venerdì 30 settembre 2011

I NAZIONALISTI MINACCIANO: IN FORSE IL PRIDE 2011 A BELGRADO

Un'immagine della parata del Pride 2010
(Foto Cecilia Ferrara/Osservatorio Balcani e Caucaso)

Potrebbe essere cancellato il Pride 2011 di Belgrado, previsto per domani. Il timore è che si ripetano le gravi violenze dell'anno scorso e le premesse ci sono tutte. Già un mese fa, il solo annuncio della parata aveva provocato le minacce dei gruppi di estrema destra che per domani hanno convocato contromanifestazioni di protesta con la parata dell'orgoglio Glbt. E come un mese fa, il ministro degli Interni, Ivica Dacic, vice-premier e leader del Partito Socialista, ha fatto sapere che se le minacce persisteranno, il corteo non deve assolutamente svolgersi. La questione della difesa dei diritti delle persone Glbt, seguita con attenzione a Bruxelles, nel quadro del processo di integrazione europea della Serbia, mette in serio imbarazzo l'esecutivo guidato dal Partito Democratico, nei confronti dell'opinione pubblica dove pesa ancora molto il richiamo della chiesa ortodossa. L'esecutivo per ora ha preferito non pronunciarsi e, malgrado le pressioni degli ambasciatori europei per autorizzare la parata, il primo ministro Mirko Cvetkovic ieri ha dichiarato che “il governo non ha mai considerato questa questione, ne' quella di chi vi si oppone”. Il sindaco della capitale serba, Dragan Djilas, esponente di spicco del Partito Democratico, ha rivolto da parte sua un appello sia agli organizzatori del Pride, che ai gruppi ultra-nazionalisti perché cancellino ogni evento previsto per domani.

Goran Miletic, uno degli organizzatori del Pride 2011, si è detto scioccato dagli appelli a cancellare tutte le manifestazioni che mettono tutti sullo stesso piano. In effetti è abbastanza sorprendente che un governo non sia in grado di garantire la libertà di manifestazione a chi tra l'altro, vuole scendere in piazza in difesa di diritti civili riconosciuti in tutti gli Stati democratici. L'appello a non manifestare, di fatto, è una resa di fronte alle minacce dei violenti e degli intolleranti. Vero è che l'anno scorso migliaia di estremisti nazionalisti della destra “turboserba” si scatenarono trasformando il centro di Belgrado in un campo di battaglia. Più di cento persone furono arrestate e decine di poliziotti furono feriti da lanci di pietre e bombe molotov, mentre diversi negozi vennero devastati e saccheggiati. Domani la situazione potrebbe farsi anche più difficile di quella dello scorso anno. Alla stessa ora del Pride, infatti, è convocata la manifestazione organizzata dal gruppo di estrema destra Obraz, legato ai gruppi del tifo calcistico più violento, da sempre vivai dell'estremismo nazionalista più acceso. Sono in tutto quattro le marce anti-gay previste per il week end. I 5 mila poliziotti e agenti delle unità antisommossa mobilitati per l'occasione, potrebbero non bastare a proteggere il Pride dagli attacchi degli ultras. [RS]

Parada Ponosa Beograd
Il sito ufficiale del Pride 2011 di Belgrado
 
Il Pride 2011 su Facebook

giovedì 29 settembre 2011

SLOVENIA: GLI SVILUPPI DELLA CRISI DI GOVERNO

Elezioni anticipate il 4 dicembre. La crisi avrà ripercussioni in Croazia?

Lunedì scorso il presidente sloveno Danilo Tuerk ha iniziato le consultazioni con i partiti politici per risolvere la crisi di governo aperta con la sfiducia parlamentare al governo di Borut Pahor. Il presidente del Partito democratico (SDS), Jože Tanko, ha inviato però una lettera al capo dello stato in cui afferma che ogni rinvio è inutile poiché tutti i partiti si sono già espressi a favore delle elezioni anticipate. L'SDS é il partito guidato da Janez Janša che negli ultimi mesi é stato il maggiore sostenitore delle elezioni anticipate. “La sfiducia al governo è al tempo stesso una sfiducia nei Suoi confronti perché avete sostenuto senza riserve la coalizione ideologica di Pahor. Per questo mi aspetto che per il danno che il paese ha dovuto subire negli ultimi tre anni Vi assumiate una parte della responsabilità politica”, ha scritto Tanko nella sua lettera al presidente. Il quale, venerdì scorso, dopo un incontro con Pahor, aveva detto che le elezioni anticipate “sono una possibilità legittima”, ma che ciò nonostante avrebbe tenuto consultazioni con i partiti. I colloqui però non sono serviti e il 4 dicembre si voterà, ma intanto nella vicina Croazia, in procinto di entrare nell'UE ma con una situazione politica non solidissima, ci si chiede quali ripercussioni potrebbe avere la situazione slovena.

Di Marina Szikora
La crisi politica in Slovenia che ha portato alla caduta del governo di Borut Pahor, nella vicina Croazia viene seguita con attenzione. Nessun dubbio che proprio l'ex premier sloveno insieme alla sua collega croata Jadranka Kosor ha reso possibile lo sblocco della per lunghi anni esistente disputa sul confine marittimo tra Slovenia e Croazia che ostacolava il processo di adesione euroatlantica della Croazia. Adesso sono molte le analisi e le domande se il possibile ritorno al potere del leader dell'opposizione slovena, Janez Janša possa significare passi indietro per quanto riguarda le relazioni tra i due paesi confinanti.

Uno tra gli analisti che in questi giorni cerca di darne una risposta e' Davor Gjenero, editorialista del quotidiano di Zagabria 'Vjesnik'. In un articolo pubblicato lo scorso 24 settembre Gjenero sottolinea che non e' ancora chiaro come la crisi politica slovena si risolvera' e ricorda che il modello costituzionale sloveno rende particolarmente faticosa l'indizione delle elezioni anticipate. La Slovenia, gia' due volte nella sua recente storia politica aveva sperimentato il voto di sfiducia al governo ma in entrambi i casi la crisi e' stata risolta con la nomina del nuovo mandatario e con la formazione della coalizione che aveva terminato il mandato. Questa volta, sottolinea Gjenero, la situazione e' un po' diversa poiche' nel principale partito di opposizione, il Partito democratico sloveno di Janez Janša, valutano che l'indizione delle elezioni nel piu' breve tempo possibile massimalizza la loro vittoria, mentre nel maggiore partito dell'ex coalizione, che sono i socialdemocratici di Pahor, e' forte la pressione della dirigenza del partito di accettare la soluzione delle elezioni anticipate affinche' sia evitato il pericolo che fino alle prossime elezioni regolari, tra circa un anno, si arrivi al "riassestamento" nella sinistra e alla formazione della nuova organizzazione politica che possa minacciare la leadership del Partito socialdemocratico e il ruolo di Borut Pahor in questo campo.

Il giornalista di 'Vjesnik' spiega che Pahor per salvare la sua posizione di leader della sinistra ha sollecitato l'uscita dal governo di uno dei partiti della coalizione, i liberali ZARES. Piu' precisamente, Pahor aveva rifiutato la proposta del capo di Zares, Gregor Golobič, il quale e' stato lungamente l'uomo operativo nel team dell'ex premier sloveno di maggiore successo, Janez Drnovšek. Golobič aveva proposto di provare a superare la crisi del governo con le dimissioni di tutti i tre capi dei partiti di coalizione e il loro impegno nei propri partiti nonche' di nominare a capo del governo un esperto-operativo come ad esempio il vicepresidente per l'economia Mitja Gaspari, ex governatore della Banca popolare slovena, ex ministro delle finanze che durante il governo di Drnovšek riusci' a consolidare le finanze nazionali. Secondo Gjenero, Pahor aveva giustamente intuito che la proposta di Golobič poteva minacciare la sua posizione politica e quindi aveva facilmente rigettato la sua proposta in modo tale di aver spinto fuori dalla coalizione il secondo partito. Va ricordato che il maggiore colpo che il governo di Pahor aveva subito e' stato il rifiuto referendario della riforma del sistema pensionistico.

Secondo le analisi, la procedura politica che in questi giorni si svolgera' in Slovenia sara' una specie di gioco tattico tra i cosidetti "ragazzi vecchi" che si formarono nell'epoca del socialismo e la generazione dei cinquantenni alla quale appartengono sia Pahor che Janša, formatisi nell'epoca dell'istituzione del pluralismo politico. In questa gara saranno presenti inoltre alcune strutture nuove poiche' si parlera' anche di movimenti sociali nuovi, dell'impegno per l'ingresso delle istituzioni della societa' civile nell'arena parlamentare, ma secondo Gjenero, "questa parte del gioco politico sara' piuttosto un folclore politico che una vera lotta per il potere ed influneza politica".

In Croazia si tenta di creare una specie di timore dalla possibilita' del ritorno della destra in Slovenia e della convinzione che Janez Janša potrebbe notevolmente complicare le relazioni tra i due paesi. Il problema sloveno sta' nel fatto che, ogni conferma dell'allargamento dell'Unione o della Nato richiede l'approvazione da parte di due terzi dei parlamentari sloveni. Quale che sia il prossimo esecutivo in Slovenia, e' poco probabile che esso controllera' una maggioranza di due terzi e in queste condizioni anche la ratifica del trattato di adesione della Croazia all'Ue sara' un lavoro complicato. In piu' sta' il fatto che il modello costituzionale sloveno rende molto facile l'indizione di un referendum su ogni questione. Le preoccupazioni croate sono dovute al fatto che durante l'ex governo di Janez Janša le relazioni bilaterali tra Croazia e Slovenia erano molto tese. Queste tensioni si sono rifletture sul rallentamento del processo di preadesione croato. Con l'arrivo di Pahor al potere e' succeso nel 2008 anche un vero blocco del processo di adesione croato e lo si spiegava con il fatto che Pahor all'inizio del suo mandato voleva farsi piacere al corpo elettorale nazionalista. Solo durante il dialogo con la premier Jadranka Kosor, Pahor ha affermato quello che aveva imparato nelle istituzioni europee. Secondo Gjenero, rispetto alla prospettiva della ratifica del trattato di adesione croato non ci dovrebbe essere un impatto per quanto riguarda il cambio del potere in Slovania, proprio come il cambiamento non puo' influire nemmeno sulla prospettiva dell' Accordo di arbitrato sul confine. Il processo di arbitraggio sarebbe possibile disdirlo soltanto in base ad un accordo bilaterale tra Croazia e Slovenia in modo tale che le due parti attraverso il dialogo, decidano di risolvere il problema bilaterale da sole.

Lunedi', Borut Pahor ha qualificato l'accordo di arbitraggio con la Croazia come uno dei maggiori successi del suo governo dimissionario. "Abbiamo risolto il problema che non era risolto 18 anni, un problema alla cui altezza non sono stati ne' il governo di Drnovšek ne' quello di Janša" ha detto Pahor per la radio slovena aggiungendo che a questo tema aveva dedicato una buona parte dell'inizio del suo mandato. Pahor ha confermato che alle molto probabili elezioni parlamentari anticipate a dicembre guidera' il suo partito – i Socialdemocratici e ha negato le speculazioni che il prossimo anno si candidera' alla carica di presidente dello stato. Pahor ha aggiunto di essere stato come presidente del governo il "capro espiatorio" della situazione nel paese e che questo molto probabilmente influira' sui risultati elettorali. Tuttavia, Pahor ha detto che resta in politica e ha sottolineato di essere stato il primo a parlare apertamente e sinceramente delle dimensioni della crisi economica. Ha ammesso che l'opposizione ha piu' probabilita' di vincere alle elezioni anticipate ma che lui personalmente non ha i sensi di colpa a causa del lavoro del suo esecutivo negli ultimi tre anni. "Il governo – ha detto Pahor – si e' impegnato come meglio riteneva, le riforme sono state rigettate ai riferendum e lo stato adesso necessita di una revisione poiche' a causa della crisi in Europa e nel modno e' possibile che l'agonia sia appena iniziata anche se secondo l'opposizione finisce nel momento in cui il governo se ne sia andato".

[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale

KOSOVO: BORIS TADIC ALL'ONU DIFENDE LA POSIZIONE SERBA

Ma il leader liberaldemocratico Jovanovic ribadisce la necessità di una nuova politica

Di Marina Szikora [*]
Settimana scorsa e' stata nel segno degli interventi dei capi di stato e di governo alla 66 Assemblea Generale ONU. Tra questi anche quello del presidente della Serbia Boris Tadić. Come preannunciato e del tutto aspettato, il capo dello stato serbo, anche in questa occasione ha posto al centro del suo discorso il tema Kosovo. Tra i politici serbi, praticamente l'unico a sollevare esplicitamente la necessita' di un approcio nuovo relativo alla politica della Serbia verso il Kosovo, da lungo tempo e' il leader liberaldemocratico Čedomir Jovanović. Per Jovanović, il presidente della Serbia Tadić ha mancato all'occasione di promuovere una nuova politica serba alle Nazioni Unite e ha ripetuto che LDP si impegna per l'attuazione del piano Ahtisaari nella soluzione della crisi kosovara. Ad una conferenza stampa, Jovanović ha valutato che Tadić ha mancato all'occasione di promuovere una politica che avrebbe trovato comprensione nel mondo senza la quale non e' possibile risolvere i problemi e dare risposta alla piu' grave crisi che la Serbia sta' affrontando.

Secondo il leader liberaldemocratico "Tadić con il suo intervento ha condotto un dialogo con se stesso. Non abbiamo udito nessuna idea nuova, soltanto molte frasi, atteggiamenti che ripetiamo, nei quali noi stessi non crediamo piu' e che soltanto confermano la mancanza di idee della leadership di questo paese". Secondo le sue parole, l'intervento di Tadić all'Assemblea Generale ONU pronunciato venerdi' scorso impegna LDP di ripetere ancora una volta i passi che la Serbia deve intraprendere per uscire, ha detto Jovanović, dal vicolo cieco. "Invece delle soluzioni che nessuno capisce e che sono molto lontane dalla vita, e qui intendo la frase sulla necessita' di condurre un costante dialogo e che soltanto attraverso il compromesso e' possibile trovare una soluzione, noi insistiamo sul documento Ahtisaari come base sulla quale e' possibile costruire il futuro della comunita' serba in Kosovo" ha detto Jovanović. Ha aggiunto che LDP propone una rielaborazione del piano Ahtisaari per risolvere il problema delle relazioni tra serbi e albanesi in Kosovo e tra Belgrado e Priština. Il leader liberaldemocratico ha rilevato che se adesso si fallisce in questa occasione, la Serbia rimarra' senza quei meccanismi del documento Ahtisaari che proteggono anche i diritti dei serbi kosovari. "Dobbiamo decidere se continueremo a lottare per quello che non esiste, vale a dire per lo stato serbo in Kosovo, oppure inizieremo finalmente a riflettere di serbi che in Kosovo ci vivono" ha concluso Čedomir Jovanović.

Il presidente del Partito liberaldemocatico ha criticato cosi' il discorso del presidente della Serbia Boris Tadić davanti all'Assemblea Generale Onu in cui il capo dello stato serbo ha sottolineato due obiettivi della Serbia: assicurare l'accordo comunemente accettabile sul Kosovo che acconsentirebbe ferme garanzie alla comunita' serba e un accelerato avanzamento sulla via verso l'adesione all'Ue. Secondo Tadić, entrambi questi obiettivo sono realizzabili e ritiene che sarebbe poco serio se qualcuno pensasse che uno di questi obiettivi deve essere sacrificato nell'interesse dell'altro. Sono gli altri che dovrebbero decidere se la realizzazione di questi due obiettivi e' positiva per la regione balcanica e per la sua stabilita', ha detto Tadić dicendosi convinto che questo e' nell'interesse di tutti. Ha ringraziato tutti i membri Onu che non hanno riconsociuto l'indipendenza unilaterale del Kosovo rispettando gli obblighi della Carta delle Nazioni Unite sul rispetto della sovranita' ed integrita' territoriale della Serbia. Parlando del tentativo delle autorita' kosovare dello scorso luglio ad imporre i loro doganieri alle frontiere del nord del Kosovo, Tadić ha rilevato che la Serbia ha fatto il tutto possibile per ostacolare la difusione delle violenze. "La Serbia, vi assicuro, rimarra' impegnata nel dialogo con Priština" ha detto il presidente serbo aspettandosi che la Kfor e l'Eulex, in base alla Risoluzione 1244 rimangano neutrali. Ai margini dell'Assemble Generale, il presidente della Serbia ha tenuto colloqui con il segretario di stato americano Hillary Clinton sulla "collaborazione eccezionale tra Serbia e Stati Uniti nella lotta contro la criminalita' organizzata e terrorismo" e ha ringraziato Washington per il sostegno all'ingresso della Serbia nell'Ue. Tadić ha constatato pero' che continuano ad esserci divergenze tra i due paesi sul tema Kosovo.

Per il presidente della Serbia, qualsiasi tipo di comprensione sulla questione Kosovo deve avere come precondizione fondamentale un accordo su quattro questioni che, secondo Tadić, sono cruciali per la protezione dei serbi in Kosovo. La prima questione riguarda lo status della popolazione serba al nord del Kosovo. La seconda questione, ritiene Tadić, implica una efficace decentralizzazione del Kosovo. I serbi che vivono nelle enclavi, ha spiegato il capo dello stato serbo, devono avere gli standard politici, giuridici ed economici per una vita normale e progresso. In questo senso, ha ribadito Tadić, la Serbia resta pronta ad offrire tutto il sostegno indispensabile a questa popolazione minacciata. Come terza questione ha menzionato lo status della Chiesa ortodosssa serba e dei suoi luoghi sacri in Kosovo, sottolineando la necesitta' della loro salvaguardia, status speciale, protezione dell'identita' unica il che rappreseenta una importanza fondamentale. Tadić ha aggiunto che bisogna risolvere anche la questione del patrimonio, intendendovi il patrimonio delle persone internamente trasferite del Kosovo e quello di tipo commerciale.

Il presidente Tadić ha sottolineato che la Serbia ha adempiuto i criteri per ottenere lo status di candidato per l'adesione all'Ue. "Il nostro desiderio di aderire all'Ue rappresenta la piattatorma sulla quale intendiamo lavorare per realizzare i nostri obiettivi. La collaborazione regionale e' la pietra miliare della nostra diplomazia e crediamo che essa sia positiva per tutta la regione" ha detto Tadić nel suo intervento alle Nazioni Unite. In questo contesto ha valutato che con la Croazia e' stato istituito un livello di fiducia del tutto nuovo, il che e' importante dal punto di vista strategico anche per la stabilita' della BiH. Ricordando che la Serbia ha impegnato grandi sforzi per arrestare tutti gli imputati di crimini di guerra e in tal modo ha adempiuto l'obbligo anche verso se stessa e verso la comunita' internazionale, Tadić ha detto che questo testimonia la volonta' di Belgrado di creare un clima per la piena riconciliazione nella regione e ha ripetuto l'appello al Consiglio di Sicurezza di iniziare le indagini sul presunto traffico di organi umani in Kosovo.

[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale

mercoledì 28 settembre 2011

RIESPLODE LA TENSIONE NEL NORD DEL KOSOVO

(Foto Keystone)
Di Marina Szikora [*] Nuove tensioni al nord del Kosovo sono esplose martedi': sparatorie e utilizzo di lacrimogeni al confine di Jarinje, feriti i serbi dopo che la Kfor e' stata costretta ad utilizzare le armi. Questa la situazione nel momento della registrazione di chi vi racconta.
Il presidente della Serbia Boris Tadić si e' detto molto preoccupato per i nuovi scontri e per il peggioramento della situazione al nord del Kosovo. Si e' appellato ai Serbi all'indispensabile calma e pace, condannando aspramente l'utilizzo della forza "poiche' la salvaguardia della pace e il dialogo sono l'unico modo per risolvere i problemi". Tadić ha aggiunto che le forze internazionali presenti hanno il compito di difendere i cittadini senza armi invece di agredirli. Il capo dello stato serbo ha chiamato la Kfor alla massima astensione dall'utilizzo della forza. I serbi kosovari invece devono mantenere la calma e non cadere in trappola alle provocazioni, ha raccomandato Tadić.
Martedi' quindi si sono visti nuovi scontri, sei serbi sarebbero stati gravemente feriti, diverse persone invece solo leggermente, quanto alle informazioni serbe, dopo che i soldati della Kfor si sono scontrati con i cittadini nuovamente radunati alle barricate alla frontiera di Jarinje. I cittadini, secondo le informazioni mediatiche serbe, sono stati provocati dal fatto che le unita' della Kfor avevano chiuso la via alternativa che conduce subito accanto il passaggio di Jarinje. Un migliaio di serbi si sono riuniti circondando i soldati della Kfor e lanciando sassi. I soldati del contingente tedesco della Kfor hanno risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma. Sempre secondo le informazioni serbe, anche se si e' parlato di proiettili di gomma, le ferite dei serbi dimostrano che si e' trattato dell'utilizzo di vera munizione.
Le nuovissime tensioni sono seguite dopo che il governo kosovaro lo scorso 16 settembre ha iniziato un'azione di collocamento dei doganieri e della polizia alle frontiere di Jarinje e Brnjak al nord del Kosovo. I serbi dalla zona confinante hanno di nuovo messo le barricate bloccando le strade in alcuni posti nei comuni del nord del Kosovo: Leposavić, Zvečan, Kosovska Mitrovica e Zubin Potok nonche' nei pressi dei passaggi Jarinje e Brnjak protestando in tal modo contro i doganieri e la polizia kosovara ai confini con la Serbia.

[*] Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est che andrà in onda domani e sarà poi disponibile su Radioradicale.It

Aggiornamento / Da un lancio dell'agenzia Ansa
La Nato è determinata ad agire contro "gli estremisti serbi" all'origine dell'escalation di violenza attorno a un posto di frontiera nel nord del Kosovo. Lo afferma l'Alleanza atlantica in una nota in cui si rileva che la forza Kfor "ha reagito prontamente per ristabilire un clima di calma e di sicurezza". "Qualche estremista serbo ha cercato di provocare la violenza ma l'incidente è stato risolto e la situazione si è calmata, anche se resta tesa", aggiunge la Nato.

martedì 27 settembre 2011

KOSOVO: E' DI NUOVO TENSIONE AL NORD

E' di nuovo tensione nel nord del Kosovo, lungo il confine (o linea di demarcazione amministrativa) con la Serbia, dove manifestanti serbi e militari della Kfor si sono affrontati, con feriti da ambo le parti. Teatro degli scontri ancora una volta il posto di frontiera di Jarinje, bloccato da giorni da decine di serbi che si oppongono alla presa di controllo dei valichi di Jarinje e di Brnjak da parte di poliziotti e doganieri kosovari albanesi, appoggiati da uomini della missione europea Eulex e dalla Kfor.

di Artur Nura [*]
Quella che sembrava una crisi temporanea, con il rientro dell'emergenza, sembra peggiorare. I membri della KFOR hanno così reagito agli assembramenti dei serbi dinanzi ai posti di blocco lanciando gas lacrimogeni, ma stando alle testimonianze del luogo, si sono avvertiti degli spari, diretti prima contro i manifestanti che avevano circondato il percorso alternativo nella direzione di Leposavic, e poi contro coloro che avevano circondato la barricata verso la direzione di Rudnice. Tre ambulanze si sono recate verso i più vicini centri sanitari. I manifestanti riuniti sono stati dispersi da gas lacrimogeni e dalle barricate lungo la strada principale che porta a Jarinje, mentre le truppe continuano ad intimare l'alt per tutti coloro che cercano di avvicinarsi al filo spinato. Ricordiamo che le truppe della KFOR hanno bloccato questa mattina 27 settembre la strada alternativa, l'unica che collega il nord del Kosovo con Raska. Di risposta, i serbi, verso le ore 10, hanno circondato la barricata creata dai soldati della KFOR.

Le reazioni di Belgrado
Il ministro Bogdanovic ha dichiarato per la RTS [la radiotelevisione pubblica serba, n.d.r.] che quattro persone sono state ferite gravemente, mentre molti sono stati feriti da proiettili di gomma. "E' assolutamente inaccettabile che la KFOR spari contro persone senza armi. Alla domanda su quale sarebbe la reazione del governo e del presidente", afferma Bogdanovic, rilevando che si stanno valutando "tutti i fattori rilevanti" per prendere una decisione. Allo stesso modo, il capo negoziatore serbo, Borislav Stefanovic, esprime la propria disapprovazione nei confronti degli atti della Kfor. "In questo modo la Kfor sta cercando di minare la nostra posizione nel processo negoziale e penso che sia del tutto inutile e assolutamente inaccettabile usare la forza contro delle persone che protestano pacificamente", ha dichiarato Stefanovic, aggiungendo che la KFOR viola così il suo mandato, dato il fatto che il suo obbligo è quello di garantire la sicurezza, e non "occuparsi delle questioni di ordine pubblico".

[*] Corrispondente di Radio Radicale

lunedì 26 settembre 2011

PER NON DIMENTICARE SREBRENICA

Segnalo l'uscita in libreria della quarta edizione del libro "Srebrenica. I giorni della vergona" di Luca Leone, pubblicato dalla Infinito Edizioni. Pubblicato per la prima volta nel 2005, è il primo libro uscito in Italia sulla tragedia di Srebrenica che viene riproposto ora in un'edizione integralmente riscritta rispetto alle precedenti e aggiornata all’agosto 2011, cioè all’arresto di Ratko Mladic e alla sua consegna al Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia. La nuova edizione si avvale della prefazione di Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale internazionale, dell'introduzione di Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, e della presentazione di Enisa Bukvic, massima esponente culturale della diaspora bosniaca in Italia. Si tratta, dunque, di un libro completamente nuovo, per continuare a non dimenticare la tragedia consumatasi in Bosnia nel luglio del 1995, una pagina nera e dolorosa nella storia europea di fine ventesimo secolo, definita un “genocidio” da più sentenze internazionali che pure ancora oggi qualcuno continua ostinatamente a negare contro ogni evidenza.

“Sulla piena responsabilità di Mladic nel genocidio di Srebrenica non ci sono attenuanti, ma il processo contro l’ex generale potrà fare luce sulla verità e chiarire eventuali corresponsabilità di quella che è e rimarrà per sempre una delle pagine più drammatiche dei fatti criminali nella moderna e democratica Europa”.
Carla Del Ponte

“Quando il mio amico e grande attivista per i diritti umani Luca Leone scrisse la prima edizione di questo libro della memoria del genocidio, lui, io e tanti altri avremmo sperato che quelli della vergogna sarebbero stati, letteralmente, ‘giorni’ a seguire. Che vi sarebbero state, presto, verità e giustizia. Di edizione in edizione, i giorni sono diventati ‘anni della vergogna’: quelli fino a oggi, cui andrebbero aggiunti i tre precedenti il 1995”.
Riccardo Noury

“Sono passati più di tre lustri dal crimine di Srebrenica e ancora le madri, le sorelle e le mogli non hanno ottenuto giustizia per la perdita dei propri cari innocenti. Che cosa c’è nell’anima dei criminali che hanno compiuto il genocidio? Perché tutto quest’odio? Perché hanno voluto produrre così tanto dolore Riflettendo a lungo, ho realizzato l’idea di inviare pensieri di compassione a queste anime dure, nella speranza che comincino a pensare ai loro crimini, che si pentano e si consegnino tutti volontariamente al Tribunale dell’Aja”.
Enisa Bukvic

Luca Leone, giornalista e saggista, laureato in scienze politiche, è nato nel 1970 ad Albano Laziale (Roma). Ha scritto e scrive per diverse testate. Oltre a "Srebrenica. I giorni della vergogna" ha scritto "Il fantasma in Europa. La Bosnia del dopo Dayton tra decadenza e ipotesi di sviluppo" (Il Segno, 2004), "Anatomia di un fallimento. Centri di permanenza temporanea e assistenza (a cura di, Sinnos, 2004), "Uomini e belve. Storie dai Sud del mondo" (Infinito edizioni, 2008), "Bosnia Express" (Infinito edizioni, 2010), "Saluti da Sarajevo" (Infinito edizioni, 2011, in uscita a ottobre).

Di Luca Leone, nell'Archivio di Radio Radicale, oltre a suoi interventi in dibattiti su Srebrenica e la guerra di Bosnia, trovate due mie interviste: una dello scorso maggio sull'arresto di RatkoMladic, e un'altra, del 2007, sulla sentenza della Corte internazionale di giustizia che definiva quello di Srebrenica un genocidio ma senza riconoscere responsabilità dirette della Serbia. [RS]

sabato 24 settembre 2011

FINANCIAL MAFIJA

Alta finanza, mafie balcaniche e politici corrotti con lo sfondo delle guerre che insanguinarono la Jugoslavia negli anni Novanta. Come potrebbe dire Lucarelli, sembra un film, la trama di una spy story, invece è una storia vera, una storia intricata, di cui anche il più abile degli 007 farebbe fatica a tirare le fila.
Gaetano Veninata e Matteo Zola ci hanno provato e ne è venuta fuori un'inchiesta pubblicata sul numero di settembre di Narcomafie, il mensile del Gruppo Abele realizzato in collaborazione con l’associazione Libera, che racconta gli intrecci di politica, mafia e finanza attraverso l'Europa vecchia e nuova.

La storie che Veninata e Zola raccontano hanno come location i Balcani, terra dove tutto si fa intricato e ambiguo, e come protagonisti alcuni tra i personaggi di primo piano della politica europea degli ultimi vent'anni. C'è il padre-padrone dell'indipendenza croata Franjo Tudjman ed uno dei suoi successori, Ivo Sanader, ex-premier attualmente in carcere il cui nome rimanda allo scandalo del Gruppo Hypo il quale, a sua volta, e con le debite proporzioni, ricorda il cosiddetto “Russiagate” che tra il 1998 e il 1999 sconvolse la Russia di Eltsin facendo tremare le banche di mezzo mondo. Ci sono il defunto leader populista e xenofobo austriaco Jorg Haider e l'ex premier montenegrino Milo Djukanovic (attualmente presidente del partito di governo), sospettato di essere coinvolto in traffici illeciti e il cui fratello Aco è l'azionista di maggioranza della “Prva banka” la cui ricapitalizzazione è durata insolitamente tanto (circa un anno).Ci sono l'ex-presidente croato Stipe Mesic e l'ex-ministro degli Interni Tomislav Karamarko. E il potente uomo politico bavarese, Edmund Stoiber. E c'è anche Ramush Haradinaj, sotto processo all'Aja per crimini di guerra, un eroe per i kosovari albanesi, un criminale per i serbi, un avversario per l'attuale premier Thaci. E ci sono, naturalmente, i clan malavitosi: da quello degli Osmani, a quello del boss Darko Saric, a quello di Zemun. E i giornalisti che con coraggio cercano di dipanare e svelare tutti i nodi della matassa, come Demagoj Margetic, o quelli assassinati perché troppo curiosi come il direttore di "Nacional", Ivo Pukanic, il suo principale collaboratore Niko Franjic.
Riciclaggio, fondi neri, bilanci truccati, favori, complicità e collusioni, un intrico di affari e politica, sullo sfondo della crisi economica e della nazionalizzazione degli istituti di credito tramite fiumi di denaro pubblico. Vicende che legano la vecchia e le nuova Europa, dalla Mitteleuropa ai Balcani alla Russia, nate all'epoca delle guerre jugoslave e sviluppatesi oggi attraverso il tentativo di costruire una "seconda repubblica delle mafie".
Vicende che Veninata e Zola raccontano nel dossier di Narcomafie che vi consiglio caldamente di leggere (cercando la rivista in edicola, in libreria o scaricandola da Internet) con attenzione. E' una lettura agghiacciante e sconsolante, ma anche molto istruttiva e assolutamente necessaria a chi si occupa di queste aree del nostro vecchio e malandato continente.

Errata corrige
Tomislav Karamarko è tutt'ora il ministro degli Interni croato. Pochi giorni fa ha anche rinnovato la tessera di iscrizione all'Hdz e, secondo alcuni commentatori, potrebbe prenderne la leadership se l'attuale premier Jadranka Kosor dovesse uscire sconfitta dalle prossime elezioni, cosa vista come probabile da diversi analisti. Mi scuso per l'errore e ringrazio per la segnalazione Marina Szikora (che ha per altro collaborato all'inchiesta di Veninata e Zola).

Il sito di Narcomafie

Gaetano Veninata e Matteo Zola li trovate anche su
EaST JOURNAL

venerdì 23 settembre 2011

CI STIAMO PERDENDO LA TURCHIA?

La Turchia, uno dei nostri partner più importanti sul piano politico, commerciale e della difesa sta prendendo posizioni sempre più autonome, per non dire indipendenti, rispetto alle sue tradizionali alleanze. Che sta succedendo? Ci stiamo perdendo la Turchia, la perderemo o ce la siamo già persa? Intanto è un fatto che le iniziative verso le "primavere arabe", la crisi con Israele, l'attivismo in Africa, l'irrigidimento con l'Unione Europea sulla questione cipriota, la competizione per lo sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale, non consentono più di trattare la Turchia secondo gli schemi consueti, ormai del tutto inadeguati a comprendere la realtà dei fatti. Occorre invece riflettere sulle scelte di politica internazionale del governo turco e sull'atteggiamento dell'Europa e adeguare e aggiornare analisi e giudizi, perché, comunque finisca la politica "neo-ottomana" di Ankara, la Turchia dopo Erdogan non sarà più quella di prima.

Su questi argomenti vi segnalo una mia intervista a Carlo Frappi, ricercatore presso l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e fondatore dell'Italian Center for Turkish Studies (Icts), andata in sintesi nella puntata di ieri di Passaggio a Sud Est.

La registrazione integrale è ascoltabile sul sito di Radio Radicale oppure qui

giovedì 22 settembre 2011

TRIBUNALE INTERNAZIONALE: A CHI SI RIFERIVA IL PRESIDENTE JOSIPOVIĆ?

Di Marina Szikora
Il presidente croato Ivo Josipović, commentando le numerose reazioni in Croazia dopo i suoi colloqui con gli emigrati croati a New York, in cui ha criticato il Tribunale dell'Aja, ha detto che i processi sono stati una grande occasione perche' i piu' responsabili siano portati davanti alla giustizia, ma che questo non e' stato sempre cosi'. "Oltre tutte le cose positive che il Tribunale dell'Aja ha fatto, purtroppo non ha utilizzato fino alla fine le possibilita' affinche' siano adempiuti i principi della piena giustizia e uguali criteri per la responsabilita'", ha detto Josipović.

Per il presidente croato e' "piu' che importante la questione" che tutti i crimini compiuti durante la guerra, sul territorio della Croazia ma anche in altri paesi dell'area, siano puniti giustamente affinche' tutte le vittime possano avere il senso della giustizia. "Questa e' l'unica base possibile per costruire in Croazia relazioni sane, ma anche buone relazioni con i vicini" ha detto il capo dello stato croato. Josipović ha spiegato di aver rilevato, come lo ha fatto anche nel 1999 quando si e' dimesso dalla commissione per i crimini di guerra, che per lungo tempo la Croazia non ha collaborato in modo adeguato. Ha sottolineato il caso di Tihomir Blaškić quando si e' dimostrato che nel caso di Ahmići e' stata condannata la persona sbagliata.

"In questo contesto ho parlato anche di altre persone sbagliate" ha detto Josipović rilevando l'esempio del generale Ivan Čermak (recentemente giudicato non colpevole nel processo ai tre generali Gotovina, Markač e Čermak). ¨Čermak e' stato la persona sbagliata all'Aja. Tali esempi non ci sono stati soltanto dalla parte croata, ma anche dalla parte serba, bosniaca , albanese" ha detto il presidente. Il capo dello stato croato ha spiegato che per i processi all'Aja sono state investite molte risorse finanziarie ed umane, senza pero' aver realizzato il risultato, soprattutto quello di giustizia e del giusto."Quando parliamo di criteri per i processi contro i crimini di guerra, mi sono sempre impegnato e continuero' ad impegnarmi per i criteri uguali" ha detto Josipović.

Alla domanda se aveva pensato anche al generale Ante Gotovina di essere "la persona sbagliata all'Aja", Josipović ha detto di non aver menzionato i nomi. Ha ricordato anche le sentenze relative ai crimini di Vukovar e ha detto che molti alti comandanti non sono finiti all'Aja. Josipović ha aggiunto che ci sonostati crimini contro i cittadini di nazionalita' serba in Croazia che non sono stati processati. Ha espresso soddisfazione perche' "adesso abbiamo cambiato discorso ed e' positivo che la Croazia ci sta' lavorando a tal proposito". "Mi aspetto che il Tribunale dell'Aja giudichera' in modo giusto tutti i casi" ha concluso Josipović il suo commento da New York dove partecipa ai lavori dell'Assemblea Generale ONU.

[*] Corrispondente di Radio Radicale

IL KOSOVO NON POTRA' MAI PIU' TORNARE ALLA SERBIA

Di Marina Szikora [*]
In una intervista al quotidiano serbo “Blic”, l'eminente professore universitario croato ed esperto di filosofia politica, Žarko Puhovski avverte che non c'e' soluzione relativa alla questione Kosovo finche' non si comprende quello che non sara' mai piu' possibile il ritorno del Kosovo nell'ambito della Serbia e questo, ritiene Puhovski, bisogna dirlo chiaramente. I negoziati in corso da una parte sono sotto la pressione di atteggiamenti nazionalistici radicali che concepiscono il Kosovo come Stato albanese, dall'altra parte sono sotto la pressione della politica serba di non accettare l'indipendenza del Kosovo, afferma Puhovski. In tal modo non sono possibili maggiori passi avanti e in effetti la soluzione del problema viene solo rimandata. Bisogna prendere una decisione strategica, e prima delle elezioni, naturalmente, questo e' difficilmente immaginabile, continua l'esperto politico croato.

Puhovski sottolinea i paradossi che aggravano la soluzione del problema Kosovo, a partire dal fatto che Bruxelles si aspetta che Belgrado faccia quello che non hanno fatto nemmeno tutti i paesi membri dell'Ue, vale a dire riconoscere il Kosovo indipendente, fino al fatto che Boris Tadić lotta per gli interessi della popolazione che "domani votera' contro di lui". Puhovski e' dell'opinione che le pressioni dall'esterno non sono coerenti perche' a causa del non riconoscimento del Kosovo da parte di alcuni Stati, non vi e' una posizione unica dell'Ue, mentre all'interno della regione, ne' in Serbia ne' in Kosovo c'e' abbbastanza forza per intraprendere passi radicali. Il presidente Tadić si trova in una posizione politica paradossale in cui deve appoggiare e proteggere il nord del Kosovo, vale a dire quelli che alla prima occasione, alle prossime elezioni, voteranno contro di lui e contro la sua politica. Questo sicuramente non va bene, avverte Puhovski. Sotto pressione dell'opinione pubblica in Serbia di non capitolare, si rinuncia ai passi giusti, difficili, a lungo termine e si accetta invece un temporaneo miglioramento della situazione.

Puhovski indica che la Serbia potrebbe guardare all'esempio dell'integrazione della regione di Podunavlje (la regione danubiana) in Croazia, che e' stata una reintegrazione pacifica, e in tal modo tentare di risolvere il problema del nord del Kosovo. Ma per un tale approccio, Belgrado ha bisogno di sostegno internazionale come, a suo tempo, la Croazia ebbe l'appoggio del generale Jacques Klein e la risoluzione Onu. L'esperto politico croato e' anche dell'opinione che Priština non avra' l'appoggio internazionale per azioni unilaterali e indica che attualmente gli Stati Uniti stanno perdendo interesse per questa regione a causa di tutta una serie di altre priorita'. Priština ha il sostegno americano ma gli Stati Uniti non sono in azione. Per questo motivo tentano di sollecitare l'appoggio necessario provocando reazioni serbe per poter poi affermare di avere bisogno di protezione a causa di pressioni serbe.

Con l'ingresso della Croazia nell'Ue, afferma Puhovski, la regione diventa piu' piccola, la Serbia sara' piu' importante e le relazioni tra Serbia e Kosovo saranno piu' importanti di quanto non lo sarebbero se la Croazia non facesse parte dell'Ue. Il problema chiave pero' e' la Bosnia Erzegovina ed esso potrebbe avere implicazioni esplosive in tutta la regione balcanica. L'esperto croato spiega che per la questione Kosovo da una parte c'e' il diritto internazionale, dall'altra la volonta' di due milioni di persone. Per lui non c'e' nessun dilemma che l'indipendenza del Kosovo e' contraria al diritto internazionale. La maggior parte della comunita' internazionale ha sostenuto la volonta' di due milioni di persone contrariamente alle 'formalita'' del diritto internazionale. Questo, secondo Puhovski, avra' conseguenze a lungo termine, ma non oggi. Oggi – afferma Puhovski – esiste soltanto una possibilita': che de facto sia accettato che il nord del Kosovo e' fuori dallo stato kosovaro. Sono possibili grandi problemi, incluse minacce di guerra. L'alternativa sarebbe quello che si e' tentato di fare in Bonia, il trasferimento umanitario, che pero' e' sempre piu' “trasferimento” che “umanitario” e finisce per avere brutte conseguenze. La soluzione meno peggiore, in questo momento, conclude Žarko Puhovski, sarebbe il congelamento della situazione in attesa del cambiamento delle relazioni.

[*] Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi.

JOVANOVIĆ INSISTE: LA SERBIA HA BISOGNO DI UNA NUOVA POLITICA IN KOSOVO

Di Marina Szikora [*]
La Serbia è minacciata nella sua stessa esistenza dall'abuso della questione del Kosovo, in cui i circoli nazionali anti-europei vedono la loro chance e provocando caos e instabilità ostacolano ancora una volta il Paese nell'ultimo passo per ottenere lo status di candidato all'adesione all'Ue: lo ha dichiarato il presidente del Partito liberaldemocratico serbo, Čedomir Jovanović.
Ai cittadini viene offerto un surrogato di vita, le barricate e il tira e molla sulle interpretazioni mediatiche relative ad una evidente sconfitta della politica sul Kosovo, ha sottolineato Jovanović aggiungendo che si dimentica la gente viva e il problema di come riusciranno a sopravvivere con i muri eretti.
"La Serbia non deve essere kosovizzata, bensì europeizzata. Se blocchiamo la vita al nord del Kosovo, noi stessi saremo colpiti da un tale blocco perché così distruggeremo i serbi kosovari e poi la stessa Serbia", ha avvertito il leader liberaldemocratico.
Jovanović ha ripetuto che l'uscita dal problema dei serbi in Kosovo, della Serbia e dell'intera regione, si potrebbe cercare soltanto nelle regole europee, nelle garanzie e nella vita che relativizza l'importanza di tutti i confini.

[*] Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi.

BOSNIA: SCONTRO POLITICO PER I FONDI EUROPEI IPA

Ad ormai quasi un anno dalle elezioni (3 ottobre 2010) i partiti politici della Bosnia Erzegovina non si riescono a trovare un accordo per la formazione del governo centrale: in compenso riescono a litigare anche sui fondi europei del Programma di Cooperazione transfrontaliero IPA (Instrument for Pre-accession Assistance).
Qui di seguito il testo della corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale.

Gli organi di informazione della Bosnia Erzegovina danno conto dell'importante lotta politica relativa alla distribuzione dei fondi europei di preadesione IPA(*). Si tratta di fondi per circa 100 milioni di euro. Alenko Zornia, corrispondente croato in Bosnia, scrive che la soluzione relativa a questi fondi potrebbe decidere sui futuri rapporti tra Bruxelles e Bosnia Erzegovina. Vale a dire se le relazioni tra UE e BiH saranno focalizzate sulla collaborazione tra Bruxelles e le istituzioni statali centrali di Sarajevo, oppure tra Bruxelles e le due entità che compongono la Bosnia, ovvero la Federazione di Bosnia Erzegovina e la Republika Srpska.

Il governo della Federazione BiH, l'entita' a maggioranza bosgnacco-croata, con a capo il premier Nermin Nikšić, ha respinto la lista riveduta di progetti IPA per il 2011 e in tal modo ha messo in questione l'intero pacchetto di aiuti di un valore di 96 milioni di euro. Anche se l'Alto rappresentante internazionale in Bosnia, Valentin Inzko, ha avvertito che la BiH non può concedersi di perdere nemmeno un euro di aiuti, il governo della Federazione BiH e il suo premier non cedono. Più importante dei fondi è la questione se al centro delle relazioni con l'UE ci sarà la collaborazione tra Bruxelles e le istituzioni centrali di Sarajevo, oppure tra Bruxelles e le due entità, scrive il quotidiano di Zagabria 'Vjesnik'. Se non sarà trovato un accordo tra i politici della Bosnia, è molto probabile la sospensione dei fondi europei di preadesione per quest'anno.

A rendere più grave il problema c'è il fatto che la Republika Srpska ritiene che sulle questioni relative alle entità non devono decidere le istituzioni centrali, mentre la Federazione croato-bosgnacca è dell'opinione che tutte le questioni europee vanno risolte assolutamente attraverso le istituzioni centrali dello Stato. Secondo il corrispondente di 'Vjesnik', pare che Sarajevo tenti di esaurire economicamente la Republika Srpska e in tal modo costringere Banja Luka ad impegnarsi sul rafforzamento delle istituzioni statali centrali. Anche se la condizione economica in entrambe le entità sia critica, pare che la situazione sia un po' peggiore nella RS, dove aumentano le pressioni sociali. L'opposizione e gli analisti indipendenti avvertono che il governo del premier Aleksandar Džombić non potrà reggere economicamente la situazione e che la Republika Srpska rischia la bancarotta.

Per quanto riguarda gli investimenti stranieri, essi praticamente non ci sono. Gli esperti avvertono che senza l'auto delle istituzioni internazionali, e in particolare dell'UE, la situazione economica potrebbe peggiorare drammaticamente. Sempre secondo 'Vjesnik', sulla scena politica dell Bosnia Erzegovina in questo momento tra le due entità che compongono il Paese è in corso un "gioco di esaurimento" in cui ognuna delle due parti cerca di fare in modo che all'altra entità finisca in una peggiore situazione. Ma il prezzo, come sempre, lo stanno pagando i cittadini dell'intera Bosnia Erzegovina che rispetto ad altri Paesi della regione è molto indietro nel processo di integrazione europea. Per di più, a quasi un anno dalle elezioni politiche, non c'è ancora un governo centrale e la situazione sociale di giorno in giorno si fa sempre più grave.

(*) La politica di pre-adesione IPA 2007-2013 riguarda i paesi candidati o potenziali candidati. Il relativo strumento finanziario IPA (Instrument for Pre-accession Assistance) si articola in diverse componenti: sostegno alla transizione e sviluppo istituzionale, cooperazione transfrontaliera, sviluppo regionale, sviluppo delle risorse umane, sviluppo rurale. La Commissione europea predispone un documento pluriennale indicativo di pianificazione per ogni paese beneficiario che stabilisce le linee strategiche dell'assistenza per tutte le componenti alle quali il singolo paese è ammissibile. Sulla base del documento, le autorità nazionali dei paesi predispongono i programmi indicando le misure e le azioni da finanziare attraverso IPA.

PASSAGGIO IN ONDA

La puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale

Argomenti della trasmissione

La Turchia, l'Europa e la questione di Cipro (con le opinioni di Emma Bonino, del deputato radicale Maurizio Turco e l'analisi di Carlo Frappi, ricercatore presso l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e fondatore dell'Italian Center for Turkish Studies).

Kosovo: le nuove tensioni lungo il confine con la Serbia rilanciano la questione di cui si è parlato anche al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Mentre il quadro politico resta immutato, nei Balcani (e anche in Serbia) c'è chi riflette sui possibili sbocchi.

Bosnia Erzegovina: lo scontro tra le forze politiche che ad un anno dalle elezioni impedisce la formazione del governo centrale, rischi ora di far perdere i fondi europei mentre il paese è sull'orlo di una gravissima crisi.

Albania: definitivamente chiusa la storia infinita delle elezioni amministrative di maggio, la situazione politica è tutt'ora sotto l'esame dell'Osce.

Crimini di guerra: si è svolta a Belgrado la conferenza sul lavoro delle corti locali; collaborazione regionale, protezione di testimoni e collaboratori, trasferimento delle competenze del Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia i principali temi del confronto tra magistrati, avvovati, esperti e rappresentanti di o.n.g.

La trasmissione, realizzata con la collaborazione dei corrispondenti Marina Szikora e Artur Nura è ascoltabile direttamente qui



oppure sul sito di Radio Radicale nella sezione delle Rubriche (scaricabile anche in Podcast).

mercoledì 21 settembre 2011

DOVREMO TENERCI LA GRANA DEL KOSOVO PER MOLTO TEMPO ANCORA

Mitrovica (Foto Afp)
Le tensioni scoppiate tra la fine di luglio e i primi di agosto lungo il confine tra la Serbia ed il Kosovo hanno riportato l'ex-provincia serba alla ribalta internazionale, dopo una fase di sostanziale disinteresse seguita all’indipendenza del 17 febbraio del 2008. Le violenze, che hanno provocato la morte di un poliziotto albanese e numerosi feriti, testimoniano che nel più giovane degli stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia la situazione rimane tesa e che la questioni sollevate prima dell’indipendenza – il rapporto tra maggioranza albanese e minoranza serba, le relazioni tra Pristina e Belgrado, quelle tra Belgrado e i serbi del Kosovo, la prospettiva europea della Serbia – sono tutt'ora irrisolte e continueranno a incidere pesantemente sul futuro dell'area post-jugoslava e dell'intera regione. In questi giorni, scaduto l'accordo temporaneo, Pristina a inviato nuovamente i suoi agenti per prendere il controllo dei valichi di confine e i serbi hanno nuovamente alzato le barricate, così la situazione è nuovamente in pieno stallo.

Prendo queste parole dall'articolo di Matteo Tacconi pubblicato su Reset Doc, e ripreso nel suo blog Radio Europa Unita, in cui si analizzano i recenti disordini alla frontiera serbo-kosovara e si mettono a confronto le posizioni di Pristina e quelle di Belgrado, e i rispettivi punti deboli, in una contesa apparentemente senza soluzioni. Nota Tacconi che qualcuno inizia a domandarsi se non era meglio, prima di dare l’indipendenza al Kosovo, risolvere la questione della città di Mitrovica e della regione settentrionale del Kosovo, a nord del fiume Ibar, a maggioranza albanese. Certo che era meglio, risponde Tacconi aggiungendo però che porsi ora tali domande non ha senso. L’unica cosa sensata, giunti a questo punto, è risolvere il problema. Ma come? Due le opzioni di cui si parla da tempo: la partizione o l’internazionalizzazione di quei territori, ma né agli uni, né agli altri va bene. Allora, ancora, conclude Matteo Tacconi, siamo sempre lì ai piedi dell’albero, a tenerci questa grana per chissà quanto tempo. Credo che, purtroppo, abbia ragione.

L'articolo di Matteo Tacconi lo trovate cliccando qui 

SFIDUCIA AL GOVERNO PAHOR: LA SLOVENIA VERSO LE ELEZIONI ANTICIPATE

Di Marina Szikora [*]
Da ieri la Slovenia non e' piu' guidata dal governo di Borut Pahor. Il Državni zbor (parlamento) ha votato la sfiducia all'esecutivo ormai di minoranza con 51 voti a favore contro i 36 voti a favore. All'inizio della seduta del Parlamento, durata otto ore, nel suo intervento, Borut Pahoh ha detto che personalmente non ha problemi con le elezioni anticipate, ma che sarebbe stato meglio se i deputati avessero confermato i cinque candidati proposti come ministri e consentendo in tal modo al suo governo di continuare il mandato. "Quando sono diventato premier, la situazione nel paese era molto peggio di quanto si prevedesse. La Slovenia non era pronta alla recessione, le relazioni coni i paesi vicini erano ad un livello catastrofico. L'economia adesso e' in ripresa, anche se questa crisi non e' stata una corsa a cento metri come molti prospettavano, bensi' una maratona che dura ancora. Sulla scena internazionale la Slovenia adesso e' piu' rispettata che tre anni fa. Le relazioni con i vicini sono molto migliorate, soprattutto con la Croazia", ha detto Pahor in difesa del suo governo aggiungendo di essere consapevole che votare la fiducia ad un governo di minoranza che dietro di sé non ha la maggioranza del Parlamento non e' una mossa popolare, ma che questa sarebbe stata comunque una soluzione migliore che lasciare la Slovenia in questi tempi senza un governo. Il sostegno però non e' arrivato e nonostante le sue parole ferme e fiduciose, secondo l'opposizione negli ultimi tre anni in Slovenia si e' radicata la criminalità e la corruzione in cui, affermano, sono stati coinvolti anche esponenti del governo. Ora c’è un mese di tempo per eleggere un governo provvisorio. Nel caso contrario il presidente della Repubblica, Danilo Tuerk, deve indire le elezioni anticipate che dovrebbero svolgersi tra l'1 e il 20 dicembre.
Le possibilita' che il governo di Pahor si potesse salvare, gia' da tempo erano minime. Negli ultimi giorni, i media sloveni affermavano che di un totale di 90 deputati soltanto 47 si sarebbero pronunciati in difesa del governo. Pahor attualmente ha l'appoggio soltanto dei deputati socialdemocratici e dei Liberali democratici guidati da Katarina Kresel che recentemente si e' dimessa dall'incarico di ministro degli Interni. In effetti, e' proprio con queste ultime dimissioni che le cose per Borut Pahor si sono messe definitivamente male. La sfiducia al governo di Pahor e' il risultato di diversi mesi di clima agitato all'interno della coalizione governativa, dimissioni di ministri e scandali collegati con certi ministri. Dopo il voto in Parlamento, Pahor ha affermato che negli ultimi tre anni molta gente gli aveva detto che il suo lavoro e' molto difficile, in condizioni avverse e che per questo sono dispiaciuti. "A me non e' mai dispiaciuto", ha sottolineato l'ex premier aggiungendo di aver tentato di mettere a disposizione della Slovenia tutte le sue conoscenze ed esperienze. Con la vicenda di ieri, Borut Pahor e' il terzo premier della Slovenia indipendente a finire il suo mandato prima del termine. Prima di lui, questo e' stato il destino di Janez Janša e di Lojze Peterle. Secondo i media e gli analisti politici, l'attuale umore in Slovenia e' piuttosto incline alle elezioni anticipate. Cosi' potrebbe succedere che la Slovenia per la prima volta nella sua storia abbia le elezioni anticipate che potrebbero quasi coincidere con quelle regolari in Croazia previste per il prossimo 4 dicembre.
[*] Corrispondente di Radio Radicale

martedì 20 settembre 2011

L'EUROPA NON DEVE PERDERE LA TURCHIA

Ci perderemo la Turchia, la stiamo perdendo, ce la siamo persa. Che la si veda in maniera più o meno pessimista, è un fatto che uno dei nostri più importanti interlocutori, sul piano politico, economico, energetico e della difesa, sta prendendo posizioni sempre più indipendenti rispetto alle alleanze che per decenni hanno caratterizzato i suoi legami internazionali e che sembravano inossidabili. Invece è successo e gli accenti battaglieri a cui Recep Tayyip Erdogan ha improntato la sua politica internazionale negli ultimi mesi ha materializzato quello che Alberto Negri, sul Sole 24 Ore, definisce “un formidabile paradosso”: la Turchia sta uscendo dall'Unione europea senza neanche esserci entrata. Certo, come scrive Negri, può essere una tattica per sbloccare il negoziato congelato con Bruxelles, ma l'atteggiamento con cui Erdogan appare disposto ad aprire una profonda crisi diplomatica con Cipro, e quindi con l'UE, per rafforzare la sua posizione nel Mediterraneo, meriterebbe di essere in testa alle preoccupazioni di quelle cancellerie europee che si domandano dove stia andando Ankara. Perché in gioco, nota ancora Negri, non c'è soltanto l'Unione, ma il futuro della Nato di cui la Turchia è membro da mezzo secolo e all'interno della quale possiede l'esercito più potente dopo quello Usa.

Come diversi osservatori avevano fatto notare nelle scorse settimane, oltre la vicenda della Mavi Marmara e la crisi con Israele, oltre le rivendicazioni palestinesi ad avere uno stato fatte proprie dal governo turco insieme alla volontà di prendere la leadership della regione sfruttando l'onda delle “primavere arabe”, c'è la questione dello sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale, in uno scenario già piuttosto surriscaldato e con la questione della divisione di Cipro tutt'ora irrisolta. Il 37% dell'isola – la parte occupata dalle truppe turche nel 1974 come reazione al colpo di Stato militare con cui i greco-ciprioti volevano l'annessione alla Grecia – è infatti governato dalla Repubblica turca del Nord, uno Stato non riconosciuto dalla comunità internazionale, che vive soltanto grazie al sostegno di Ankara. Tutti i tentativi di compromesso per arrivare ad una qualche forma di riunificazione sono fino ad ora falliti, con l'Unione Europea responsabile di uno dei più clamorosi e gravi errori politici della sua storia: dopo il fallimento, ad opera dei greco-ciprioti, del referendum sul piano Onu, l'isola – tutta l'isola – è infatti entrata nell'Unione.

Cipro (la Repubblica di Cipro, riconosciuta internazionalmente e membro dell'UE) si prepara ora ad avviare le esplorazioni di gas al largo delle coste meridionali dell'isola in collaborazione con Israele, ma la questione della definizione delle acque territoriali di Grecia e di Cipro non è mai stato risolta, e i turchi annunciano di volere fare altrettanto nelle acque della greca Kastelorizo inviando una unità di perforazione scortata da navi da guerra. Così come per l'integrazione della Serbia è arrivato al pettine il nodo del Kosovo, che si era tentato di esorcizzare con vari espedienti (ed è inutile farsi illusioni, fino a quando non si troverà una soluzione Belgrado può scordarsi l'adesione all'UE), per la Turchia il nodo si chiama Cipro. Solo che la Turchia non è la Serbia. La Turchia si è resa conto da tempo che l'ingresso in una Unione Europea in crisi politica, finanziaria e di idee è al momento quanto mai aleatorio e preferisce fare da sola, senza necessariamente mettere in discussione i legami euro-atlantici, almeno per ora, ma senza nemmeno farsene condizionare. Se questo è lo scenario il recupero della Turchia, un Paese strategico per l'Occidente sul piano politico, economico e dell'energia, non sarà per nulla facile, ma è un dovere prioritario. Forse alla fine Erdogan sconterà in tutto o in parte la grande sicurezza di cui oggi fa mostra, ma la Turchia sta comunque conquistando una fiducia in sé stessa e un ruolo internazionale che difficilmente saranno annullati da un eventuale mancata o parziale realizzazione dell'ambizioso progetto “neo-ottomano”. [RS]

CIPRO-NORD: L'UE PAGA LA SUA CODARDIA E LA SUA INCAPACITA' DI GOVERNO

Nonostante tutto Erdogan sta ancora lavorando per limitare i danni al suo paese e all'intera area e quindi all'Europa

Dichiarazione di Maurizio Turco, deputato radicale

"È paradossale dover leggere che la Grecia non starà ferma se la Turchia sposterà le sue navi a Cipro Nord. Proprio la Grecia che è riuscita a costruire un muro in un paese dell'Unione europea ed è prossima al fallimento economico.
La Grecia per anni ha posto il veto all'ingresso della Turchia alla quale da decenni si chiedono riforme su riforme per adeguarsi al diritto comunitario che è sempre quel diritto comunitario di cui i paesi già membri sono maestri di violazioni.
I greco ciprioti hanno preso in giro la Commissione europea infatti, dopo aver incassato l'ingresso nell'UE, anche con un voto parlamentare, hanno organizzato il voto contro il piano che avrebbe riunificato l'isola oggetto di un referendum concordato con turco ciprioti ed Unione europea. Insomma dei tre cartari patentati.
La Grecia e tutti gli altri paesi europei dovrebbero fare una sola cosa: indurre la Repubblica di Cipro a riconvocare entro 3 mesi i propri cittadini e ripetere il referendum per la riunificazione dell'isola. E nello stesso tempo pretendere dalla Turchia che entri subito nell'Unione europea, visto che avrebbe molte ragioni per non volerlo più fare.
Appena la settimana scorso, con un ordine del giorno, avevo invitato il Governo a farsi promotore in sede europea di queste iniziative per evitare una inevitabile escalation, peraltro già in corso. Il Governo intende aspettare ancora? Magari i primi colpi di "mortaio" venduti alla Repubblica di Cipro da chi e con quali mediazioni?".

L'intervista di Alessio Falconio a Maurizio Turco per Radio Radicale

lunedì 19 settembre 2011

CIPRO: IN NOME DEL PETROLIO L'UE CONFERMA LA POLITICA ANTI-TURCA

Dichiarazione del senatore Marco Perduca, radicale eletto nel Pd

"Dopo anni di totale disinteresse per la soluzione dei negoziati su Cipro, con picchi di complicità per il rispetto della parola data alla comunità turco-cipriota, l'Unione europea oggi conferma la sue politiche sostanzialmente anti-turche girandosi ancora una volta dall'altra parte in occasione dell'avvio delle esplorazioni alla ricerca dell'oro nero al largo delle coste cipriote in un contesto in cui qualsiasi tipo di iniziativa deve tener di conto che la giurisdizione del governo di Nicosia è limitata sia geograficamente che politicamente dovendo comunque avere sempre a che fare almeno coi poteri garanti Grecia e Turchia se non le Nazioni unite intere.

Tra l'altro le esplorazioni della Noble Energy in acque disputate vanno a incrociarsi coi ferri corti in cui Ankara è con Israele; una pausa di riflessione, anche alla vigilia del dibattito generale dell'Assemblea generale, sarebbe la scelta più saggia per poi però immediatamente agire sotto l'egida dell'Onu per la conclusione dei negoziati tra le due comunità cipriote entro la fine dell'anno, anche perché si avvicina la presidenza di turno cipriota dell'Ue (prevista dal 1 luglio 2012) e non tenere di conto di quanto paventato da Ankara nei giorni scorsi potrebbe veramente far crollare non solo la possibilità di un ingresso turco un (dopo)domani ma dell'Unione stessa come soggetto politico tout court. Se l'Italia vuol confermare la sua storica amicizia con Ankara oltre che il suo presunto europeismo adesso è il momento.

venerdì 16 settembre 2011

BOCCHINO, SUA MOGLIE E L'AFFAIRE TELEKOM SERBIA

Di Giulio Manfredi [*]
Oltre alle vicende amorose dell’onorevole Italo Bocchino, sarebbe interessante se qualche giornalista chiedesse alla signora Gabriella Buontempo: perché nel 2001 lei e l’onorevole Bocchino si rivolsero a una sconosciuta finanziaria di San Marino, la Fin Broker S.A., gestita dal signor Loris Bassini, per ottenere un prestito di 1,8 miliardi di lire per la società Goodtime Sas (di cui socia accomandataria era Gabriella Buontempo) e un prestito di 2,4 miliardi di lire per la società Edizioni del “Roma”, di cui socio e Presidente del Consiglio di Amministrazione era l’onorevole Bocchino; se erano a conoscenza che una parte del prestito proveniva dalle mediazioni pagate al signor Gianfrancesco Vitali per “l’affaire” Telekom Serbia (dal 2002 al 2005 Italo Bocchino è stato membro della Commissione parlamentare d’inchiesta su Telekom Serbia); se Bocchino e la moglie frequentavano il signor Vitali e sapevano del ruolo da lui ricoperto nell’operazione; se hanno restituito al signor Bassini le somme avute in prestito o se è vero quanto dichiarato dal signor Bassini, di avere inviato l’ufficiale giudiziario a pignorare beni della signora Buontempo.

A scanso di equivoci e illazioni, ricordo che quanto riportato fu messo nero su bianco, per la prima volta, nel 2005, dai Pubblici Ministeri della Procura della Repubblica di Torino (che sentirono come testimone l’onorevole Bocchino il 18 aprile 2005 e che non possono certo essere etichettati come “uomini di Berlusconi”) e ripreso poi da noi radicali nel 2007, nel decennale dell’operazione Telekom Serbia; “Il Giornale” ha ripreso il tutto solo nel 2010, quando serviva bastonare il “ribelle” Bocchino.
Avrei evitato di tornare sull’argomento se Italo Bocchino avesse fornito la sua versione dei fatti nella sua autobiografia “Una storia di destra”. Così non è stato. Nel libro non compare nemmeno una volta la parola “Telekom Serbia".

[*] Presidente dell'Associazione radicale "Adelaide Aglietta" di Torino, membro del Comitato nazionale di Radicali Italiani, autore del libro "Telekom Serbia. Presidente Ciampi, nulla da dichiarare?" (Ed. Stampa Alternativa)

IN SERBIA C'E' ANCHE CHI CHIEDE UNA SVOLTA NELLA POLITICA SUL KOSOVO

Cedomir Jovanovic
Di Marina Szikora [*]
A proposito delle per nulla superate tensioni tra Serbia e Kosovo, il leader del Partito liberaldemocratico serbo, Čedomir Jovanović, ha rilevato in questi giorni la necessità di adottare il “Piano Ahtisaari” e ha fatto appello ad una svolta nella politica serba sul Kosovo al fine di porre fine alle tensioni ed alle incertezze.
Secondo Jovanović non c'è più né tempo, né diritto ai calcoli politici. Ha avvertito che non bisogna aspettare di nuovo l'ultimo momento e che il 16 settembre bisogna fare una svolta nella politica sul Kosovo, smettere con le incertezze che creano nevrosi e impegnarsi ad attuare il “Piano Ahtisaari”. A proposito dell'annuncio delle autorità di Priština che dal prossimo 16 settembre collocheranno doganieri e agenti di polizia lungo i confini amministrativi al nord del Kosovo, Jovanović ha puntato sull'indispensabile necessità di “liberarsi dalle tensioni con le barricate e dalla paura di azioni militari, nonché sulla necessita' di iniziare il dialogo sui modelli reali di autonomia, illustrati anche dalle autorità internazionali“.
Il primo punto deve essere l'attuazione del “Piano Ahtisaari”, ha detto il presidente dei liberademocratici serbi, aggiungendo che i serbi e i serbi-kosovari, ad appena quattro giorni dalla scadenza dell'accordo con la Kfor, “non hanno bisogno di messaggi in codice e di politica riciclata”. Jovanović ha sottolineato che, secondo il “Piano Ahtisaari”, i serbi in Kosovo hanno il diritto di organizzare il sistema sanitario, scolastico, comunale, giuridico, culturale ed istituzionale, ad influenzare in modo decisivo il lavoro della polizia e non soltanto nei comuni dove sono la maggioranza.
“Sulle decisioni statali e locali cruciali, i rappresentanti legittimi dei serbi hanno diritto di veto e di negoziare sulle soluzioni più appropriate”, ha concluso Jovanović ricordando che il “Piano Antisaari” permette inoltre la regolamentazione delle relazioni tra Belgrado e la comunità serba in Kosovo.

[*] Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è la trascrizione di una parte della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 15 settembre

SERBIA: LA STRADA PER L'EUROPA PASSA DAL NORD DEL KOSOVO

Belgrado però respinge la pressioni internazionali: “La Serbia ne ha già subite molte e vi è un limite oltre il quale non può accettarne altre”, ha detto il presidente Tadic

Barricate erette dai serbi kosovari
tra la fine di luglio e i primi di agosto
Situazione di nuovo tesa nel nord del Kosovo, dopo che gruppi di cittadini serbi sono tornati a bloccare l'accesso ai due punti di confine di Jarinje e Brnjak, teatro di violenze tra la fine di luglio e i primi di agosto, dopo che la autorità di Pristina avevano tentato di imporre la loro autorità sulla zona a maggioranza serba che non intende accettare nessun tipo di separazione dalla madrepatria. Ieri è scaduto l'accordo transitorio tra Belgrado e Pristina e il governo kosovaro ha annunciato l'intenzione di inviare propri agenti di polizia e doganieri a prendere il controllo di quella che per gli albanesi è la frontiera, mentre per i serbi una semplice linea di demarcazione amministrativa, affiancati da rappresentanti della missione civile dell'UE (Eulex): un'opzione "inaccettabile" per la minoranza serba in Kosovo. Un appello alla calma e alla pace è stato lanciato dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce): il presidente di turno, il ministro degli Esteri lituano, Audronius Azubalis, ha invitato le parti a risolvere i problemi attraverso il dialogo e con un approccio costruttivo.

Oggi era previsto il passaggio del controllo del confine settentrionale dalla Nato ai poliziotti e doganieri kosovari. Al momento in cui sto scrivendo, stando a quanto riportano varie fonti di informazione, la situazione è calma: gli agenti kosovari-albanesi dovrebbero aver preso il controllo dei valichi, ma non è del tutto chiaro. Quel che è certo è che per evitare nuovo episodi di violenza come quelli di un mese e mezzo fa (in cui perse la vita un poliziotto kosovaro-albanese e un check-point fu assaltato e distrutto) i militari della Kfor hanno chiuso sia il “gate 1”, sia il “gate 31”. La Reuters riferisce che un suo reporter ha visto i militari tedeschi del contingente Nato presidiare i valichi in tenuta da combattimento. "La situazione è tesa, ma la Kfor è in grado di garantire la sicurezza", ha detto il portavoce Ralph Ademic. Sui cartelli apposti lungo il filo spinato che al momento blocca la e strade si legge la scritta “Stop, o la Kfor spara”. La Kfor ha fatto sapere che il libero transito sarà ripristinato una volta disperse tutte le persone che hanno allestito le barricate.

La tensione è tornata a salire proprio mentre in Kosovo è in visita il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen. "Non permetteremo che l'equilibrio raggiunto venga messo in pericolo. La missione della Kfor è quella di mantenere la sicurezza, e continueremo a farlo con fermezza, cura e imparzialità", ha detto Rasmussen in una conferenza stampa. Le sue parole però non convincono per niente i serbi del Kosovo. Secondo il loro rappresentante, Milan Ivanovic, interpellato da Euronews, “è un dato di fatto che non siano imparziali e nemmeno neutrali, e che agiscano al di fuori delle prescrizioni della risoluzione Onu 1244. La loro funzione è di assicurare sicurezza a tutta la popolazione, ma non lo fanno da 12 anni”. Una posizione condivisa dal presidente serbo Boris Tadic che nei giorni scorsi aveva criticato aspramente Kfor e Eulex per “la violazione del loro obbligo di neutralità”. Tadic ha definito l'iniziativa di Pristina “un atto unilaterale che mette in serio pericolo la pace e la stabilità dell’intera regione”.

Intanto, quando in Italia era già notte, il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha affrontato la questione come richiesto da Serbia e Russia. Secondo quanto riportato dalle agenzie, il ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic, a margine della riunione a porte chiuse, ha detto che "il Consiglio di sicurezza non sostiene l'azione unilaterale di Pristina". Il segretario generale, Ban Ki-moon, si è detto da parte sua "profondamente inquieto" per la situazione nel Kosovo settentrionale, mentre l'ambasciatore russo al Palazzo di vetro, Vitaly Churkin, ha ammonito contro "il reale pericolo di un conflitto e di un bagno di sangue". Mosca condanna nettamente l'intenzione di Pristina di prendere il controllo dei valichi tra Kosovo e Serbia, un piano che Belgrado considera un tentativo unilaterale per modificare lo status del Kosovo ed una violazione dei diritti dei cittadini. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia invece appoggiano le rivendicazioni di Pristina. Alla fine della discussione non si è riusciti a trovare un accordo per una dichiarazione congiunta del Consiglio di sicurezza.

Per la Serbia è ormai del tutto evidente che, archiviato felicemente il capitolo della collaborazione con il Tribunale internazionale, il nuovo grande ostacolo sulla strada dell'integrazione europea si chiama Kosovo. Lo aveva fatto capire chiaramente la cancelliera Merkel nella sua recente visita a Belgrado, lo ha fatto chiaramente intendere l'ambasciatore tedesco all'Onu, Peter Wittig, che da una parte ha esortato Serbia e Kosovo a moderare la retorica, placare le tensioni e tornare al dialogo per risolvere i problemi ancora aperti, ma dall'altra ha ammonito Belgrado che "il gioco populista del nazionalismo" mal si concilia con le sue aspirazioni ad entrare nell'Unione Europea. Tre giorni fa, però, in occasione della visita a Belgrado del procuratore capo del Tribunale internazionale, Serge Brammertz, il presidente serbo Tadic ha lanciato un messaggio chiaro alla comunità internazionale: “La Serbia ha ricevuto molte pressioni e vi è un limite oltre il quale non può accettarne altre”. Qualora le istituzioni internazionali si schierassero a favore di Pristina, “dovranno assumersi tutta la responsabilità”, ha detto Tadic.

Il servizio di Euronews

giovedì 15 settembre 2011

LA MACEDONIA INDIPENDENTE HA 20 ANNI MA L'EUROPA RESTA LONTANA

Nel 1991 anche la Macedonia proclamò l’indipendenza dalla Jugoslavia. Rimasta sostanzialmente indenne dalle guerre che sconvolsero la Bosnia e la Croazia fu invece investita pesantemente da quella del Kosovo: prima con l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi albanesi che cercavano di sfuggire alla pulizia etnica messa in atto dai militari e paramilitari serbi, poi essendo essa stessa teatro di un conflitto armato tra gli albanesi e i macedoni slavi. La guerra per fortuna durò poche settimane e non provocò molti morti. L’intervento della comunità internazionale portò ad un accordo di pace dal quale deriva l’attuale assetto costituzionale e istituzionale che garantisce alle minoranze tutele e diritti. Gli albanesi (circa un quarto della popolazione) partecipano con i loro partiti anche al governo nazionale. Non tutti i problemi di convivenza sono risolti e gli attriti non mancano, ma complessivamente la situazione è soddisfacente.I problemi generali di cui soffre la Macedonia sono analoghi a quelli rintracciabili, in maniera diversa, un po' in tutti gli altri paesi ex-jugoslavi: debolezza delle istituzioni, corruzione diffusa, penetrazione della criminalità organizzata, frizioni interetniche. A cui si aggiunge, negli ultimi tempi, la ricaduta della crisi economica globale. Ma la Macedonia ha anche un suo problema specifico: il mancato avvio dell’integrazione euro-atlantica a causa della questione del nome della ex repubblica jugoslava.
La mediazione internazionale finora non ha ottenuto nulla e le discussioni si sono incartate attorno a varie ipotesi di denominazione alternative (tipo “Macedonia del Nord” o “Macedonia-Skopje”, come Congo-Brazzaville) rispetto a quella semplice di “Repubblica di Macedonia” di cui la Grecia non vuole sentire parlare. Qualcosa è sembrato muoversi con l’arrivo ad Atene del governo socialista, ma fino ad oggi passi concreti non ne sono stati fatti. E’ in questa situazione che giovedì della scorsa settimana la Macedonia ha celebrato solennemente il ventennale dell’indipendenza.

La Macedonia ha vent'anni (Foto Robert Atanasofski/Afp)

Qui di seguito il testo di Marina Szikora tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata  in onda oggi a Radio Radicale

Lo scorso 8 settembre e' stato un anniversario importante per la Macedonia. Il paese di cui spesso parliamo in questo spazio, ha celebrato i 20 anni della sua indipendenza. L'obiettivo principale da tempo, senza dubbio, è quello dell'integrazione euro-atlantica. Per la Macedonia questa sembra però essere una impresa molto difficile, poiché sono ormai lunghi anni che il Paese si trova davanti alle porte della Nato e in attesa dei negoziati di adesione, ma tutto è sospeso a causa della disputa sul nome con la Grecia. Al referendum dell'8 settembre 1991 i cittadini macedoni, con una vastissima maggioranza (quasi il 98 percento), confermarono la loro volontà dell'indipendenza della Macedonia dopo lo scioglimento dell'ex Jugoslavia. La politica e la società macedone sin da allora fino ad oggi sono univoci quando si tratta del principale obiettivo, quello dell'ingresso nella Nato e nell'UE.
Come ricorda il giornalista macedone Zoran Jovanovski, della Deutsche Welle, una commissione internazionale arbitraria ha constatato all'inizio del 1992 che tra tutte le repubbliche dell'ex Jugoslavia, soltanto la Slovenia e la Macedonia soddisfacevano le condizioni per un riconoscimento internazionale come stato indipendente. La Germania poco dopo aveva però riconosciuto la Slovenia e la Croazia, mentre il riconoscimento dell'indipendenza della Macedonia è seguito solo quattro anni dopo. E' vero anche che la Macedonia, all'inizio era indecisa e insieme con la Bosnia Erzegovina, tentò di salvare la federazione jugoslava dalla dissoluzione.
Nell'aprile 1993 la Macedonia entrò alle Nazioni Unite con il nome FYROM [acronimo in inglese che sta per Repubblica Ex-Jugoslava di Macedonia, n.d.r.] poiche' la Grecia si oppose subito all'utilizzo del nome Macedonia. Il cammino del paese indipendente ebbe una dura lotta con le conseguenze economiche della guerra e due embarghi, quello internazionale contro la Serbia e quello unilaterale imposto dalla Grecia. Va sottolineato che durante la guerra in Kosovo, la Macedonia accolse 300.000 profughi e nel 2001 si trovò lei stessa alle soglie di una guerra civile, come ricorda Jovanovski. Lo status di candidato all'adesione la Macedonia lo ottenne nell'ormai lontano 2005, ma tutt'oggi è in attesa della data dell'inizio dei negoziati con Bruxelles. Infine, nel 2008, la Nato constatò che la Macedonia, insieme alla Croazia e all'Albania soddisfaceva le condizioni per l'ingresso nell'Alleanza Atlantica, ma sempre a causa del veto greco, è rimasta alla porta, mentre Croazia ed Albania sono entrate come membri a pieno titolo.

Negli ultimi 20 anni due sono quindi i temi dominanti per quanto riguarda il destino di questo paese: il contenzioso sul nome con la Grecia e le relazioni internazionali. Nel 2001 con gli “Accordi di Ohrid” fu messa fine al conflitto armato tra le forze di sicurezza macedone e gli albanesi ribelli e poste le basi per una coesistenza di tutti i gruppi etnici presenti nel paese. Oggi queste relazioni non si possono per niente definire ideali, ma diciamo che si trovano ad un livello accettabile, viste le questioni aperte nella regione, e con potenziali per un ulteriore sviluppo. Va comunque detto, che parlando con la popolazione macedone, spesso sentirete una vera nostalgia per i tempi della Jugoslavia e del maresciallo Tito che seppe tenere sotto controllo le diversità di questo insieme di culture, lingue e religioni diverse.
Nell’ambito delle relazioni internazionali, fa notare il giornalista macedone della Deutsche Welle, non si è mai verificato il caso di uno Stato che negasse ad un altro Stato il diritto ad avere il proprio nome e ci sono diversi esempi di territori o provincie che portano lo stesso nome pur appartenendo a Stati diversi. La Grecia, alla quale dà fastidio che la Macedonia abbia lo stesso nome di una delle sue provincie, è finora l’unico esempio del genere. Jovanovski, per altro, sottolinea che finora 133 Stati, tra cui anche Usa, Russia, Cina, India e Canada, hanno riconosciuto la Macedonia con il nome costituzionale di Repubblica di Macedonia e nelle comunicazioni bilaterali questo nome viene usato da 30 altri Stati. La mediazione delle Nazioni Unite non ha aiutato a trovare una soluzione su questa lunga disputa. E i critici fanno notare l’assurdità che un paese così piccolo ed economicamente debole come la Macedonia, con appena alcune migliaia di soldati e in misura notevole dipendente dal capitale greco, possa rappresentare un pericolo per la Grecia a causa di presunte pretese territoriali. Tanto più che prima dell'indipendenza, per quasi 50 anni alla Grecia non ha mai dato fastidio che la Repubblica di Macedonia esistesse come tale nella federazione jugoslava.

Anche se con l'Accordo temporaneo bilaterale del 1995 la Grecia ha assicurato che non avrebbe ostacolato l'adesione della Macedonia con il nome Fyrom alle organizzazioni internazionali, ma usando il suo diritto di veto fino ad oggi ha ostacolato l’integrazione euro-atlantica della Macedonia: per questa ragione Skopje ha fatto ricorso alla Corte internazionale di giustizia dell’Onu. Resta poi aperta la questione se la Grecia insiste soltanto sul nome, come afferma Atene, oppure se si tratta anche di ostacolare l'identità e la lingua macedone come sostengono i macedoni. 
L'attuale ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle ha affermato recentemente a Berlino che la Germania è molto fiduciosa del successo dei negoziati tra Macedonia e Grecia. “Spero molto, con tutto il cuore che, nell'interesse dei macedoni, ma anche dell'Europa e di tutti i suoi stati membri, potranno presto essere superate le difficolta”, ha detto Westerwelle. Secondo l'europarlamentare Doris Pack, il blocco greco sulla Macedonia è ingiusto e antieuropeo. Lo storico tedesco Khristian Voss ritiene che dietro il contenzioso sul nome si trovi chiaramente la questione delle minoranze. In una intervista sempre per la Deutche Welle, Voss ha puntato il dito sulla politica di assimilazione che la Grecia condusse negli anni Trenta del secolo scorso e sull'espulsione di decine migliaia di appartenenti alla minoranza macedone che nella guerra civile del 1945-1949 avevano combattuto dalla parte dei comunisti poi sconfitti. Secondo questo storico tedesco è proprio questo il fattore importante per capire perché la Grecia così fermamente stia bloccando la soluzione della questione macedone.