Serbia adempiera' tutti gli obblighi che finora aveva assunto. Si e' lamentato pero' che i negoziati svoltisi finora con Priština hanno rappresentato la soddisfazione dei desideri della parte albanese e il cedimento da parte della precedente lidership serba. Nikolić ha ripetuto che la Serbia offre adesso una proposta concreta, vale a dire i negoziati diretti al piu' alto livello politico. Il presidente serbo ha constatato che l'accordo tra Serbia e Kosovo puo' essere raggiunto soltanto attraverso il consenso ma ha precisato che su questa parte del territorio serbo viene violata la Carta delle Nazioni Unite e che la proclamazione dell'indipendenza kosovara e' "un precedente pericoloso" e una minaccia di lunga portata alla stabilita' di quest'area. "La Serbia vuole sinceramente diventare membro a pieno titolo dell'Ue e sta costruendo con pazienza le relazioni di fiducia e pace nella regione appesantita da una storia difficile" ha rilevato Nikolić nel suo intervento alle Nazioni Unite.

[*] Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è tratto dalla puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale

PASSAGGIO IN ONDA

E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est trasmessa da Radio Radicale oggi 27 settembre. La trasmissione è riascoltabile nella sezione "In Onda" del blog oppure, insieme a quelle precedenti, sul sito di Radio Radicale.

mercoledì 26 settembre 2012

CROAZIA: RICATTO SLOVENO SUI DEBITI DELLA LJUBLJANSKA BANKA

Articolo di Davide Denti pubblicato su Eastjournal.net
La Slovenia rischia la faccia a Bruxelles: l’ultima mossa del governo Janša è vista in sede europea come un vero ricatto. Lubiana non ratificherà il trattato di adesione della Croazia (mossa già compiuta da 14 stati UE su 27) se Zagabria non cederà sulla questione dei debiti della Ljubljanska Banka di jugoslava memoria.
A seguito del fallimento della Ljubljanska Banka negli anni ’90, 172 milioni di euro di risparmi di 130.000 cittadini croati finirono direttamente nel debito pubblico sloveno. L’istituzione-figlia, la Nova Ljubljanska Banka (NLB), è stata citata in giudizio da due banche croate per riottenere il denaro. Ma secondo la Slovenia l’intera vicenda va giudicata nel contesto degli accordi di successione alla Jugoslavia, direttamente in sede della Bank of International Settlements (BIS) di Basilea in Svizzera. Il governo HDZ di Kosor nel 2010 aveva accettato il principio dei negoziati in sede BIS, ma a fronte di pochi progressi sulla questione l’attuale governo socialdemocratico sembra essere tornato all’idea della risoluzione bilaterale. Nel frattempo, lo scorso mese di giugno la Slovenia ha versato altri 382 milioni di euro nelle casse della NLB per impedirne una nuova bancarotta.
Il ministro degli esteri sloveno Karl Erjavec aveva già sottolineato la questione in giugno e vi è tornato in settembre: “Personalmente mi auguro che la Croazia acceda all’Unione Europea il prima possibile e che l’accordo sia ratificato… ma la precodizione a ciò è che venga risolta la questione della Ljubljanska Banka“.
La comunità diplomatica europea di Bruxelles tuttavia non è affatto felice della mossa slovena: la Commissione e i funzionari degli stati membri vedono come fumo negli occhi questa intromissione di una questione bilaterale in una complessa procedura pluriannuale di rilevanza continentale. La Slovenia sembra sempre più fare la figura del rompiscatole che cerca di far pesare il proprio status di paese membro per risolvere i suoi problemi bilaterali, a scapito dell’interesse generale. Un po’ come Cipro, la cui questione avvelena le fondamentali relazioni tra l’Unione e la Turchia. Per questo la pressione su Lubiana aumenterà a partire dal 10 ottobre, con la pubblicazione dell’ultimo rapporto della Commissione sull’allargamento alla Croazia. Se, come plausibile, questo sarà positivo, la Slovenia non avrà più alibi per tenere in sospeso la ratifica del trattato d’adesione.
Secondo l’analista politico croato Davor Gjenero, inoltre, la questione potrebbe essere gonfiata da entrambe le parti per fini elettoralistici. La Slovenia va alle urne in ottobre per eleggere un nuovo capo di stato, la società è molto divisa e il paese è sull’orlo della bancarotta: riattizzare un “nemico esterno” è una strategia populista che potrebbe servire gli interessi elettorali dell’attuale governo a Lubiana. Se così fosse, il contenzioso dovrebbe rientrare una volta passata la stagione elettorale (pur senza una soluzione in vista per i risparmiatori della LB), e Zagabria non dovrebbe subire eventuali ritardi nel suo accesso all’Unione, previsto per luglio 2013.
Le relazioni bilaterali avevano già messo i bastoni tra le ruote all’adesione della Croazia all’UE nel 2008, quando Lubiana minacciò di bloccare i negoziati per via del contenzioso sui confini marittimi nel golfo di Pirano – questione che la Croazia si impegnò a risolvere tramite arbitrato internazionale, ma che resta ancora aperta. Ancora, l’anno scorso la Slovenia si era messa in cattiva luce quando gli interessi economici di una azienda slovena di costruzioni avevano spinto il governo di Lubiana a mettere il veto ad ulteriori sanzioni contro la Bielorussia, attirandosi l’ira della Polonia e venendo infine costretta a fare un passo indietro.
C’è da augurarsi che la Croazia abbia appreso la lezione e che non si comporti allo stesso modo una volta fatto il suo ingresso nell’UE. I propositi sembrano buoni: dopo la questione del golfo di Pirano, Zagabria dichiarò solennemente che non avrebbe mescolato questioni bilaterali e multilaterali impedendo l’integrazione degli altri stati balcanici. E ultimamente sembra essere vicina alla soluzione anche la questione croato-bosniaca del corridoio di Neum / ponte di Peseljac, grazie alla mediazione UE.


MILORAD DODIK TORNA A NEGARE IL GENOCIDIO DI SREBRENICA

di Marina Szikora [*] 
Ennesima provocatoria dichiarazione del presidente della Republika Srpska, l'entità a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina, Milorad Dodik, il quale ancora una volta nega che a Srebrenica sia stato commesso un genocidio. “I serbi sono gente buona, un popolo orgoglioso, sono buoni anche i bosgnacchi come popolo, ma hanno una cattiva politica”, ha affermato Dodik. E ha proseguito sostenendo che da sempre si cerca di trasformare Srebrenica in un brutto posto per i serbi con l'affermazione che lì è stato commesso un genocidio.
“Io affermo che non e' stato commesso il genocidio. Non vi e' stato nessun genocidio. Esisteva un piano secondo il quale certi stranieri e politici bosgnacchi volevano addossarci la colpa e la responsabilità per qualcosa che noi non abbiamo fatto”, ha dichiara Milorad Dodik, che è anche il leader del maggiore partito serbo nella Republika Srpska. Va sottolineato che si tratta di un intervento nel pieno alla campagna elettorale per le elezioni amministrative che si svolgeranno in Bosnia il prossimo mese.
Dodik ha aggiunto di tenere allo sviluppo della città di Srebrenica e che i serbi non devono essere più trascurati ed umiliati come sono stati finora. I circoli politici di Sarajevo e certi rappresentanti internazionali avevano bisogno di una storia in cui si dice che i serbi sono i cattivi ragazzi, mentre i bosgnacchi sono le vittime. Questo deve finire, ha concluso Dodik, aggiungendo che il suo partito vincerà a Srebrenica e che saranno loro a prendersi cura dei serbi in questa città.
[*] Corrispondente di Radio Radicale

LA CRISI SIRIANA METTE LA TURCHIA IN DIFFICOLTA'

Frontiera Turchia-Siria nel 2009 (pillandia.blogspot.it)
La Turchia si sente lasciata sola dalla comunità internazionale nella gestione del problema dei profughi siriani, senza che si profilino soluzioni concrete ad una situazione che si aggrava di giorno in giorno. Al momento i rifugiati siriani arrivati nei campi allestiti dalle autorità turche sono 90mila, a fronte di una capienza che secondo i media locali può arrivare a 120mila unità, ben superiore, quindi, a quella soglia psicologica di 100mila indicata dal ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu. Lo scriveva ieri Marta Ottaviani, corrispondente dell'agenzia TMNews, in una serie di lanci in cui spiegava che, anche se la situazione dovesse rimanere invariata, la Turchia si trova già ora a fare i conti con tre problemi: la gestione dell'emergenza lasciata tutta sulle sue spalle, questo almeno è quanto denuncia Ankara, il fallimento di una politica estera regionale che aveva fatto della Siria il Paese di riferimento e l'eccessiva e prematura opposizione al regime di Assad che per il momento ha prodotto solo la recrudescenza della guerriglia separatista curda.

Ankara, dopo aver chiesto un contributo economico per la gestione dell'emergenza da condividere con l'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr), sostiene che quei soldi vengono ora bloccati dai Paesi occidentali. "C'è una crescente sensazione in Turchia che, avendo fatto sacrifici e gestito autonomamente questa situazione, il risultato sia di portare la Comunità internazionale alla noncuranza e alla mancanza di azione", ha detto Davutoglu. Il quotidiano Hurriyet, tuttavia, sostiene che fu la Turchia un anno fa a rifiutare l'assistenza internazionale, mentre adesso si ritrova nella situazione di dover fare pressioni per ottenere un intervento esterno: “Ma le cose non funzionano così. Preferiamo dare assistenza tramite le Nazioni Unite”, ha detto un dirigente europeo al quotidiano. Il problema è che però le autorità di Ankara non sono intenzionate a cedere il controllo dei campi profughi all'Unhcr. Intanto i profughi aumentano e i costi lievitano.

Il governo islamico-moderato di Recep Tayyip Erdogan, nota ancora Marta Ottaviani, deve fare i conti anche con la propria immagine di attore protagonista regionale e con il rischio che la crisi siriana finisca per compromettere seriamente l'ambizione di diventare un grande attore in Medio oriente. C'è poi la recrudescenza degli attacchi dei separatisti curdi, che sono aumentati in parallelo all'escalation del conflitto siriano, tanto che Ankara accusa apertamente Damasco di fomentare e finanziare la guerriglia curda nel sud est della Turchia. Il governo Erdogan, che da anni nutre l'ambizione di diventare il Paese chiave della geopolitica regionale, secondo le teorie dell'attuale ministro degli Esteri, messa alla prova dalla crisi siriana si sia ritrovata scoperta e troppo esposta a conseguenze non previste anche all'interno dei suoi confini. E in questa situazione non aiuta il difficile rapporto con gli alleati occidentali e con gli Usa che non appoggiano concretamente la richiesta di creare una zona di protezione che metta la Turchia al riparo dal rischio terrorismo.

Per il momento, concludeva Marta Ottaviani, la Turchia si trova dunque ad essere il Paese più esposto avendo puntato sulla caduta di Assad, ma che nella attuale situazione ha più da perdere. Oltre all'emergenza profughi, infatti, il governo deve fare i conti con un'opinione pubblica che, soprattutto nel sud est, è sempre più critica riguardo alla politica nei confronti della Siria, visti anche i rapporti economici privilegiati con Damasco che ormai sono un lontano ricordo.


giovedì 20 settembre 2012

LIBERTA' VIGILATA PER VICDAN OZERDEM MA RISCHIA ANCORA L'ESTRADIZIONE IN TURCHIA

Vicdan Ozerdem, giornalista e attivista turca condannata nel suo Paese per "delitto verbale", è stata rilasciata lunedì 17 settembre dal carcere di Dubrovnik, in Croazia dove era stata arrestata quest'anno durante una vacanza. Vicdan Ozerdam gode dell'asilo politico in Germania. I giudici croati avevano stabilito la scorsa settimana che nulla ostacolava l'estradizione in Turchia della giornalista, suscitando la reazione negativa del premier, Zoran Milanovic, il quale ha dichiarato che "una persona di tale influenza non sarà consegnata alla Turchia". I giudici che hanno deciso la scarcerazione hanno imposto alla giornalista il divieto di allontanarsi dall'attuale residenza provvisoria.


Di Marina Szikora [*]
A soli due giorni dalle dichiarazioni del premier croato, il socialdemocratico Zoran Milanović, che il suo governo non estraderà mai Vicdan Ozerdem, condannata a causa di un “delitto verbale”, il giudice del tribunale della contea di Dubrovnik ha deciso che la giornalista turca puo' lasciare il carcere fino alla fine del processo di estradizione. Va detto che il consiglio dello stesso tribunale venerdi' scorso aveva deciso in prima istanza che la giornalista turca puo' essere estradata in Turchia. Lunedi' invece Vicdan Ozerdem e' stata rilasciata con il divieto di abbandonare il luogo di soggiorno e ogni giorno deve fare presentarsi alla polizia. Vicdan Ozerdem e' un'altra vittima di persecuzione politica. E' stata arrestata lo scorso 25 luglio in Croazia, nella citta' di Metković giuntaci in vacanza dalla Germania dove gode dello status di rifugiata. Recentemente le sue condizioni di salute sono peggiorate ed e' stata trasferita nell'infermeria del carcere.

Emozionatissima, palesemente dimagrita e con difficolta' a parlare, all'uscita dalla prigione, la giornalista turca ha dichiarato di "credere nella decisione umana e giusta", aggiungendo di aver sentito le dichiarazioni del premier Milanović e di essergli molto grata. Ozerdem ha detto che in carcere tutti si sono comportati bene verso di lei e hanno tentato di aiutarla e di consolarla. L'ombudsman croato, Jurica Malčić, in una lettera inviata al ministero della Giustizia croato ha sottolineato di ritenere che, in caso di estradizione della giornalista verso la Turchia, la Croazia agirebbe in contrasto con gli standard internazionali di protezione dei diritti umani e che per questo bisogna consentirle il ritorno in Germania dove ha ottenuto l'asilo politico.

Dai colloqui con Vicdan Oezerdem e dalla documentazione raccolta risulta che la giornalista sia stata arrestata in Turchia perche' aveva preso parte alle manifestazioni contro la repressione del governo e la liberta' di parola. Durante la carcerazione era stata sottoposta ad anni di tortura, si legge nella lettera dell'ombudsman. L'estradizione, prosegue la lettera dell'ombudsman Malčić, in questo caso concreto sarebbe contraria all'articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, all'articolo 3 della Convenzione europea sull'estradizione, alla prassi della Corte europea per i diritti umani nei casi relativi al pericolo di violare l'articolo 3 della Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e liberta' fondamentali, all'articolo 12 della Legge sull'aiuto giuridico internazionale, alla Legge sull'asilo e altre norme rilevanti.

[*] Corrispondente di Radio Radicale

BOSNIA ERZEGOVINA: SITUAZIONE SEMPRE PIU' CONFUSA IN VISTA DELLE ELEZIONI LOCALI

Di Marina Szikora per Radio Radicale [*]
Il 7 ottobre si vota in Bosnia Erzegovina per le elezioni amministrative. Sulla campagna elettorale in corso è da segnalare l'analisi di Gordan Duhaček, che sul sito di informazione croato tportal afferma che sin dall'inizio e' stato chiaro che queste elezioni saranno ricordate per "dichiarazioni bizarre, spot elettorali senza gusto e manifesti che non sarebbero ideati nemmeno dagli studenti del primo anno di disegno". Sono molti a giudicare che dalla fine della guerra del 1995 la Bosnia Erzegovina non era mai stata in una situazione cosi' caotica come adesso. Nella Federazione di Bosnia Erzegovina, l'entita' a maggioranza croato-bosgnacca, non e' molto chiaro chi veramente stia governando ed e' altrettanto confusa la divisione del potere a livello statale. Il Partito socialdemocratico ha rotto la coalizione con il maggior partito bosgnacco, il Partito dell'azione democratica, ma si e' riunito con l'Hdz, la Comunita' democratica croata, che ancora recentemente cercava con tutte le forze di allontanare dal potere. I socialdemocratici, nello stesso modo, sono freschi dell'accordo di coalizione con il partito dell'oligarca Fahrudin Radončić, noto alle cronache per i suoi stretti contatti con la criminalità organizzata. Cambiamenti di potere si sono avuti anche a livello dei cantoni e in questa situazione caotica i partiti si accusano a vicenda fino davanti alla Corte costituzionale. Come sottolinea il giornalista croato, mentre vengono violate tutte le possibili procedure, non si svolge la concreta attività di governo. Per quanto riguarda l'altra entita', la Republika Srpska a maggioranza serba, la massima autorita' che governa in tutti i sensi e' il presidente Milorad Dodik. Gordan Duhaček conclude su tportal.com che tutti i politici si candidano senza proporre assolutamente soluzioni concrete per i problemi locali e comunali perche' e' chiaro che loro tali soluzioni non ce l'hanno.

A proposito di tutto cio', nel pieno della campagna elettorale, il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, ha dichiarato che "la soluzione migliore" per uscire dalla crisi in Bosnia Erzegovina e' l'istituzione di una alleanza di "tre repubbliche". Dodik ritiene che i politici croati in Bosnia dovrebbero condurre il popolo al referendum per esprimersi sulla loro posizione nei confronti della occupazione della società da parte dei bosgnacchi. L'unica soluzione, secondo l'opinione di Dodik, e' che i croati rigettino tutte le proposte e articolino chiaramente la loro posizione. Dodik afferma di essere contento perche' i politici croati guidati dall'HDZ e dai suoi leader, Dragan Čović e Božo Ljubić, hanno precisato chiaramente le loro posizioni. Il leader serbo-bosniaco, giudicando la politica bosgnacca inaffidabile e spesso conflittuale, ritiene che la Federazione di Bosnia Erzegovina dovrebbe dividersi a sua volta in due parti dando vita alla cosiddetta "Erzeg Bosna", mentre il resto del Paese si articolerebbe in Bosnia e Republika Srpska. Cosi' si formerebbe una alleanza tripartita a livello statale che avrebbe meno competenze rispetto ad oggi. Secondo Dodik, lo stato comune dovrebbe avere soltanto competenze sulla politica estera, la sicurezza e il commercio internazionale.

In una intervista per l'edizione bosniaca del quotidiano di Zagabria Večernji list, Milorad Dodik afferma che la Bosnia Erzegovina non provoca in lui nessun altro sentimento che il disgusto. Secondo Dodik Sarajevo oggi e' una citta' etnicamente pulita, in cui non ci sono ne' serbi ne' croati. Il giornale scrive che Dodik propone ai croati di non accettare nessun tipo di riordinamento della Fedarazione Bosnia Erzegovina bensi' la creazione dell'entita' croata, se non vogliono perdere altri 20 anni. Dodik ha ribadito l'idea della formazione di una nuova, terza entita', quella croata, che si chiamerebbe Erzeg Bosna e potrebbe coesistere insieme alla Republika Srpska e alla Bosnia che diventerebbe così l'entità bosgnacca. 'Večernji' aggiunge che secondo Dodik adesso in Bosnia Erzegovina si sta conducendo un esperimento internazionale secondo il quale i serbi ed i croati dovrebbero essere disciplinati mentre si dovrebbe cedere ai bosgnacchi. Una tale situazione, secondo il leader serbo-bosniaco, e' patologica. Grazie a questa situazione, afferma Dodik, i bosgnacchi sono convinti di essere vittime e di avere maggiori diritti rispetto agli altri due popoli. Ma secondo Dodik questo non e' vero, ci sono state vittime da tutte le parti ma le vittime bosgnacche erano piu' numerose poiche' questo popolo e' il piu' numeroso in Bosnia Erzegovina.

[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 20 settembre 2012 a Radio Radicale

IL DIFFICILE CAMMINO VERSO LA RICONCILIAZIONE NEI BALCANI

Conturi Hakudoushi - www.deviantart.com
Di Marina Szikora per Radio Radicale [*]
Quando si parla della regione balcanica, indispensabile per una stabilita' permanente e sempre nel contesto del suo avvicinamento all'Ue, e' la questione delicata della riconciliazione. Le relazioni della Serbia con i paesi vicini non si possono definire ancora come "una buona collaborazione", ma gli esperti affermano che sono stati compiuti passa avanti. Pare che nella regione stia scomparendo lo scetticismo a causa del ritorno delle forze degli anni novanta al potere in Belgrado. Questo almeno secondo un commento della Deutsche Welle tedesca. Tali osservazioni riguardano i due giorni di visita del premier serbo Ivica Dačić a Sarajevo che secondo molti sarebbe stato un passo avanti significativo nella politica di Belgrado verso la Bosnia Erzegovina. A giudicare dalle parole che Dačić ha espresso a Sarajevo, il suo governo sarebbe pronto ad una collaborazione non soltanto di facciata. Sarajevo non dovrebbe essere risentita con Belgrado se questa ha relazioni speciali con la Republika Srpska [l'entità a maggioranza serba della Bosnia, n.d.r.] e se i suoi vertici si recano in visita a Banja Luka, come, d'altra parte, nemmeno Banja Luka dovrebbe polemizzare con Belgrado quando ha relazioni con la Bosnia. Dačić ha aggiunto che si continua a ripetere che è necessaria una distensione con il Kosovo, ma bisognerebbe prima puntare alla distensione in tutte nelle relazioni tra tutti i Paesi della regione: "20 anni dopo lo scioglimento della Jugoslavia, continuiamo a girare nello stesso circolo magico", ha detto il premier serbo. Per molti, cosi' il commento della Deutsche Welle, cio' significa che la politica di Ivica Dačić e' chiara e che non ha due facce, a differenza della politica dell'ex presidente Boris Tadić. Alcuni giorni fa Dačić aveva affermato chiaramente che la collaborazione anche con la Republika Srpska, con la quale la Serbia ha un accordo di relazioni speciali, non puo' implicare soltanto abbracci e strette di mano, bensi' azioni concrete.

Il professore della Facolta' di lettere di Sarajevo, Enver Kazaz, afferma che il pragmatismo di Dačić risulta dalla sua consapevolezza che la Serbia deve separarsi dall'eredita' di Slobodan Milošević e che deve avere un orientamento europeo non interrompendo pero' i legami con la Russia. "Presso l'opinione pubblica interna Dačić funzionera' come un nazionalista duro, ma una cosa e' certa: mentre il progetto politico di Tadić era ipocrita nel senso in cui riconciliava l'irriconciliabile, vale a dire il Kosovo e l'Europa, sia Dačić che Nikolić sono consapevoli che queste due cose non si possono riconciliare", spiega Kazaz. I messaggi mandati da Sarajevo sono nello spirito di Dayton, dice da parte sua Miloš Šolaja, direttore del Centro per le relazioni internazionali, il quale aggiunge pero' che ci sono ancora strutture che vogliono creare una politica di concorrenza tra le due entità bosniache, la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia Erzegovina, nelle loro relazioni con la Serbia. Si tratta, spiega Šolaja, di molti a Sarajevo che non considerano la Republika Srpska come parte della Bosnia Erzegovina. Secondo Dušan Janjić, direttore del Centro per le relazioni etniche di Belgrado, è nell'interesse della Serbia avere le relazioni miglior possibili con i paesi vicini. In questo momento, con i colloqui con Priština che riprendono tra una decina di giorni, la Serbia non ha bisogno di ulteriori problemi. Come politici pragmatici, Nikolić e Dačić non apriranno i due fronti cosi' come invece ha suggerito loro il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, che vorrebbe che Belgrado si concentrasse sulla RS e chiedesse la divisione del Kosovo. Giocheranno nella cornice dei confini riconosciuti, secondo Janjić, il quale avverte tuttavia che nei prossimi mesi, a causa della situazione in Kosovo e un momento politico oportuno in Bosnia Eerzegovina, si potrebbero prospettare dei problemi perche' si potrebbe verificare un rilancio della retorica nazionalista sul "carattere serbo della Republika Srpska" compensando in qualche modo quanto si potrebbe perdere nel dialogo con Priština. In ogni caso, gli analisti sono convinti che le relazioni non soltanto tra Belgrado e Banja Luka, ma anche tra la Belgrado e la Bosnia Erzegovina, nei prossimi mesi, saranno molto piu' pragmatiche a fin di risolvere le questioni concrete.

[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 20 settembre 2012 a Radio Radicale

SERBIA: DA BERLINO NUOVE CONDIZIONI PER L'ADESIONE ALL'UE?

(Foto Deutsche Welle)
Di Marina Szikora per Radio Radicale [*] 
L'attenzione dei media serbi si e' concentrata nei giorni scorsi sulle richieste del partito della cancelliera tedesca Angela Merkel, la CDU, espresse dai suoi esponenti in visita a Belgrado. Secondo l'agenzia di stampa serba Beta, queste richieste sono la dimostrazione di quello che la Germania pretende dalla Serbia, ma al tempo stesso non ci sono cambiamenti di condizioni poste alla Serbia per ottenere il segnale verde per l'inizio dei negoziati di adesione all'Ue. Secondo fonti della Commissione europea, afferma Beta, nuove condizioni sono possibili soltanto se concordate dai paesi membri dell'Ue, dal Consiglio europeo e dai leader dell'Unione. La Serbia, si afferma, deve adempiere quelle stesse condizioni che il Consiglio europeo le aveva posto lo scorso dicembre, tra cui la piu' importante e' che Belgrado "realizzi un miglioramento visibile e sostenibile nelle relazioni con Priština". Non ci sono nemmeno segnali che Berlino insisterebbe che i partner nell'Ue cambino le condizioni per Belgrado inserendo nuove richieste. Questa, in qualche modo, sarebbe la risposta, ovvero il commento relativo alle sette richieste e precondizioni che la delegazione della CDU aveva presentato a Belgrado come obbligo per avviare i negoziati di adesione della Serbia all'Ue. Ma i rappresentanti della Commissione europea avrebbero dichiarato che le condizioni non sono cambiate e riguardano gli obblighi di continuare il dialogo con Priština, attuare gli accordi raggiunti e proseguire con le principali riforme. Tutto questo e' stato detto dal presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy e dai leader della Commissione europea durante il loro recentissimo incontro a Bruxelles con il premier serbo, Ivica Dačić, e la vicepresidente del governo serbo, Suzana Grubješić. Vecchie condizioni quindi approvate lo scorso dicembre e confermate dal Consiglio europeo nel giugno di quest'anno. Si sottolinea inoltre, che la posizione della CDU, anche se si tratta del partito di maggioranza in Germania, e' soltanto la posizione di un partito politico e non quella ufficiale del parlamento o del governo tedesco.

Il giornale serbo Danas in un articolo sulla visita degli esponenti cristiano-democratici tedeschi a Belgrado ha scritto che la Serbia non avra' la data dell'inizio dei negoziati di adesione prima del dicembre 2013 e che fino a quella data c'e' tempo per adempiere le richieste tedesche. La Serbia pero', non deve riconoscere il Kosovo come stato indipendente bensi' accettare la situazione che il governo di Priština "governa il territorio kosovaro". Le autorita' serbe non devono cambiare la Costituzione e i due governi non devono procedere ad uno scambio di ambasciatori. 'Danas' afferma che questa situazione pero' non continuera' a lungo poiche' e' chiaro a tutti che la Serbia diventera' membro a pieno titolo dell'Ue molto prima del Kosovo. Tutti i partiti politici del Bundestag, con eccezione l'estrema sinistra, hanno le stesse aspettative quando si tratta delle integrazioni europee della Serbia e non soltanto i partiti della coalizione governativa, sottolineano gli interlocutori berlinesi del quotidiano 'Danas'. Soltanto con la Serbia nell'Ue si garantisce la stabilita' permanente dei Balcani Occidentali, affermano dalla Germania. Infine, gli interlocutori del giornale serbo spiegano che la ragione perche' proprio in questo momento sono stati consegnati i cosiddetti "sette punti" di richieste alle autorita' serbe sono le prossime elezioni amministrative in Serbia che si svolgeranno nel maggio 2013. Secondo le fonti berlinesi citate dai media serbi, si deve prima attuare il piano elaborato a suo tempo dell'allora inviato speciale Onu per il Kosovo, Marti Ahtisaari, e poi aprire i colloqui sul nord del Kosovo e trovare una soluzione creativa.

Per quanto riguarda i sette punti presentati dagli esponenti cristiano-democratici tedeschi essi riguarderebbero il pieno adempimento e la realizzazione del piano d'azione concordato con l'Ue, con un particolare accento sul proseguimento e l'attuazione delle riforme già avviate nel campo della giustizia. Al secondo punto, la richiesta che Belgrado presenti "visibili progressi relativi al chiarimento e al perseguimento dei responsabili dell'attacco all'ambasciata tedesca nel febbraio 2008". Come terzo punto si sottolinea la richiesta di chiari segnali di proseguimento della riconciliazione nella regione, escludendo ogni "nuova interpretazione delle vicende storiche, come ad esempio nel contesto del genocidio di Srebrenica". Quarto punto: la piena implementazione dei risultati del processo di dialogo tra Belgrado e Priština e un accordo sul proseguimento del dialogo oltre i temi previsti, come ad esempio nei settori dell''energia e delle telecomunicazioni. Come quinto e sesto punto si indica l'avvio di un concreto processo di smantellamento delle strutture parallele costituite dai serbi nel nord del Kosovo e la richiesta che Belgrado solleciti i serbi del Kosovo a collaborare attivamente con la missione civile europea Eulex e il contingente militare Kfor della Nato. Infine, settimo punto, si richiede "una volonta' visibile di raggiungere la normalizzazione giuridica nelle relazioni con il Kosovo con la prospettiva che la Serbia e il Kosovo, come membri a pieno titolo dell'Ue, possano vedere riconosciuti i loro diritti e rispettino i loro obblighi, insieme ed indipendentemente uno dall'altra".

Mentre si parla delle integrazioni europee della Serbia, da parigi arrivano però dichiarazioni che sembrano voler limitare il futuro processo di allargamento dell'Ue. Come ha riportato in questi giorni il portale internet EurActiv nella sua edizione francese, per il presidente Francois Hollande “l'allargamento dell'Ue per adesso e' terminato”. Queste affermazioni fanno parte del suo intervento ad una conferenza che si occupava di tutt'altro tema, quello della protezione ambientale. Tuttavia, le parole del presidente francese sono significative perche' i paesi candidati che sperano all'ingresso nell'Ue dopo l'adesione della Croazia, continuano a ricevere segnali dall'Ue che l'ulteriore allargamento è sempre più incerto. Mercoledi' scorso, nel suo intervento sullo stato dell'Unione, il presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, non ha in nessun modo menzionato la questione dell'allargamento. I media croati hanno fatto notare che è per la prima volta che un presidente della Commissione europea, in un discorso programmatico, non tocca questo tema, direttamente o indirettamente. Dopo l'adesione ufficiale della Croazia, fissato per il 1 luglio del 2013, l'Ue potrebbe dunque per lungo tempo bloccare l'ingresso di nuovi membri per occuparsi della riforma del suo ordinamento interno. I paesi che al momento hanno raggiunto lo status di candidati all'adesione sono Islanda, Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia. Albania e Bosnia Erzegovina sono in attesa di ottenere lo status di candidato, mentre il Kosovo deve ancora ottenere l'Accordo di stabilizzazione e associazione, primo traguardo formale per un Paese che ambisca all'adesione.

[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 20 settembre 2012 a Radio Radicale

venerdì 14 settembre 2012

I BALCANI VENT'ANNI DOPO LA FINE DELLA JUGOSLAVIA

La rivista Limes ha inaugurato una nuova collana di volumi antologici, "I classici di Limes", che raccolgono articoli tratti dal suo archivio e che pur essendo stati scritti alcuni anni fa mantengono intatta l'attualità dell'analisi e sono quindi molto utili per meglio comprendere le origini degli eventi del presente. “La guerra in Europa non è mai finita” è il titolo di questo primo volume della collana, uscito martedì 11 settembre in edicola e in libreria e disponibile anche su iPad. Questo numero antologico raccoglie i migliori articoli tratti dagli arretrati di Limes insieme a cinque contributi inediti ed è dedicato ai Balcani. L'argomento è particolarmente significativo poiché i Balcani e l'area ex-jugoslava in particolare, in questo periodo, non sono certamente al centro dell'attenzione internazionale, concentrata su altri scenari. Certo, c'è il ventennale dell'inizio della guerra in Bosnia e dell'assedio di Sarajevo e il titolo richiama quello del primo numero di Limes (1993), “La guerra in Europa”, ma la scelta è sicuramente significativa, perché l'area è tutt'altro che stabilimente pacificata, alcuni Paesi in particolare vivono situazioni estremamente delicate e le tensioni continuano ad essere presenti e pronte ad affiorare ad ogni occasione. La crisi economica, ma soprattutto politica, dell'Unione Europea non aiuta poi ad ancorare definitivamente la regione ad un futuro di stabilizzazione e integrazione. Come recita il sottotitolo del volume, "Vent'anni dopo il collasso della Jugoslavia i Balcani sono meno europei di quanto l'UE sia balcanica". Una constatazione a mio giudizio forse un po' troppo pessimistica, ma non così lontana dalla realtà, sia quella regionale, sia quella europea.

Qui la mia intervista per Radio Radicale al direttore di Limes, Lucio Caracciolo



giovedì 13 settembre 2012

L'INTEGRAZIONE EUROPEA DELLA SERBIA DIPENDE DALLE RELAZIONI CON PRIŠTINA

Di Marina Szikora
La Serbia deve offrire alla comunita' internazionale la soluzione secondo la quale il nord del Kosovo rimane a far parte della Serbia mentre il resto del Kosovo sarebbe accettato dalla Serbia come stato indipendente, a condizione pero' di proteggere i monumenti nazionali – questo quanto sostiene e afferma il presidente della Republika Srpska, l'entita' a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina, Milorad Dodik. Secondo Dodik, il tempo precedente era migliore per una tale soluzione, ma dall'altra parte - sottolinea Dodik - per la Serbia deve essere chiaro che un ritorno al passato, nel senso politico, e' impossibile. Sempre secondo il leader dei serbi in Bosnia, non si tratta soltanto di aver perso, anche se in Serbia lo si interpreta cosi'. Bisogna proteggere i propri interessi, dice Dodik e rileva che sulla questione Kosovo bisogna riunire tutti, vedere quale sia la realta' e concludere definitivamente questa faccenda. Il nord del Kosovo e' una realta', e' convinto Dodik.

Il presidente della Serbia, Tomislav Nikolić da parte sua afferma invece che il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo come condizione per l'adesione della Serbia all'Ue non e' la posizione dell'Ue. Il presidente della Serbia sottolinea che questo non e' e non puo' essere l'atteggiamento dell'Ue perche' se cosi' fosse, non ci sarebbero mai negoziati di adesione per la Serbia. Nikolić ha indicato che la Serbia con le sue interpretazioni ai propri rappresentanti sul come devono comportarsi alle riunioni in cui partecipano anche gli albanesi, ha dimostrato di essere impegnata nel dialogo e per l'adesione all'Ue e che adesso e' la volta dell'Ue. "A noi ci resta di fare il nostro lavoro, di costruire quella Serbia che abbiamo promesso, di costruire le relazioni con l'Ue come si deve, perche' e' buono per la Serbia. L'Ue invece o deve fermare questi discorsi o smentirli oppure dimostrare con comportamenti aperti verso la Serbia che non ci sono tali condizionamenti" ha detto Nikolić a proposito delle dichiarazioni che la Serbia deve riconoscere il Kosovo se vuole far parte dell'Ue.

Le affermazioni di Nikolić arrivano dopo le recenti dichiarazioni del presidente del PE, Martin Schultz, che sono state interpretate in maniera sbagliata e che riguardano il riconoscimento del Kosovo come condizione per l'ingresso della Serbia nell'Ue. In questo senso vanno anche le spiegazioni del premier serbo, Ivica Dačić dopo la sua ultima visita a Bruxelles settimana scorsa durante la quale, cosi' i media serbi, il premier serbo avrebbe ottenuto da tutti i rappresentanti europei un forte appoggio all'avvicinamento della Serbia all'Ue. Dačić afferma che la Serbia e' pronta a continuare il dialogo con Priština e l'idea di alzare i negoziati ad un livello politico piu' alto riceve sostegno anche da parte dell'amministrazione europea. In una intervista, reduce da Bruxelles, Dačić rassicura che i messaggi, sia dalla parte serba che da quella dell'Ue, sono molto chiari. L'Ue saluta le posizioni del governo serbo quando si tratta del proseguimento del cammino europeo di Belgrado. Si sottolinea pubblicamente – spiega Dačić – che le integrazioni europee dipendono maggiormente dalla stessa Serbia, vale a dire dall'adempimento di quello che il Consiglio europeo ha posto come condizione lo scorso dicembre. 

Si tratta maggiormente delle riforme interne che la Serbia deve condurre e di segnali visibili di 'rilassamento' nelle relazioni tra Belgrado e Priština il che implica l'implementazione degli accordi finora raggiunti con il tentativo di arrivare agli accordi sulle rimanenti questioni del dialogo tecnico, ivi incluso il ruolo dell'Eulex che dovrebbe essere presente in tutti i settori nell'intero Kosovo. Dačić aggiunge che l'orientamento del nuovo governo serbo e' di realizzare tutti gli accordi che sono stati raggiunti finora a Bruxelles ma che il problema sono le diverse interpretazioni su quello che in effetti e' stato concordato precedentemente. In Serbia, evidentemente, spiega Dačić, certe cose sono state interpretate diversamente.

Nell'intervista Dačić risponde anche alla domanda su quanto la situazione economica in Serbia sia critica e su certe interpretazioni che la Serbia rischia lo stesso scenario della Grecia. Secondo Dačić e' davvero indispensabile che il govero esca urgentemente con una proposta di misure economico-sociali che avranno come obiettivo stabilizzare le condizioni economiche in Serbia il che significa fermare il deficit e diminuirlo l'anno prossimo. Per questo, afferma il premier serbo, sono indispensabili colloqui con il FMI, con la Banca mondiale e con le banche europee, nonche' con l'Ue e tutti gli altri paesi che vogliono contribuire alla stabilizzazione economica della Serbia. Il governo, aggiunge il premier serbo, nelle misure annunciate, oltre al risparmio che riguarda lo stato e non i cittadini, dedichera' anche grande attenzione a sollecitare lo sviluppo economico. L'ex ed attuale ministro degli interni e attuale premier serbo Ivica Dačić afferma che i cittadini alle recenti elezioni hanno qualificato il suo ministero come il migliore proprio per il suo successo nella lotta contro la corruzione e criminalita' organizzata il che resta uno dei maggiori impegni. L'obbiettivo e' quello di sradicare la corruzione sistematica. In questo senso ci sara' una diretta collaborazione con l'Ue, ha precisato Dačić.

Rispetto a quanto finora detto, molto diverse sono invece le analisi ed i commenti di una parte della stampa occidentale. Cosi' il giornale tedesco 'Die Welt' scrive ultimamente di attacchi da parte del partito nazionalpopulista, il Partito del progresso (SNS) che e' il partito governativo, contro i media che questo partito afferma essere sotto diretto controllo da parte del Partito democratico (DS) dell'ex presidente Boris Tadić. A tal proposito, scrive il giornale tedesco, SNS ha indicato uno dei pochi giornali indipendenti serbi 'Blic' che e' uno dei piu' difusi e piu' liberali giornali in Serbia. Aleksandar Vučić, attuale capo del SNS, nei tempi dell'autocrata Slobadan Milošević, fine anni novanta, scrive 'Die Welt', controllava la stampa che era critica verso il regime. L'attuale ambizioso vicepresidente del governo Vučić ha molte ragioni per essere nervoso: ci sono sempre piu' brutte notizie per il governo che l'Occidente guarda con scetticismo perche' nelle proprie fila sta accogliendo sempre piu' seguaci di Milošević. 'Die Welt' aggiunge che le tensioni con Bruxelles sono aumentate con le "sospettose distribuzioni di posti di lavoro ai funzionari, con la contestata Legge sulla Banca popolare serba e con gli attacchi contro la stampa indipendente". In questo senso "i lider nazionalpopulisti sono sulla via di mettere a rischio anche il piccolo credito che hanno nell'arena internazionale".

All'autore del commento tedesco non piace nemmeno che la Serbia in quanto potenziale aderente all'Ue "cerca la vicinanza di Mosca: l'11 settembre il presidente Tomislav Nikolić visitera' il suo collega russo Vladimir Putin a Soči e con lui non parlera' soltanto di nuovi crediti bensi' anche della collaborazione sull'esporto di armi" scrive 'Die Welt'. Nel commento si punta inoltre sul fatto che nonostante l'ammorbidimento della retorica aspra sul Kosovo e il rinunciamento da parte di Belgrado di boicottare le conferenze in cui partecipano anche i rappresentanti del Kosovo, non e' visibile nessun concetto per l'ex regione (il Kosovo) che da quattro anni e mezzo e' indipendente. Infine, Bruxelles non sarebbe nemmeno convinta per quanto riguarda gli sforzi del nuovo governo serbo di sopprimere la corruzione poiche' "i partiti o gli sponsor dei nuovi funzionari dello stato sono loro stessi coinvolti nella densa rete di corruzione". Il giornale tedesco scrive che Dačić aveva detto di essere "allergico a costanti critiche" e che la Serbia e' una parte d'Europa con uguali diritti ma che Belgrado adesso potrebbe addossarsi nuovi guai con l'Ue perche' "Dejan Carević, ex membro dei servizi segreti di Milošević e' stato nominato capo gabinetto del ministro della giustizia serbo". 'Die Welt' conclude citando Jovo Ćuravija, il fratello del giornalista Slavko Ćuravija, assassinato a Belgrado nel 1999 il quale ha detto che "finche' gli assassinii politici non verranno chiariti davanti ai tribunali, questo paese non potra' posizionarsi accanto ai paesi civili".

Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale

L'INCONTRO MONDIALE PER LA PACE ORGANIZZATO DALLA COMUNITA' DI SANT'EGIDIO A SARAJEVO

A vent'anni dall'inizio della guerra in Bosnia e dell'assedio, Sarajevo si propone come citta' della pace e del dialogo tra culture e religioni diverse ospitando, domenica, lunedì e martedì scorsi, il meeting internazionale per la pace ''Vivere insieme e' il futuro - Religioni e culture in dialogo'', promosso dalla Comunita' di Sant'Egidio in collaborazione con l'arcidiocesi di Sarajevo, con il patriarcato serbo ortodosso e con le comunita' islamica ed ebraica. Al centro dei momenti di confronto e dibattito in cui si è articolata la tre giorni i nodi cruciali del futuro europeo e dell'integrazione sociale e politica del continente nel delicato momento della crisi economica che sta travagliando l'Europa mettendo a rischio il progetto politico dell'Unione e la prospettiva dell'integrazione che per tanti anni è stata offerta ai Balcani occidentali dopo la fine dei conflitti che segnarono il collasso della Jugoslavia.

Di Marina Szikora
"Nonostante tutte le differenze esistenti, tutti gli uomini semplici sono uniti quando si desidera pace, sicurezza e benessere. Per raggiungere questo obiettivo i leader politici e religiosi sono invitati a lavorare insieme". Cosi' il presidente croato Ivo Josipović domenica scorsa a Sarajevo, partecipando insieme ad altri leader politici e religiosi al tradizionale Incontro mondiale per la pace organizzato dalla Comunita' di san Egidio che da 25 anni sollecita l'ecumenismo attraverso la promozione dello spirito di Assisi. "Il piu' importante e' mandare il messaggio che in Europa non c'e' posto per idee umilianti, che minacciano o offendono qualsiasi uomo. L'Europa deve essere una casa sicura per ogni suo abitante, le crisi e gli ostacoli non possono essere la scusa per chiudere le porte" ha detto Josipović. Nel suo discorso di saluto, il presidente croato ha sottolineato che l'Europa sudorientale e' un'area unica in cui da secoli coesistono i cristiani, gli ortodossi ed i protestanti e dove da secoli esiste la tradizione islamica ed ebraica. Ma in quest'area – ha ricordato Josipović – ci sono stati purtroppo periodi in cui questo era il luogo di conflitti e sofferenze umane, assolutamente inaccettabili per le societa' civili . L'esito sono stati "vergognosi errori e irresponsabilita'".

"Troppo tempo e' stato perso ad indietreggiare davanti ai crimini, nei negoziati con i responsabili di crimini. Voglio credere che questi tempi sono passati per sempre, che si e' arrivati alla vittoria della ragione, riconciliazione e collaborazione" ha detto il capo dello stato croato. Ha rilevato che la pace e' quella che rende possibile la vita e lo sviluppo e questo non deve mai essere sottinteso bensi' se ne deve occupare quotidianamente. La Croazia, ha assicurato il suo presidente, in questo senso dara' pieno sostegno ai suoi vicini e persistera' su questa via. Non a caso quest'anno l'incontro ha trovato luogo a Sarajevo, una specie di simbolo di diverse culture, religioni e popoli. Questo raduno di dialogo sotto lo slogan 'Il nostro futuro e' vivere insieme' ha riunito centinaia di partecipanti, rappresentanti di quasi tutte le piu' importanti religioni viventi. Il fondatore della Comunita' di San Egidio, Andrea Riccardi, attuale ministro per la Cooperazione internazionale del governo italiano, ha detto che l'idea della convivenza continua ad essere una sfida per l'umanita' che necessita di costante sostegno ed impegno.

L'incontro a Sarajevo e' stato aperto dall'attuale presidente della presidenza della Bosnia Erzegovina, Bakir Izetbegović il quale ha detto che e' estremamente importante che il messaggio di convivenza e tolleranza in questo modo parta dalla citta' che nemmeno nei suoi tempi piu' difficili non si e' esaurita nell'impegno per l'umanesimo. Izetbegović ha aggiunto che se la vita comune non sopravvivra' in Bosnia, difficilmente vivra' in qualsiasi altra parte del mondo. Il capo della chiesa ortodossa, Irinej che per la prima volta da quanto e' stato eletto patriarca ha visitato Sarajevo, ha detto nel suo intervento che la pace e' il messaggio fondamentale di tutte le religioni e questo valore bisogna affermare sempre d'accapo. Ricordano le sofferenze dei popoli della regione balcanica nel corso della storia, Irinej ha detto che questo deve essere un monito per il futuro e un appello al reciproco accoglimento, rispetto e riconciliazione. Il capo della comunita' islamica in Bosnia, Mustafa Cerić ha ricordato da parte sua la tragedia di Sarajevo, "la prima Gerusalemme europea" e gli oltre 10.000 abitanti di Sarajevo uccisi. "Piu' di qualcun altro, loro meritano il nostro giuramento a Dio e all'umanita' che faremo di tutto perche' qualcosa di simile non si ripeta mai piu'" ha detto Mustafa Cerić. Pace e non guerra, sicurezza e non terrorismo sono il desiderio e la necessita' di tutti gli uomini di buona volonta', ha rilevato il capo della comunita' islamica aggiungendo che e' importante mandare un messaggio di pace anche alla Siria che oggi sta soffrendo. L'arcivescovo di Bosnia, il cardinale Vinko Puljić ha sottolineato che sia importante una voce comune che da Sarajevo mandera' il messaggio di pace e questa pace si puo' costruire soltanto in base alla verita' e giustizia. Puljić ha aggiunto che "la convivenza non soltanto e' possibile bensi' l'unico futuro che possiamo desiderare per l'umanita'". "Il mondo adesso e' al bivio" ha valutato Jakob Finci, presidente della comunita' ebraica della Bosnia constatando che si puo' sopravvivere soltanto rispettando e accettando l'altro e il diverso.

Per il presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, anche lui presente all'incontro, Sarajevo resta un simbolo permanente di sofferenze ma anche di convivenza. Van Rompuy ha aggiunto pero' che le sofferenze non si possono ripetere e la garanzia permanente per questo sono i valori dell'Europa unita basati sulla civilta' della vita comune. "Senza l'Ue non ci sara' mai, ripeto, mai pace duratura nei Balcani" ha detto il leader europeo nel suo intervento segnato da molto euroottimismo. Infine, il presidente del Consiglio italiano, Mario Monti in toni simili ha rilevato che la globalizzazione impone nuove sfide e la piu' grande e' quella di come costruire societa' ricche in diversita'. I Balcani, in questo senso, sono il simbolo di tutte le difficolta' su questa via ma anche di possibilita' che si offrono, ha detto Monti aggiungendo che le crisi piu' pericolose sono quelle che minacciano le fondamenta umane sulle quali e' stata creata l'Europa. Il premier italiano ha espresso speranza che l'unificazione di diversi paesi dara' frutto. Bisogna salvaguardare la comune moneta, l'euro, perche' e' la cima dell'edificio gotico che si chiama Ue. I tre giorni dell'incontro mondiale per la pace, quest'anno a Sarajevo, sono proseguiti con una trentina di dibattiti nei quali si e' discusso di sfide nella costruzione di pace e collaborazione tra le religioni. A fine della riunione e' stato approvato un appello comune per la pace.

Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale


PASSAGGIO IN ONDA

E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est trasmessa da Radio Radicale il 13 settembre. La trasmissione è riascoltabile nella sezione "In Onda" del blog oppure, insieme a quelle precedenti, sul sito di Radio Radicale.

mercoledì 12 settembre 2012

KOSOVO: INDIPENDENZA TRA CORRUZIONE, POVERTA' E OMICIDI

Ancora sulla fine della sorveglianza internazionale sul Kosovo. Pristina conquista lo status di paese “pienamente sovrano”. Inizia il processo di smobilitazione da parte dei tutori internazionali. Ma sul campo cambia poco o nulla. Belgrado continua a controllare i comuni nel nord del paese (a maggioranza serba), l’economia non va e diversi esponenti dell’élite politica albanese sono al centro di vicende giudiziarie.


Da leggere l'articolo di Matteo Tacconi pubblicato il 10 settembre dal quotidiano Europa

Lo trovate sul suo blog Radio Europa Unita
Ora il Kosovo è davvero indipendente. Tra povertà, corruzione e omicidi.



lunedì 10 settembre 2012

KOSOVO: FINISCE LA SORVEGLIANZA INTERNAZIONALE, MA L'INDIPENDENZA E' UN'ALTRA COSA

Da oggi il Kosovo diventa uno Stato pienamente sovrano, almeno per i Paesi che ne riconoscono l'indipendenza. Questo pomeriggio, quattro anni e mezzo dopo la secessione unilaterale dalla Serbia proclamata il 17 febbraio 2008, viene infatti ufficialmente sciolto l'International Steering Group (Isg, Gruppo d'indirizzo sul Kosovo). Per l'occasione è stata organizzata una grande festa nel centro della capitale Pristina. La fine della "sorveglianza internazionale" del Kosovo era stata decisa a inizio dello scorso luglio a Vienna dallo stesso Isg, costituito da 25 paesi che sostengono l'indipendenza della (ex) provincia serba a maggioranza albanese.

Il Kosovo, all'epoca della Jugoslavia di Tito era una provincia autonoma. Tale autonomia fu revocata con l'avvento al potere a Belgrado di Slobodan Milosevic che progressivamente e sempre più duramente represse ogni iniziativa indipendentista. Gli albanesi kosovari costruirono, quindi, strutture amministrative e sociali parallele, ma la lotta condotta per vari anni in maniera nonviolenta sotto la guida del “padre della patria” Ibrahim Rugova, verso la fine degli anni '90 sfociò in un conflitto armato. Da parte albanese nacquero formazioni guerrigliere la più potente delle quali fu l'Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck). Da parte serba si rispose con gli attacchi indiscriminati dell'esercito e la pulizia etnica operata dalle bande paramilitari secondo i metodi tristemente impiegati negli altri conflitti jugoslavi.

Nella primavera del 1999, la Nato, senza il via libera del Consiglio di sicurezza dell'Onu e sfruttando la debolezza politica di cui in quel momento soffriva la Russia, protettrice del regime di Milosevic ormai sempre più isolato e in difficoltà, diede il via ad una campagna di bombardamenti aerei sul Kosovo e sulla stessa Serbia: furono colpite infrastrutture civili e installazioni militari in varie località e la stessa capitale Belgrado (dove i segni delle bombe sono visibili ancora oggi). L'iniziativa convinse il regime serbo a ritirare le sue truppe dal Kosovo che fu diviso in aree controllate da forze del contingente Nato e della Russia, mentre l'amministrazione fu assunta da una missione delle Nazioni Unite (Unmik).

La Serbia, forte anche della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza che riconosceva la sua sovranità sul Kosovo, accettò il protettorato internazionale sulla sua provincia ma dichiarò che non avrebbe mai consentito di rinunciare alla sovranità su una terra che considera la culla della propria identità nazionale, culturale e religiosa. In seguito il mediatore Onu, Martti Ahtisaari, concordò con le parti un processo di accesso all'indipendenza del Kosovo "sotto sorveglianza internazionale", cioè dell'Isg, con un'amministrazione Onu. Questo processo è sempre stato però respinto da Belgrado e il negoziato finì in un nulla di fatto con le parti irremovibili sulle proprie posizioni.

Il 17 febbraio del 2008, i kosovari albanesi ruppero gli indugi dichiarando unilateralmente l'indipendenza da Belgrado, ma nel nord del Kosovo, dove sono maggioranza, i serbi non hanno mai riconosciuto le autorità di Pristina e hanno dato vita a istituzioni parallele. In questi anni non sono mancate tensioni e incidenti anche gravi, con morti e feriti da entrambe le parti e interventi duri delle forze internazionali. Nel frattempo ha preso il via la missione civile dell'Ue (Eulex) e lo scorso anno, dopo anni di gelo, Belgrado e Pristina, con la mediazione europea, hanno avviato negoziati su questioni “tecniche” che, per espresso accordo tra le parti, non contemplano la questione dello status del Kosovo.

Il miglioramento delle relazioni con Pristina è la principale condizione posta da Bruxelles perchè la Serbia, che a marzo scorso ha ottenuto lo status di Paese candidato all'adesione alla Ue, possa ottenere una data per l'apertura dei negoziati di adesione, la quale, inizialmente attesa per la fine di quest'anno, dopo il cambio di leadership a Belgrado in seguito alle elezioni parlamentari e presidenziali dello scorso maggio è slittata a non prima della seconda metà del 2013. Nel frattempo il nuovo presidente nazionalista (moderato) ha fatto sapere di puntare a trasferire il negoziato con Pristina al Palazzo di vetro dove Belgrado può contare sull'appoggio di Russia e Cina e sul loro potere di veto al Consiglio di sicurezza.

La decisione dell'Isg non cambia comunque nulla per le missioni in corso: Eulex, la missione Ue che riguarda polizia e giustizia e il cui mandato è stato prorogato fino al 2014, e Kfor, la forza militare multinazionale della Nato. Il Kosovo, che resta il Paese più povero d'Europa, è inoltre alle prese con gravissimi problemi di corruzione politica e infiltrazione della criminalità organizzata, mentre l'approdo dell'integrazione nell'Unione Europea resta al momento un lontano miraggio. Insomma, il Kosovo da oggi diventa pienamente sovrano (almeno per gli Stati che lo riconoscono): che sia altrettanto indipendente è altro discorso. [RS]


sabato 8 settembre 2012

LA TURCHIA E LA CRISI SIRIANA

Campo profughi di Boyunyogun - Foto di Francesca Tosarelli
Sono ormai oltre 80 mila i profughi siriani ospitati nei campi allestiti dalla Turchia e altre migliaia sono sul confine in attesa di poter entrare nel Paese della Mezzaluna che è stato il primo e il più disponibile ad offirire rifugio a chi fugge dal regime di Bashar Al Assad. La situazione, però, sta ora allarmando le autorità di Ankara che recentemente hanno fatto sapere di non essere in grado di accogliere oltre 100 mila persone e hanno chiesto all'Onu di intervenire creando una "zona cuscinetto" lungo la frontiera in territorio siriano. Le aree al confine tra Turchia e Siria sono però anche zone in cui la popolazione curda è maggioritaria e in queste ultime settimane i guerriglieri separatisti del Pkk hanno intensificato le loro incursioni seguite da analoghe operazioni dell'esercito turco. Secondo Ankara, i guerriglieri curdi agirebbero con l'appoggio e in collaborazione con le forze del regime siriano che tentano in questo modo di creare ulteriori difficoltà ad Ankara che teme il formarsi di zone autonome curde che potrebbero saldarsi con il Kurdistan iracheno creando di fatto una enclave curda indipendente. Si tratta dunque di una situazione estremamente complessa, in cui giocano diversi fattori, in una delle aree più instabili e più esplosive del mondo.

Di questo si parla in una mia intervista per Radio Radicale ad Alberto Tetta, corrispondente di Osservatorio Balcani e Caucaso, che con la fotografa Francesca Tosarelli è stato tra i pochi reporter autorizzati ad entrare nei campi dei profughi siriani in territorio turco. Nell'intervista si parla anche della situazione in Libano, dove Alberto si trovava al momento della registrazione, mercoledì 5 settembre, in particolare a Tripoli, nel nord del Paese dei cedri, che è ormai diventato il secondo fronte del conflitto siriano.

L'intervista è ascoltabile direttamente qui




Leggi gli articoli di Alberto Tetta sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso

Guarda i reportage fotografici di Francesca Tosarelli sui campi dei profughi siriani in Turchia e sulla situazione a Tripoli del Libano


giovedì 6 settembre 2012

IN CROAZIA FA NOTIZIA L'ATTACCO DI MONSIGNOR TUTU A BUSH E BLAIR PER LA GUERRA IN IRAQ

Nei giorni scorsi monsignor Desmond Tutu, premio Nobel per la pace e veterano della lotta per la pace nel mondo, ha pubblicato un intervento sul quotidiano britannico Observer in cui attacca “l’immoralità degli Stati Uniti e della Gran Bretagna” i quali “nel prendere la decisione di invadere l’Iraq nel 2003, fondata sulla menzogna per cui l’Iraq avesse armi di distruzione di massa”, hanno “destabilizzato e polarizzato il mondo in maniera molto più profonda di qualsiasi altro conflitto. Perché, scrive Tutu, “la questione non è di sapere se Saddam Hussein fosse buono o cattivo, né quante persone abbia massacrato. Il punto è che Bush e Blair non si sarebbero dovuti abbassare al suo livello di immoralità”. Per questo monsignor Tutu ha giudicato inappropriato partecipare ad un summit sulla leadership insieme a Blair. Per il premio Nobel, l'ex premier britannico Tony Blair e l'ex presidente Usa George W. Bush dovrebbero essere portati davanti alla Corte Penale Internazionale. La presa di posizione di monsignor Tutu riecheggia quanto Marco Pannella e i Radicali vanno sostenendo da tempo: e cioè che la guerra in Iraq si sarebbe potuta evitare, che Saddam Hussein aveva già accettato l'esilio, ma che questa possibilità fu vanificata da Blair e Bush con il sostegno attivo dell'allora capo del governo italiano Silvio Berlusconi e di quello spagnoli José Maria Aznar, con un ruolo per niente marginale del defunto dittatore libico Muhammar Gheddafi. A differenza di quanto avvenuto in Italia, l'intervento di Tutu sul Guardian ha avuto molta risonanza in Croazia, dove è stato ripreso un po' da tutti i giornali, i notiziari radio-tv e dai principali portali di informazione online. In particolare riporto qui, tradotto in italiano, un commento apparso sul quotidiano di Zagabria, Večernji list.

DOV'E' LA MORALITA' DELLA POLITICA?
Per Desmond Tutu portare Bush e Blair davanti all'ICC è ultima possibilita' per calmare gli spiriti che ormai hanno provocato dissidi irreparabili e divisioni tra Est ed Ovest, cristianesimo ed islam 

di Marina Šerić - Večernji list, 4 settembre 2012 
Il mondo contemporaneo come se avesse dimenticato che un tempo fa esistevano autorita' morali, persone che con la loro vita e con tutto quello che avevano fatto, hanno ottenuto il diritto ad intervenire, se necessario, in alcune situazioni, quando valutano che la situazione e' sfuggita di controllo e che bisogna intervenire, che possono dire apertamente quello che pensano e che nessuno di quelli in questione si trovino offesi. Il parere di tali persone era senz'altro prezioso ed i loro atteggiamenti raramente avevano provocato controattacchi. Oggi pero', sembra che quelli che hanno il potere possono fare quello che vogliono e le conseguenze catastrofiche delle loro opere vengono illustrate come qualcosa di indispensabile, inevitabile, perfino qualcosa che porti al bene e al miglioramento.

Due giorni fa, il vescovo sudafricano e Nobel, Desmond Tutu, feroce lottatore contro l'apartheid e altre forme di ingiustizia e una personalita' che ha pieno diritto ad avvertire su quello che e' male e negativo, ha valutato che e' arrivato l'ultimo momento affinche' Toni Blair e George W. Bush siano portati davanti alla Corte penale permanente perche', afferma, si sono serviti di menzogne a fin di sollevare guerre pericolose e nocive in Iraq ed Afghanistan le quali hanno destabilizzato e diviso il mondo molto di piu' di qualsiasi altra guerra della recente storia. Inoltre, Tutu avverte che la giustizia internazionale ha del tutto criteri storti e doppi e che alcuni lider politici africani ed asiatici vengono portati davanti alla giustizia e puniti con pene molto alte per crimini che nella loro dimensione hanno causato conseguenze molto piu' deboli e di portata molto piu' limitata rispetto a quelle causate dai due sopranominati.

La diagnosi fatta da Desmond Tutu e' in effetti completamente esatta e si potrebbe dire che colpisce l'essenza del problema. Arriva nel momento in cui le conseguenze di quello che Bush e Blair hanno iniziato nel 2001 e 2002 potrebbero avere ancora uno o perfino di piu' atti di una tragedia militare che gia' ha preso centinaia di migliaia di vite umane e ha distrutto il futuro di alcune generazioni. Possiamo dire che Tutu ha reagito nel momento in cui e' diventato evidente che il Medio Oriente sta precipitando in due catastrofi ancora maggiori rispetto a quelle in Afghanistan e in Iraq. Si tratta prima di tutto della Siria, Iran ed Israele. Le guerre che potrebbero coinvolgere questi stati potrebbero trasformare le guerre di Afghanistan e di Iraq in un gattino che aveva distrutto solo un gomitolo di lana.

Tutu vede la consegna di Bush e Blair (ci si potrebbe trovare anche Sarkozy a causa della Libya) all'ICC come ultima possibilita' per correggere qualcosa, per calmare gli spiriti che hanno quasi irreparabilmente messo in litigio e diviso l'Oriente e l'Occidente, il cristianesimo e l'islam... Bush e Blair lui vede come l'incorporazione di tutto quello che ha portato il mondo odierno in questo stato di odio, divisioni e volonta' di portare alla guerra le parti contrastanti, si uccidono e si annientano, ma in tutto cio' trascinano dentro anche molti altri.

Dopo le dichiarazioni dei vertici politici israeliani che intendono attaccare Iran e i loro impianti nucleari e che come conseguenza di questo "intervento" militare si aspettano circa cinquecento morti in Israele, uno che possiede l'integrita' morale e politica doveva reagire poiche' a tutti quelli che sono minimamente normali e' chiaro che in questo conflitto ci potrebbero essere morti a incalcolabili potenziali e questo potrebbe in gran misura cambiare l'ambiente politico di una gran parte di questo nostro infelice sassolino che viaggia nel cosmo e che anche senza queste guerre ha abbastanza guai e divergenze. Tra le righe della sua lettera pubblicata sull'Observer britannico, Desmond Tutu lancia un messaggio al mondo che c'e' bisogno di una generazione nuova di lider forti e fermi, di quelli che avranno una integrita' morale alta e la responsabilita' politica ed umana alta o almeno di quelli che abbasseranno umilmente la testa e ammetteranno di aver sbagliato. Tutu in un certo senso non si rivolge soltanto ai lider ma anche a noi tutti che eleggiamo questi lider. Percio' e' arrivato il tempo di occuparci degli aspetti morali di quelli che guidano i nostri paesi ed il mondo intero.

Traduzione di Marina Szikora


SLOVENIA: IL RISCHIO DI BANCAROTTA POTREBBE CONDIZIONARE L'INGRESSO DELLA CROAZIA NELL'UE

Karl Erjavec e Vesna Pusic (Foto Tina Kosec/STA)
Di Marina Szikora [*]
Il ministro degli Esteri e degli Affari europei della Croazia, Vesna Pusić, lunedi' 3 settembre ha partecipato all'annuale Strategic Forum di Bled durante il quale ha incontrato il suo collega sloveno Karl Erjavec. Al centro della conferenza di quest'anno di Bled, il cui titolo era "L'Europa e l'ordinamento globale ridisegnato", e' stato il ruolo dell'Europa nelle relazioni internazionali, le sfide regionali nel sud Mediterraneo, Europa sudorientale e Asia centrale nonche' le relazioni tra Ue e Cina. Commentando alcuni articoli pubblicati dai media croati in cui si dice che Bruxelles sta perdendo pazienza con la Slovenia che con la questione della Ljubljanska banka condiziona la ratifica dell'accordo di adesione della Croazia all'Ue, Erjavec ha detto che non sente nessuna pressione e che si tratta soltanto di speculazioni mediatiche. "Bisogna trovare una soluzione adeguata per entrambe le parti" ha detto Erjavec in relazione al problema della Ljubljanska banka ed i risparmi dei risparmiatori delle valute esteri in Croazia dai tempi del comune stato, vale a dire dell'ex Jugoslavia. Il ministro degli esteri sloveno ha ricordato che i due governi avevano nominato gli esperti finanziari per la questione che si sono gia' incontrati a fin di esaminare il problema e proporre ai governi le possibili soluzioni. Per questo motivo, ha precisato Erjavec, bisogna continuare il dialogo.

Sia la ministro Pusić che Erjavec ritengono di aver compiuto un grande avanzamento rispetto al loro ultimo incontro svoltosi a Dubrovnik quando sono stati concordati i negoziati dei due esperti provenienti dai due paesi in questione. Hanno espresso modesto ottimismo per quanto riguarda il lavoro degli esperti finanziari annunciando una prossima riunione per il 18 settembre. Gli esperti che si occupano della questione sono Zdravko Rogić e Francet Arhar e si tratta della soluzione con la quale la Slovenia indirettamente condiziona la ratifica del trattato di adesione della Croazia all'Ue. "Tutti i dati ralativi alla loro prima riunione parlano a favore della possibilita' di trovare una soluzione relativa alla situazione 'win-win' per entrambi gli stati e una loro proposta potrebbe uscire fuori in tempi visibili" ha commentato la ministro Pusić. Alla domanda quando si puo' aspettare che la Slovenia ratifichi l'accordo croato, Pusić ha detto che personalmente vorrebbe che questo accada al piu' presto, mentre il suo collega sloveno Erjavec ha espresso speranza che gli esperti presentino al piu' presto le loro soluzioni, che successivamente dovrebbero essere accettate da entrambi i governi. Dopo l'approvazione dei due governi, non vi sarebbe piu' nessuna ragione perche' la Slovenia non iniziasse subito con la ratifica dell'accordo di adesione della Croazia all'Ue, ha detto Erjavec. Un argomento quindi questo che per la Croazia e' importante visto che si tratta di rispettare l'annunciato ingresso del paese nell'Ue previsto per il primo luglio 2013.

Il presidente della Slovenia, Danilo Tuerk ha raccomandato ai diplomatici sloveni, riunitisi alle tradizionali consultazioni annuali svoltesi a Brdo kod Kranj, di riflettere sulla possibilita' di una collaborazione di partenariato con la Croazia dopo che essa diventi membro a pieno titolo dell'Ue. Ipoteticamente e' possibile immaginare delle consultazioni piu' strette tra Italia, Austria, Slovenia e Croazia nel contesto di decisioni da prendere nell'Ue. Molti interessi legittimi di questi stati sono conformi e per questo il loro approccio coordinato relativo ai temi di cui si occupa l'Ue porterebbe una dimensione interessante nel processo decisionale europeo, soprattutto nei prossimi anni che saranno decisive per l'identita' dell'Ue, ha detto il capo dello stato sloveno. Nel suo intervento di apertura alle consultazioni, Danilo Tuerk ha sottolineato che la Slovenia nel senso geopolitico ha tre identita' perche' al tempo stesso e' uno stato balcanico, mitteleuropeo e mediterraneo. Va detto anche, che pochi giorni fa, il premier sloveno, Janez Janša, ha ammesso per la prima volta che la Slovenia rischia la bancarotta gia' ad ottobre. Anche se il governo sloveno finora dichiarava che tutti i problemi potra' risolverli da sola, Janša ha finalmente ammesso il contrario dopo che le agenzie di credito hanno abbassato il rating della Slovenia per cui il valore del Pil nel secondo quadrimestre e' calato del 3,2 percento. Secondo i media tedeschi e austriaci, la Slovenia intende indebitarsi sul mercato americano contando con il pagamento di interessi minori e in questo modo evitare la bancarotta. Il Financial Times ritiene che l'appello di Janša in cui chiede aiuto e' conseguenza dell'impossibilita' del suo governo di coalizione a raggiungere un accordo sulle riforme. Die Presse trasmette le dichiarazioni del premier sloveno che a meta' dell'anno prossimo la Slovenia deve pagare in un colpo solo due miliardi di euro di debiti ed interessi il che sara' impossibile se in autunno non verranno accettate le indispensabili misure.