La vittoria del 'sì' nel referendum sulla riforma della Costituzione svoltosi il 12 settembre in Turchia (quasi 58% di "sì" contro il 42% di "no", con un'affluenza alle urne di quasi il 74%) ha aperto la strada a un nuovo successo dell'Akp, il partito islamico-moderato del premier Recep Tayyip Erdogan, alle legislative del prossimo anno. E' l'analisi di molti esperti e giornalisti, turchi ma non solo, all'indomani del voto il cui risultato ha smentito le attese, nel senso che la vittoria del "sì" era prevista, ma in misura inferiore. In effetti, l'Akp ha fatto campagna praticamente da solo in favore della riforma e ora si prepara a incassarne da solo i benefici alle politiche del luglio 2011. Così, per esempio, il 13 settembre Semih Idiz in un commento sul quotidiano Milliyet in cui scriveva di "semaforo verde" per il governo Erdogan.
La misura della vittoria di Erdogan non ha tranquillizzato gli ambienti laici che temono ora più che mai l'islamizzazione della repubblica voluta da Kemal Ataturk con una riforma che, dicono, minaccia l'indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri. In realtà, diversi osservatori, come per esempio Rusen Cakir del quotidiano popolare Vatan, pensano che la vittoria potrebbe piuttosto risvegliare le ambizioni presidenziali di Erdogan. Forte della sua vittoria referendaria, infatti, Erdogan a questo punto punterà ad ottenere un terzo mandato l'anno prossimo per poi puntare alle presidenza della repubblica nel 2012, magari dopo aver cambiato la legge elettorale (vi fa venire in mente qualcosa di simile dalle nostre parti?).
Che ora il premier non abbia più rivali è l'opinione di Soli Ozel, professore di relazioni internazionali e scienze politiche all'università Kadir Has di Istanbul, analista di cose turche molto noto e stimato in Occidente, che in un'intervista a Christian Rocca sul Sole 24 Ore del 14 settembre, dice che i dettagli della riforma voluta da Erdogan e approvata dal referendum "sono meno importanti della volontà ferma del paese di rompere la stretta di potere dell'establishment giudiziario e militare sul processo politico". L'Islam, dunque, non c'entra: il referendum riguardava la redistribuzione del potere ed è stato un tale successo per l'Akp che l'esito delle elezioni del 2011 è probabilmente segnato, tanto più che i nazionalisti del Mhp potrebbero non superare lo sbarramento per entrare in parlamento, mentre è improbabile che il partito kemalista Chp riesca a riprendersi in tempo dalla nuova sconfitta.
Che la riforma della costituzione rientri in quella lotta tra poteri in atto in Turchia non da ieri è l'opinione anche di Orsola Casagrande sul Manifesto del 14 settembre, ma se da una parte "è chiaro che l'idea di dare una spallata, per quanto lieve, alla costituzione dei generali golpisti sia piaciuta a molti", la realtà è che Erdogan ha altro in mente. Il premier "ha scelto la strategia della lumaca sapendo bene che un'islamizzazione aggressiva non avrebbe funzionato" e dovendo giocare bene la sue carte per fare il tris alle elezioni del prossimo anno, "cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte", ma "ancora una volta i capri espiatori rischiano di essere i kurdi e la guerra".
Valeria Talbot, ricercatrice presso l'Ispi, in un "Commentary" pubblicato il 16 settembre scrive che il risultato referendario è prima di tutto un'ampia dimostrazione del sostegno popolare di cui gode Erdogan e, in secondo luogo, "il segnale di una volontà popolare di sdoganamento dell'eredità di un passato non più in linea con l'evoluzione socio-politica ed economica della Turchia nell'ultimo decennio e di una maggiore democratizzazione del paese". Certo, se il venir meno dei principi kemalisti da una parte sono un passaggio importante verso una maggiore democratizzazione, dall'altra vengono visti come un ulteriore smantellamento della repubblica laica. Per questo, l'attenzione interna ed internazionale è puntata sui prossimi passi di Erdogan. Usa e Ue hanno accolto con grande fgavore la vittoria del sì, ma "sebbene la riforma costituzionale vada nella direzione indicata dall'Ue, il cammino di Ankara verso Bruxelles è ancora lungo e cesellato di ostacoli".
E qui arriviamo alla questione dell'adesione della Turchia all'Ue. Emma Bonino, che da lungo tempo ne è una grande sostenitrice, in un'intervista a Radio Radicale il 13 settembre, ha dichiarato che "la vittoria dei sì in Turchia al referendum è un grande passo in avanti, anche rispetto alle richieste di adattamento costituzionale fatte dall'Ue ad Ankara per il processo di integrazione che però nel frattampo, con l'alibi di Cipro usato soprattutto da Francia e Germania, si è arenato". Per questo, adesso l'Europa deve riprenda, accelerando di molto, il processo di integrazione della Turchia nell'Unione europea''. Insomma, "ora la palla passa ai ventisette" come ha scritto Gian Paolo Accardo in un commento pubblicato lo stesso 13 settembre su Presseurop. eu, perché per paradoss, "l'europeizzazione della Turchia avviene a spese della laicità del paese, e il partito che incarna il processo di avvicinamento all'Unione è un partito religioso", uno dei motivi per cui il risultato del referendum nelle capitali europee è stato commentato con favore ma anche con prudenza.
Temal Isit, ambasciatore in pensione e commentatore del quotidiano Taraf, non ha dubbi sulla volontà europea di Ankara, ribadita anche dal ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, che proprio a Bruxelles si è lamentato per la lentezza con cui procedono i negoziati di adesione. Isit ha spiegato a Marta Ottaviani dell'agenzia Apcom che è Bruxelles che "adesso deve dimostrare che oltre ad apprezzare i progressi, ha la volontà politica di fare entrare la Turchia nell'Unione" perché Erdogan con la grande vittoria al referendum "ha compiuto un passo storico verso l'Europa e consolidato il suo consenso interno" e qualsiasi cosa succeda il suo risultato lo ha già portato a casa. Attenzione, però, perché la vittoria del "sì" è un passo decisivo nella transizione democratica e liberale della Turchia, ma l'ingresso nell'Ue non è più il motore di questo processo epocale. Così almeno ha scritto Sahin Alpay su Zaman il 13 settembre. E forse non ha tutti i torti se, come spiega Alberto Negri sul Sole 24 Ore del 14 settembre, i veri vincitori del referendum sono "le Tigri dell'Anatolia, quella neo-borghesia musulmana di imprenditori, tradizionalista nei costumi, liberale in economia, che ha trovato la sua rappresentanza politica in Erdogan.
Insomma, le riforme costituzionali approvate con il referendum tengono la Turchia agganciata ai valori occidentali o la spingono verso l'islamizzazione? Per Fiamma Nirenstein (sul Giornale del 14 settembre) non ci sono dubbi: il referendum "segna la fine del kemalismo e da il benvenuto istituzionale non a una Turchia più laica e democratica, ma all'erdoganismo avanzante". Che poi il paese si sia conservato laico e filoccidentale anche con "azioni di prepotenza e violazioni dei diritti umani" poco male: "l'atteggiamento dei militari e dei giudici non è stato mai mosso da interessi personali, elettorali, economici". Parola di Nirenstein. Sul Giornale. E che Erdogan "per il suo bagaglio ideologico", non possa dare garanzie di laicità, è opinione anche di Zeffiro Ciuffoletti, che sul Quotidiano Nazionale del 15 settembre ammonisce che gli europei saranno obbligati ad affrontare "con la dovuta serietà una serie di questioni che riguardano, in primo luogo, i nostri valori e i nostri standards democratici".
Non la pensa così Hamit Bilici, analista di Today's Zaman e direttore generale dell'agenzia di stampa Cihan che ha seguito in modo capillare la campagna elettorale, secondo cui le riforme democratiche come quelle varate dal referendum portano la Turchia verso l'Unione europea, non verso l'Iran. ''Le politiche della Turchia nei confronti dell'Iran e il referendum sono due cose separate", ha detto Bilici all'agenzia AdnKronos spiegando che "se si riescono a introdurre riforme democratiche, la Turchia si avvicinera' all'Unione europea" e un Paese più democratico "contribuirà a facilitare relazioni migliori e più forti con l'Occidente, e a porre fine al dibattito su eventuali cambiamenti della politica estera turca''. Tanto più che Bilici è convinto che chi ha votato "no" più che ad una costituzione più democratica, è contrario al governo.
Ilter Turan, professore di scienze politiche all'Università Bilgi di Istanbul di cui è stato anche rettore, in una intervista all'AdnKronos esprime una posizione ancora diversa: "Non è detto che la riforma della costituzione avvicini il Paese all'Unione europea e sia un ulteriore passo verso la democrazia", perché ''tutto dipende da come il partito di governo, l'Akp, la applicherà''. Cioè, ''bisogna vedere come i nuovi provvedimenti che riguardano la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura funzioneranno", ma in ongi caso ''non sarà necessario attendere molto'' per capire come il governo intende applicare le riforme. Turan dice di capire perche' l'opposizione è preoccupata, ma la rimprovera di aver commesso errori condividendo con il partito di Erdogan la responsabilità dell'estrema polarizzazione della politica turca. Una polarizzazione che aumenterà con l'avvicinarsi delle elezioni (una constatazione condivisa da Hamit Bilici che per questo propone di rinviarle per permettere di proseguire la riforma in maniera condivisa).
E l'Italia? Il nostro paese ha da sempre una posizione favorevole all''adesione della Turchia all'Ue, non modificata nonostante il cambio dei governi. Per il ministro degli esteri Franco Frattini, intervistato da Arturo Celletti sull'Avvenire del 19 settembre, a questo punto Ankara è ad un bivio: "Può imboccare la strada dell'Occidente o può prendere quella destinata a trasformarla in una potenza più amica dell'Iran che dell'Europa". Un Europa che, però, secondo Frattini ancora una volta ha sbagliato tutto. E lo stesso ministro, il 15 sul Corriere della Sera, scriveva che per risolvere il rapporto tra le nostre democrazie e l'Islam occorrerebbe una strategia europea basata su quattro elementi: primato e universalizzazione dei diritti, politica sull'immigrazione condivisa, lotta al terrorismo e, per l'appunto, apertura alla Turchia perché "è un esempio unico di islamismo moderato e di vocazione europea". Questi quattro aspetti "andrebbero armonizzati nel quadro di una strategia complessiva forte e consapevole".
Il fatto è che come scrive Antonio Puri Purini sul Corriere del 20 settembre "ci vogliono grandezza morale per rivolgersi al mondo musulmano come ad una civiltà e chiarire che cosa si pretende da loro, coraggio politico [...] per cogliere le implicazioni dell'adesione della Turchia all'Unione, sensibilità culturale per riproporre [...] un nuovo umanesimo che esprima autentica fierezza europea". Se invece prevarraà l'attuale basso profilo l'Europa non sarà capace di lanciare messaggi credibili e si nasconderà dietro politiche incapaci di autentica convivenza con il mondo musulmano. Da questo punto di vista, proprio per quello che la Turchia può rappresentare, il punto lo coglie Angelo Panebianco che sul Corriere della Sera del 14 settembre notava i negoziati per l'adesione della Turchia dovrebbero essere l'occasione per discutere seriamente di islam ed Europa. E' un test che ci riguarda da vicino, "per l'importanza geopolitica della Turchia, ma anche per ciò che potrà dirci sui futuri rapporti fra le democrazie europee e le comunità musulmane".
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