venerdì 26 febbraio 2010

COSE TURCHE

"Sventato golpe inTurchia". La notizia diffusasi lunedì scorso in breve ha fatto il giro del mondo diventando uno dei titoli di prima pagina sui giornali e nelle aperture dei telegiornali. In questi giorni gli esperti di cose turche e i commentatori di politica internazionale si sono interrogati su quello che da un po' di tempo sta accadendo a cavallo del Bosforo. In realtà la storia del golpe, così come è stata messa, è apparsa subito un po' esagerata per almeno due ragioni.
La prima è che la notizia non è nuova e risale ad almeno un mese fa, quando fu rivelata dal quotidiano Taraf. La seconda è che si riferisce ad un progetto di colpo di stato militare, vero o falso che sia, che risale al 2003. Però è vero che l'operazione che ha portato all'arresto di una cinquantina di presunti congiurati è per molti versi clamorosa dato che in manette sono finiti anche diversi alti gradi delle forze armate, qualcuno in pensione altri in servizio. Nel frattempo alcuni di questi sono stati rilasciati ma altri arresti di militari sono andati ad aggiungersi a quelli di lunedì.
Ce n'è abbastanza per domandarsi cosa succede in un Paese cruciale per gli equilibri e la stabilità di aree geopolitiche molto importanti come il Medio Oriente, il Caucaso e l'Asia minore. Un Paese, vale la pena di tenerlo sempre in mente, che fa parte della Nato (nella quale ha il secondo esercito più potente dopo gli Usa), ha in corso i negoziati per l'adesione all'Ue e rappresenta uno snodo fondamentale nel ridisegno delle rotte del petrolio e del gas.

Per fare il punto su quello che è successo in questi giorni segnalo la mia intervista a Marta Ottaviani, corrispondente di Avvenire e della Stampa da Istanbul. Nell'interista si parla anche del ruolo del quotidiano Taraf, non nuovo a rivelazioni clamorose sui militari e le trame golpiste, ma anche capace di critiche piuttosto dure al governo.

Il fatto è che il Paese, che da qualche tempo porta avanti una politica estera assai dinamica basata sulla dottrina della "profondità strategica" elaborata dall'attuale ministro degli Esteri, Davutoglu, all'insegna del motto "nessun problema con i nostri vicini" (e che qualcuno in Occidente ha definito "neo ottomana"), al suo interno sta vivendo da tempo un duro scontro tra la nuova classe dirigente islamico-moderata emersa attorno all'Akp, il partito del premier Erdogan, e l'establishment "kemalista" di cui i militari sono il caposaldo ed il principale pilastro.
In alcuni commenti usciti in questi giorni si parla dell'esistenza di due Turchie. Quella laica, rivolta all'Occidente, la Turchia moderna voluta da Kemal Ataturk i cui custodi sarebbero i militari opposta alla Turchia conservatrice, legata ai volori tradizionali e religiosi, che punta a diventare una potenza regionale, espressa a livello politico dall'Akp. Ma è una visione fuorviante non solo perché la realtà è assai più complessa, ma anche perché, come dice Marta Ottaviani nell'intervista, esiste pure una terza Turchia progressista, che vuole guardare al futuro, stanca di contrapposizioni che vorrebbe veder superate una volta per tutte.
Se non siamo, come qualcuno ha scritto, allo scontro finale tra governo e forze armate, tuttavia i clamorosi arresti di questi giorni segnalano che uno dei due "contendenti", il premier Erdogan, ha deciso di alzare il livello delle "provocazioni" per cercare di far venire i militari allo scoperto. Cosa che per altro l'attuale capo di stato maggiore generale Basbug per il momento evita di fare come mostra il basso profilo mantenuto in questi giorni. Un atteggiamento, questo, ben diverso da quello tenuto dal suo predecessore Buyakanit.
In questa situazione si affaccia l'ipotesi di elezioni anticipate rispetto alla scadenza naturale del 2011. E' una possibilità, ma sembra difficile che Erdogan, dopo il calo dei consensi che l'Akp ha registrato nelle amministrative di un anno fa, e dopo la fine dell'interlocuzione con il partito curdo, tra l'altro sciolto recentemente dalla magistratura, voglia correre il rischio concreto di trovarsi poi a dover dare vita ad un esecutivo di coalizione con i "kemalisti" del Chp o i nazionalisti del Mhp. E' assai più probabile, invece, che Erdogan sfrutti questo anno senza elezioni per ottenere la riforma della Costituzione.
L'obiettivo del premier - sul quale Bruxelles continua a puntare come garanzia di stabilità per portare a compimento le riforme necessarie all'adesione all'Ue - resta infatti quello di cambiare la Carta del 1982, figlia del golpe militare di due anni prima, per ridurre la "tutela" dei militari e della magistratura sul potere politico. In Parlamento però l'Akp non ha i voti sufficienti per un iter tranquillo. Erdogan sembra intenzionato, quindi, a giocare l'opzione del referendum cercando il consenso popolare presentando la riforma della Carta non come un attacco ai militari, che continuano a godere dei un elevato consenso tra l'opinione pubblica, ma come un passaggio necessario per l'approdo in Europa.
Se questo è lo scenario, gli avvenimenti di questi ultimi giorni letti in filigrana, consentono di avanzare un'ipotesi. Ovvero, che in realtà dietro le posizioni ufficiali sia in atto una sorta di negoziato tra governo e forze armate per trovare un compromesso sulla riforma costituzionale che metta ai margini i settori più oltranzisti delle forze armate e porti ad un accordo accettabile da entrambe le parti. A guardare bene l'ipotesi potrebbe apparire meno fantapolitica di quello che sembra.

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