Manterremo comunque aperto anche questo blog - e lo aggiorneremo di tanto in tanto - come una sorta di archivio per non perdere tutto quello che abbiamo scritto fino ad oggi.
Negli anni '80 fu tra i pochi, forse
l'unico in Italia, a capire che la Jugoslavia, dopo la morte del
maresciallo Tito, si stava avviando alla catastrofe.
“Jugoslavia nella Comunità europea.
Subito!”, era la risposta di Pannella ad un'Europa che invece
continuava a volerla “non allineata” tra Usa e Urss e a
costringerla ad una dimensione nazionale nella quale risolvere i suoi
gravi problemi sociali ed economici.
“Abbiamo condannato la Jugoslavia
alla sua indipendenza nazionale, cioè al suo fallimento”, disse
Pannella nel corso di una manifestazione per le elezioni europee a
Trieste, il 6 maggio del 1984, in cui propose formalmente l'associazione della
Jugoslavia a quella che allora era la Comunità Europea.
Quattro anni più tardi, a Gorizia,
durante un comizio per le elezioni amministrative, Pannella vide
chiaramente ciò che si andava preparando a pochi chilometri di
distanza: “Se le cose continuano come stanno continuando, entro due
anni noi avremo l'esplosione in Jugoslavia di conflitti sociali e
regionali di gravità inaudita”. Era il 19 giugno del 1988:
esattamente due anni dopo cominciavano la guerre jugoslave.
Con la stessa cocciutaggine Pannella ha
sempre sostenuto l'adesione della Turchia ad un'Unione Europea che
dovrebbe comprendere anche Israele: se a Bruxelles e nelle altre
cancellerie occidentali questo obiettivo fosse stato perseguito con
determinazione, oggi forse avremmo una Turchia più democratica e non in piena
involuzione autoritaria e un'Europa più forte e autorevole.
Gli Stati Uniti d'Europa erano
l'obiettivo, il Manifesto di Ventotene l'ispirazione.
Contro il risorgere dell'Europa delle
patrie, per una patria europea, democratica e federalista.
Ciao Marco e grazie.
Passaggio a Sud Est - 22 maggio 2016
Una puntata speciale con l'intervento di Marco
Pannella alla manifestazione che si tenne a Trieste il 6 maggio 1984 nel
corso della campagna elettorale per il Parlamento europeo. In
quell'occasione Pannella propose formalmente l'associazione della
Jugoslavia alla allora Comunità Europea per scongiurare che la crisi
emersa dopo la morte del maresciallo Tito precipitasse in una catastrofe
sociale ed economica: l'Europa, invece, illudeva la Jugoslavia che i
problemi potessero essere risolti nella dimensione nazionale e del "non
allineamento" tra il blocco occidentale e quello sovietico.
Puntata speciale dedicata a Marco Pannella, al
suo impegno e alle sue iniziative nonviolente contro le guerre della ex
Jugoslavia e per l'integrazione europea dei Balcani: i comizi del 6 maggio 1984 a Trisete e del 19 giugno 1988 a Gorizia; la figura di Pannella negli articoli di alcuni giornali in Croazia e Serbia; il ricordo del parlamentare europeo croato Tonino Picula; la decisione di vestire l'uniforme croata per un "servizio nonviolento" sul fronte di Osijek nel dicembre 1991; l'impegno radicale e la presenza di Pannella in Albania e Kosovo. Con i contributi di Artur Nura, Marina Sikora e Artur Zheji.
E' online il nuovo numero de Il Grande Est,
il notiziario mensile di Rassegna Est dedicato ai principali fatti
politici, economici e sociali dell’Europa centrale, dei Balcani e
dell’area post-sovietica redatto selezionando fonti in lingua inglese e
italiana e presentando gli articoli scritti dai redattori di Rassegna Est.
In questa edizione, che copre il mese di aprile, in particolare i trent’anni da Chernoby, l’Euro e i
Paesi dell’Est, il World Press Media Index di Reporters senza Frontiere sulla libertà di stampa nel mondo.
La sezione su Balcani e Turchia in particolare propone Vucic, europeista alla balcanica – Il primo ministro
di Belgrado, Aleksandar Vucic, ha vinto nuovamente le elezioni. Si sono
tenute il 24 aprile e il margine del suo Partito del progresso (Sns) è
stato ancora una volta molto largo. Ma chi è Vucic? Dove intende portare
il Paese? Ex ultra-nazionalista, il primo ministro di Belgado si è
ricollocato negli anni recenti su posizioni conservatrici e ha scelto
inequivocabilmente l’Europa, anche se la convinzione è dettata dalla
ragione ben più che dal cuore, che abbiamo spiegato in questo ritratto.
La Turchia rallenta – Nel 2016 la crecita sarà del 3,5%, mezzo punto in meno rispetto al 2015. Lo stima la Banca mondiale, che in una nota spiega che un elemento depresso dell’economia turca sono gli investimenti privati. Il loro livello non è sufficiente. Montenegro: verso le elezioni – Il governo
montenegrino e le opposizioni hanno raggiunto un accordo per la
formazione di una larga coalizione capace di chiudere la crisi politica
in corso da mesi e traghettare il Paese alle elezioni di ottobre (Balkan Insight).
Un passaggio, questo, che corrisponderà secondo molti analisti a un
referendum pro o contro la Nato, che a luglio, al vertice di Varsavia,
inviterà ufficialmente la piccola repubblica ex jugoslava. Il governo,
guidato da Milo Djukanovic, al potere da più di vent’anni, è favorevole
all’adesione all’alleanza atlantica. Romania, il populismo dei mutui– Il Sole 24 Ore,
in un articolo firmato da Vittorio Da Rold, parla del disegno di legge
che “consente agli acquirenti di proprietà immobiliari di recedere dai
mutui senza penalità, anche se il valore dell’immobile non copre
l’ammontare rimanente che deve essere rimborsato”, descrivendolo come
uno stratagemma da ciclo elettorale. Nei prossimi mesi si terranno le
amministrative e le politiche. La mossa sui mutui rischia di avere
ricadute pesanti sul comparto bancario.
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 24 aprile 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Argomenti della puntata
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 17 aprile 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Argomenti della puntata
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 10 aprile 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Sommario della puntata
La prima parte della puntata è dedicata al
riaccendersi del conflitto in Nagorno Karabakh, la regione caucasica
contesa da Armenia e Azerbaijan: i commenti e le analisi apparsi in
alcuni paesi dell'area balcanica e un'intervista a Simone Zoppellaro,
giornalista freelance, sulla natura e la realtà di questo conflitto
"dimenticato" già costato 30mila morti e centinaia di migliaia di
sfollati e profughi e sul perché nessuno sembra davvero intenzionato a
voler trovare una soluzione.
Gli altri argomenti della
puntata: Serbia, il negoziato per l'adesione all'Ue e il ruolo della
Croazia; Kosovo, la nuova presidenza di Hashim Thaci e lo scontro con
l'opposizione; Macedonia; la difficile situazione politica e l'annuncio
del boicottaggio delle elezioni anticipate del 5 giugno da parte del
leader socialdemocratico Zoran Zaev.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura, è ascoltabile direttamente qui
Secondo Europol, nei Balcani ci sono
tutta una serie di campi terroristici di bassa intensita' in cui si
esercitano i novizi dell'ISIS, scrive in questi giorni il quotidiano
croato 'Vecernji list'. Anche se la Croazia si menzionava finora come
un paese esclusivamente di transito per i militanti terroristici,
quanto pubblicato nel rapporto di Europol si rileva che tutta l'area
dell'Europa sudorientale si puo' osservare come un'area problematica.
In questi campi terroristici di bassa intensita' nei Balcani i novizi
dell'ISIS si esercitano e verificano la loro resistenza nonche'
fermezza di riunirsi ai terroristi. Secondo alcuni dati in Bosnia Erzegovina
esistono 35 campi di addestramento mentre in Kosovo gli estremisti si
esercitano negli ex campi dell'UCK. Anche una alta
fonte dell'ufficio della presidente croata di recente ha parlato del rischio di
islamizzazione degli albanesi finora secolari in Kosovo, Macedonia e
Albania nonche' dell'importanza della stabilita' nel vicinato della
Croazia, rilevando che persino un singolo incidente potrebbe
distruggere il turismo croato che fa il 20% del pil.
Ma oltre alla Bosnia Erzegovina, la Croazia anche
dalla parte orientale, molto vicino al confine con la Serbia, tocca
l'estremismo – membri di queste organizzazioni non ci sono soltanto
nel Sangiaccato bensi' anche a Belgrado, Novi Sad e Subotica, in
Vojvodina. Anche se il loro numero non e' troppo impressionante, non
ha importanza per il terrorismo poiche' bastano 2-3 persone per
eseguire un'azione terroristica di grande portata, avvertono
dall'Agenzia di sicurezza e informazione serba, scrive sempre il
giornale croato. Aggiunge che anche nel vicinato occidentale della
Croazia, in Slovenia i servizi segreti hanno scoperto campi di
addestramento dell'ISIS. Nei pressi della capitale Ljubljana, sono
stati organizzati radunamenti nel centro sportivo Korant dal quale
sono stati mandati diversi militanti in Iraq e in Siria. I confini
aperti dello Schengen hanno acconsentito il passaggio senza controllo
e quindi in Slovenia arrivavano estremisti dall'Austria, Germania e
Lussemburgo.
Una storia particolare sono le armi che
dopo le guerre degli anni '90 ci sono in quest'area e che continuano
a circolare. Il direttore della fabbrica “Zastava armi” Milojko
Brzakovic ha confermato che diversi pezzi di armi che avevano usato i
jihadisti negli attacchi terroristici di Parigi lo scorso 13 novembre
sono stati prodotti proprio in questa fabbrica di Kragujevac, in
Serbia. Proprio per questo, affermano alcuni esperti, tra i servizi
di sicurezza spesso si dice “chiama i Balcani per il terrorismo”.
E mentre negli ultimi giorni si ripete che i servizi di sicurezza di
diversi paesi si ostinano a scambiare i messaggi di informazione,
dalla polizia croata affermano che lo scambio di informazioni utili
e' costante per mezzo della collaborazione internazionale con i
partner, prima lo era l'Interpol, oggi lo e' l'Europol. E'
importantissima inoltre la collaborazione regionale.
Dopo gli attentati di Parigi e
recentissimamente quelli di Bruxelles, all'UE spetta adesso prendere
decisioni importanti – se lo Schengen sara' del tutto sospeso, se
l'UE si impegnera' piu' fortemente nelle zone di guerra, innanzitutto
in Siria, ma anche in Libia, attraverso la quale arriva nell'UE un
gran numero di profughi. Secondo le valutazioni degli analisti della
casa Stratfor, potrebbe essere compromesso persino il nuovo accordo
tra l'UE e la Turchia sui migranti, scrive il quotidiano croato “Glas
Slavonije”. I governi di diversi paesi dell'Europa Occidentale tra
breve annunceranno nuove regole di sicurezza, maggiori controlli di
quelli che rientrano dai conflitti nel Medio Oriente e in nord
Africa, uno scambio piu' intenso di informazioni dei servizi di
sicurezza e verranno riattivati i dibattiti sulle modalita' della
lotta al terrorismo nei paesi di instabilita' e conflitti quali la
Libia e Siria, scrive il quotidiano croato. Si aggiunge che potrebbe
essere messo in questione anche il nuovo accordo tra l'UE e la
Turchia sulle migrazioni poiche' gli attacchi potrebbero riaccendere
posizioni antimusulmane in Europa e rafforzare le pressioni
dell'opinione pubblica sui governi UE di non abolire il regime di
visti a questo paese, una richiesta chiave da parte di Ankara per la
collaborazione sulla questione migranti.
“Glas Slavonije” rileva che il
premier italiano Matteo Renzi ritiene che il rafforzamento della
sicurezza ai confini sia un passo insoddisfacente per quanto riguarda
il ridimensionamento del pericolo di futuri attacchi terroristici. Il
giornale aggiunge che in quanto conseguenza delle posizioni
antimusulmane aumenta il sostegno ai partiti nazionalisti e siccome
nel 2017 ci saranno le elezioni in Francia e in Germania, e'
probabile che i partiti tradizionalisti perdano un numero
significativo di mandati rispetto ai loro concorrenti nazionalisti.
Uno scenario simile si aspetta in Olanda e in Svezia che hanno dei
movimenti nazionalisti relativamente forti. Anche per i sostenitori
dell'uscita della Gran Bretagna dall'UE, secondo il giornale croato,
il terrorismo potrebbe essere un argomento preso in considerazione.
[*] Il testo è la trascrizione della parte di corrispondenza andata in onda a Radio Radicale nel supplemento del giovedì di Passaggio a Sud Est del 7 aprile 2016
E' online il nuovo numero de Il Grande Est,
il notiziario mensile di Rassegna Est sui fatti e sui numeri della "nuova"
Europa. In questa edizione, che copre il mese di marzo, si parla di
post-voto in Slovacchia, elezioni in Serbia, situazione in Ucraina,
crisi petrolifera in Russia, verdetti su Karadzic e Seselj, luci e ombre
della ripresa romena, rilancio dell'economia bulgara, innovazione e
regioni dell'Est con il potenziale maggiore in termini di capacità di
attirare investimenti. Tanti argomenti, tante fonti, tanti numeri. Come
sempre.
Il
"supplemento del giovedì" di Passaggio a Sud Est del 7 aprile 2016 su
Radio Radicale propone alcune analisi e prese di posizione dai vari paesi della regione sulla realtà della minaccia terroristica nei e dai
Balcani. Si parla quindi del riaccendersi degli scontri armati tra Armenia e Azerbaigian sul Nagorno
Karabakh e del perché questo conflitto erroneamente definito "congelato" ma in realtà quasi dimenticato dovrebbe interessare molto da seriamente l'Europa.
Gli articoli citati nella trasmissione: Dobiamo temere i Balcani? Droni, carri armati e pistole
di Shpend Kursani - Osservatorio Balcani e Caucaso, 1 aprile 2016
(pubblicato originariamente su Pristina Insight il 28 marzo) Alta tensione in Nagorno Karabakh
Simoze Zoppellaro - Osservatorio Balcani e Caucaso, 4 aprile 2016
Pane e guerra in Nargorno Karabakh
Simone Zoppellaro, Il Manifesto, 7 ottobre 2015 Ricordiamoci del Nagorno Karabakh prima che sia troppo tardi
Simone Zoppellaro - Gariwo, la foresta dei giusti, 5 aprile 2016 Israeli-made kamikaze drone spotted in Nagorno Karabakh
Thomas Gibbons-Neff - The Washington Post - 5 aprile 2016
It’s Cyberwar, it’s Turkish vs
Armenian Hackers Amid Nagorno-Karabakh Dispute
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 3 aprile 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Sommario della puntata
La prima parte della puntata è dedicata alla
sentenza con cui il Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia ha
assolto il leader ultranazionalista serbo Vojislav Seselj dalle accuse
di crimini di guerra e contro l'umanità commessi durante i conflitti
degli anni '90 in Bosnia, Croazia e Vojvodina: i commenti dei politici
della regione e le reazioni dei sopravvissuti e dei familiari delle
vittime dei conflitti; l'intervista a Luca Leone, giornalista e
scrittore, sui motivi che stanno dietro la decisione (non unanime) dei giudici e le conseguenze della guerra nella realtà della Bosnia di oggi.
Nella
seconda parte si parla delle crisi politiche in Albania, dove si tenta
un difficile dialogo tra maggioranza di centrosinistra e opposizione, in
Macedonia, dove si andrà al voto il prossimo 5 giugno senza garanzie
che si possa risolvere l'attuale stallo politico, ed in Kosovo dove le
opposizioni continuano la loro lotta contro l'accordo con la Serbia
firmato 3 anni fa con la mediazione dell'Ue e tentano la carta delle
elezioni anticipate.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Sikora e Artur Nura, è ascoltabile direttamente qui
Come era prevedibile, vista
l'escalation degli ultimi mesi, nelle ultime ore è precipitata la
situazione nel Nagorno Karabakh, dove violenti scontri sono in corso
fra le forze armate azere e quelle armene. La regione è al centro di
una contesa tra Armenia e Azerbaijan ed è stata teatro di un
conflitto armato aperto nella prima metà degli anni '90, congelato
dal 1994 e poi proseguito a bassa intensità negli ultimi anni. Il
Nagorno Karabakh proclamò l'indipendenza dall'Azerbaijan ed è da
allora sostenuta anche se non ufficialmente riconosciuta
dall'Armenia.
Il ministero della difesa armeno ha
fatto sapere che gli scontri continuano e rivendica l'abbattimento di
un velivolo, la distruzione di un carro armato e l'eliminazione di
incursori azeri che si sono introdotti nella regione nella regione
sono stati neutralizzati. Erevan accusa l'Azerbaigian di aver dato
inizio all'offensiva. Baku, a sua volta, accusa le forze militari
armene di aver iniziato a colpire le postazioni azere lungo il
confine di fatto e gli insediamenti in cui vivono gli abitanti delNagorno Karabakh azeri costretti a
lasciare le loro case durante la guerra costringendo l'Azerbaijan ad
adottare "misure urgenti". Le autorità di Stepanakert
(capitale della autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh)
denunciano perdite su entrambi i fronti e hanno annunciat la
convocazione straordinaria del consiglio di sicurezza nazionale.
Ieri il vice presidente americano Joe
Biden, a margine del vertice sulla sicurezza nucleare a Washington ha
incontrato separatamente i presidenti di Armenia, Serzh Sarkisian, e
Azerbaigian, Ilham Aliyev, sollecitando una soluzione pacifica al
conflitto. Sia Aliyev che Sarkisian hanno chiesto agli Stati Uniti di
assumere un ruolo più attivo per il raggiungimento di un accordo. Il
presidente russo Vladimir Putin ha sollecitato le parti a porre
"immediatamente" fine ai combattimenti mentre il ministro
della difesa Shoigu ha parlato al telefono con le due controparti per
discutere misure urgenti per impedire il precipitare della
situazione. Anche il ministero degli esteri di Mosca ha aperto un
canale di comunicazione continuo con i ministri dei due paesi
coinvolti nel conflitto. Mosca ha avviato anche consultazioni con i
partner del cosiddetto “Gruppo di Minsk” dell'OSCE, che hanno
cercato in questi anni di trovare una soluzione del conflitto.
Il conflitto del Nagorno Karabakh
esplose ancora prima del crollo dell'Unione Sovietica. Attualmente,
oltre al territorio della regione separatista, le forze sostenute
dall'Armenia occupano altri sette distretti che formalmente
appartengono all'Azerbaijan: una porzione di territorio pari al 20
per cento di quella totale del paese. Secondo le autorità azere, la
situazione avrebbe provocato un milione di sfollati e di profughi
interni.
La sentenza con cui è stato assolto Vojslav Seselj non è stata condivisa dalla giudice italiana Flavia Lattanzi, componente del collegio del Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia che ha giudicato non colpevole il leader ultranazionalista serbo. Per la procura Seselj era direttamente coinvolto o non aveva impedito i crimini indicati nel nove capi d'accusa dei quali era stato chiamato a rispondere: tre crimini contro l'umanità (per persecuzione, deportazione e atti disumani di trasferimento forzato) e sei crimini di guerra (per assassinio, tortura e trattamenti crudeli, distruzione casuale, distruzione o danneggiamento volontario di istituzioni dedicate alla religione o all'istruzione, saccheggio di proprietà pubbliche o private). Per questi reati l'accusa aveva chiesto una condanna a 28 anni di reclusione. Una posizione condivisa dalla giudice italiana che ha votato contro l'assoluzione perché "la giuria non ha tenuto conto del clima di intimidazione che Seselj e i suoi hanno imposto ai testimoni" e non ha "ragionato adeguatamente" sulle prove pur ammettendo che i crimini erano stati compiuti, tanto più che c'erano le prove che Seselj avesse istigato al compimento dei delitti. Come si sa, invece, gli altri due componenti del collegio, il francese Jean-Claude Antonetti e il senegalese Mandiaye Niang, sono stati di diverso avviso e Seselj è stato assolto
Ad una settimana esatta dalla condanna di Radovan Karadzic, il Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia ha assolto l'ultranazionalista serbo Vojslav Seselj, fondatore e presidente del Partito radicale serbo, da tutti i capi d'accusa per crimini di guerra e crimini contro l'umanità per fatti accaduti durante la guerra in Croazia e in Bosnia. Una sentenza che ha sorpreso il procuratore capo del Tribunale, Serge Brammertz, che ha già preannunciato un ricorso contro la decisione dei giudici che ha rigettato completamente l'ipoptesi accusatoria. L'intervista propone un'interessante analisi sulle ragioni dettate dalla realpolitik che spiegano queste due decisioni così di diverse da parte del Tribunale internazionale.
Luca Leone, giornalista, scrittore ed editore (Infinito edizioni) ha scritto doversi saggi sull'ex Jugoslavia e in particolare sulla Bosnia, un paese che ama e conosce molto bene. I suoi interventi si possono leggere sul suo blog Occhio Critico.
Benkovac, 1991: Seselj (sin.) all'inzio della guerra in Croazia
Ad una settimana esatta dalla condanna
a 40 anni di Radovan Karadzic, il Tribunale internazionale per l'exJugoslavia (Icty) ha assolto il leader ultranazionalista serbo Vosjislav
Seselj dai nove capi di imputazione per crimini di guerra e contro
l'umanità commessi contro croati e musulmani durante i conflitti del
1991-95. Secondo i giudici dell'Aia la procura, che aveva chiesto una
condanna a 28 anni per l'imputato, non è riuscita a provare
l'esistenza di un'impresa criminale congiunta". Seselj, dunque,
è un uomo libero, come ha detto il presidente della giuria
Jean-Claude Antonetti.
Seseslj, che nel 2003 si era
volontariamente costituito ed era poi stato scarcerato per motivi di
salute nel 2014, non ha voluto essere presente alla lettura della
sentenza come aveva fatto sapere da Belgrado e ha elogiato i giudici
del tribunale - definiti "degni di onore e giusti" - dopo
tutti i processi “che hanno accusato serbi innocenti che hanno
ricevuto sentenze draconiane”. Per Seselj i giudici "hanno
dimostrato che la loro professionalità e il loro onore è al di
sopra di qualsiasi pressione politica" e hanno emesso "l'unico
verdetto possibile".
Opposto il giudizio della procura che
in un comunicato dichiara di prendere atto della decisione in attesa
di esaminare le motivazioni dei giudici e giudica comprensibile “che
molte vittime e le comunità resteranno deluse dalla sentenza".
Il procuratore capo, Serge Brammertz, da parte sua ha già annunciato
di voler fare appello e ha parlato di una sentenza "a sorpresa"
sottolineando di condividere la frustrazione di molte delle vittime.
"Non posso essere soddisfatto dell'esito", ha dichiarato
parlando ai giornalisti. "Le motivazioni non sono assolutamente
in linea con la realtà fattuale", ha aggiunto Brammertz.
Seselj doveva risponder di nove capi di
imputazione per crimini commessi nell'ambito del suo
progetto di unificazione di "tutte
le terre serbe". Secondo l'accusa Seselj era dietro agli
assassini di molti croati, musulmani e civili non di
etnia serba, come della deportazione forzata di "decine di
migliaia" di persone da vaste aree della Bosnia Erzegovina,
della Croazia e della Serbia. Inoltre, secondo l'accusa, avrebbe
comandato unità paramilitari chiamate "Gli uomini di Seselj". Per la corte, tuttavia, il caso è
stato presentato in maniera confusa e ambigua e l'accusa non è
riuscita a chiarire il contesto generale in cui si sono svolti gli
eventi. La procura ha dato "al massimo un'interpretazione che
nasconde il modo in cui si sono svolti i fatti e nel caso peggiore li
distorce in relazione alle prove presentate alla camera", ha
dichiarato il presidente della corte Antonetti.
La notizia dell'assoluzione del leader
dell'ultranazionalista Partito radicale serbo ha fatto subito il giro
delle capitali dei Paesi che furono coinvolti nelle guerre degli anni
'90 che segnarono la dissoluzione della Jugoslavia. La Croazia l'ha
già definita "vergognosa". Il primo ministro Tihomir
Oreskovic, in visita a Vukovar, la città che all'inizio della
guerra, nell'autunno del 1991, fu assediata e rasa al suolo dalle
forze serbe e fu teatro di un efferato eccidio di civili croati, ha
parlato di una “sconfitta della corte dell'Aia e dei procuratori”
descrivendo Seselj come “un uomo che ha fatto cose malvagie e non
ha mostrato rimorso né allora né oggi".
A proposito della condanna a 40 anni di Radovan Karadzic, emessa dal Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia per i crimini commessi durante la guerra di Bosnia, Luca Leone, giornalista, scrittore ed editore (Infinito edizioni), sul suo blog "Occhio critico" riporta un passo del libro di Jovan Divjak, il generale serbo che decise di restare a Sarajevo per difendere la sua città dall'aggressione dell'esercito e delle milizie paramilitari serbo-bosniache.
“I giovani orfani di cui mi occupo
sono consapevoli del fatto che, se non hanno più i genitori e vivono
in povertà, la colpa è di due criminali che si chiamano Karadžić
e Mladić.erto, tutti sanno che Milošević è il responsabile
maggiore di quanto è successo nella ex Jugoslavia e, dalla fine
della guerra, i nostri media hanno diffuso molti reportage e
pubblicato analisi su di lui, che però resta un personaggio lontano.
Invece i bosgnacchi non dimenticheranno così facilmente Karadžić e
Mladić. Non passava giorno senza che apparissero in televisione o
fossero sui giornali. I due erano a 15 chilometri da Sarajevo, a
Pale. È a loro due che rivà la memoria – tenuta desta dalla
stampa che li menziona continuamente – quando si pensa al bambino o
al vecchio ammazzati da uno sniper”.
Giovedi' la tanto attesa sentenza del
Tribunale dell'Aja che giudica i crimini commessi in ex Jugoslavia a
Radovan Karadzic. Dopo che nel 2006 nel carcere di Scheveningen e'
morto l'ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, Radovan Karadzic e'
il piu' alto rappresentante politico degli anni novanta ad essere
sentenziato per i crimini e per le atrocita' commesse durante la
guerra in Bosnia Erzegovina dal 1992 al 1995. Come detto, con il
verdetto, il leader dei serbi bosniaci, Radovan Karadzic viene
condannato a 40 anni di carcere, ritenuto responsabile di crimini di
guerra in Bosnia. Subito dopo il pronunciamento della sentenza,
divise sono state le reazioni in Bosnia ma in sostanza, sono stati
pochi ad essere pienamente soddisfatti con la decisione del Tribunale
dell'Aja. I rappresentanti di diverse associazioni bosgnacche che si
aspettavano una condanna all'ergastolo nonche' la conferma della
corte che oltre a Srebrenica il genocidio e' stato commesso anche in
altri sei comuni che si trovano inclusi nell'imputazione, sono
rimasti un'altra volta delusi. Dall'altra parte, i commentatori della
Republika Srpska [l'entità a maggioranza serba della Bosnia
Erzegovina] affermano in sostanza che la sentenza e' “politica”
ma che nulla cambiera' per quanto riguarda lo status dell'entita'
serba.
“Siamo consapevoli che non esiste una
pena che possa far tornare in vita le vittime innocenti, ma la
condanna ad uno dei principali statisti della politica di aggressione
della politica di una Grande Serbia in Bosnia Erzegovina, i cui
risultati sono stati il genocidio e crimini terribili, rappresenta il
minimo di cui le vittime e le loro famiglie hanno atteso troppo a
lungo”, questa la posizione e la reazione del Governo croato alla
sentenza dell'Aja. Secondo il capo della diplomazia croata, Miro
Kovac, la sentenza offre una soddisfazione morale insufficiente agli
eredi delle vittime della politica di sistematiche uccisioni e
violenze. Radovan Karadzic e' stato condannato ma non e' stato
sconfitto ancora il suo spirito, come nemmeno l'eredita' della sua
politica di crimini e di genocidio. Soltanto quando questo sara'
raggiunto, allora si potra' arrivare ad una riconciliazione tra la
gente della Bosnia ed oltre, ha rilevato il ministro Kovac.
La presidente croata, Kolinda
Grabar-Kitarovic ritiene che la sentenza all'ex leader dei serbi
bosniaci sia una consolazione debole alle vittime ma e' un messaggio
ai criminali e terroristi odierni che non passeranno impuniti. “Anche
se si tratta di una sentenza di primo grado, con essa la comunita'
internazionale ha riconosciuto che a Srebrenica e' stato commesso un
genocidio e che nei sette comuni della RS e nella citta' di Sarajevo
sono stati commessi i piu' gravi crimini con l'obbiettivo di creare
uno spazio serbo omogeneo” ha detto la presidente croata. “Questa sentenza non pou' e non deve
influenzare il destino della RS e per questo mi appello a tutti i
rappresentanti politici del popolo serbo in Bosnia Erzegovina, in
particolare della Republika Srpska, di lottare con una posizione
congiunta per la loro Republika e per il loro popolo il cui destino,
con questa sentenza puo' essere messo in questione” sono invece le
parole di reazione del presidente della Serbia, Tomislav Nikolic.
Il testo è la trascrizione di parte
della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in
onda il 27 marzo a Radio Radicale
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 27 marzo 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Sommario della puntata
La prima parte della trasmissione è dedicata alla condanna di Radovan Karadzic in primo grado a 40 anni decisa dal Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia per i crimini commessi nel corso della guerra in Bosnia Erzegovina, l'assedio di Sarajevo e il genocidio di Srebrenica. I commenti della comunità internazionale e nei paesi della regione e le opinioni di Emma Bonino e di Andrea Rossini di Osservatorio Balcani e Caucaso.
Nella seconda parte del programma le reazioni ed i commenti sugli attentati di Bruxelles e sul rischio di diffusione del fondamentalismo islamico e di infiltrazioni jihadiste nei Balcani legate ai flussi di profughi e migranti.
Infine, nell'ultima parte, un'interessante analisi pubblicata sul quotidiano serbo Politika che mette a confronto il negoziato di adesione all'Unione Europea della Turchia e della Serbia.
In apertura l'iniziativa del comitato per la candidatura del grande scrittore Predrag Matvejevic al premio Nobel per la letteratura.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Sikora e Artur Nura, è ascoltabile direttamente qui
Intervista a Andrea Rossini di Osservatorio Balcani e Caucaso
Radovan Karadzic, l'ex capo politico dei serbi di Bosnia durante la guerra degli anni '90, è stato condannato in primo grado a 40 anni dal Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia per il genocidio di Srebrenica, l'assedio di Sarajevo e altri crimini di guerra compiuti durante il conflitto del 1992-95 in Bosnia. Anche se i giudici non hanno ritenuto sufficienti gli elementi per provare l'esistenza di un piano genocidiario già dal 1992, la sentenza è comunque importante e potrebbe essere modificata in appello. Giunge però a più di vent'anni dai fatti, dopo un processo durato quasi sei anni e dopo una latitanza dell'imputato protrattasi per quasi 13 anni. Soprattutto giunge in una Bosnia Erzegovina in cui sembrano aver prevalso le divisioni e la pulizia etnica che furono teorizzate e perseguite da Karadzic durante gli anni del suo potere.
Emma Bonino commenta la condanna dell'ex leader politico dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic, a 40 anni per crimini contro l'umanità, crimini di guerra, sterminio e deportazione e per il genocidio di Srebrenica e l'assedio di Sarajevo.
Emma Bonino, che nel luglio del 1995 era Commissario europeo agli aiuti umanitari, dopo una missione in Bosnia fu tra i primissimi ad accorgersi e a denunciare pubblicamente quanto era accaduto a Srebrenica.
Nell'intervista si ricorda anche l'iniziativa dei radicali per l'incriminazione di Slobodan Milosevic e l'istituzione di un tribunale ad hoc per giudicare i crimini commessi durante i conflitti nell'ex Jugoslavia.
Il Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia ha giudicato l'ex capo politico dei serbi di Bosnia colpevole per il genocidio di Srebrenica, l'assedio di Sarajevo e altri crimini commessi durante la guerra del 1992-95. La corte ha invece giudicato non sufficienti le prove per l'accusa di genocidio relativa ai fatti avvenuti in una serie di villaggi.
Radovan Karadzic mentre ascolta la sentenza
Quarant'anni di carcere: questa la condanna decisa dalla 3a sezione del Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia al termine del processo di primo grado contro Radovan Karadzic, l'ex leader dei serbi di Bosnia durante il conflitto degli anni '90, giudicato colpevole di genocidio, uccisioni, deportazioni e altri crimini di guerra. Una sentenza che sulle prime ha scontentato molti: la difesa, ovviamente, ma anche i parenti delle vittime e i sopravvissuti che speravano nella condanna all'ergastolo chiesta dal procuratore Tieger. Inoltre la corte non ha ritenuto sufficienti le prove che volevano dimostrare l'esistenza di un piano genocidiario premeditato e organizzato dalla dirigenza serbo-bosniaca fin dall'inizio del conflitto. Altro elemento di delusione è che la sentenza è giunta a più di vent'anni dai fatti, a quasi un anno e mezzo dalla chiusura di un processo durato 5 anni che si è celebrato dopo ben 13 anni di latitanza dell'imputato che nel frattempo aveva potuto vivere pressoché indisturbato nonostante sul suo capo pendesse una taglia di 5 milioni di dollari. Una latitanza durata fino al luglio del 2008 quando Karadzic, grazie ai cambiamenti politici che nel frattempo erano avvenuti in Serbia, fu finalmente arrestato a Belgrado dove esercitava la professione di medico specializzato in medicina alternativa e psicologia sotto il falso nome di Dragan David Dabic.
Oltre che per il massacro di Srebrenica, il più grave crimine di guerra compiuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, costato la vita a oltre 8000 bosgnacchi maschi e giudicato come genocidio dalla giustizia internazionale, la Corte ha giudicato Karadzic responsabile anche di omicidio e persecuzione di civili per le atrocità commesse durante i 44 mesi dell'assedio di Sarajevo nel quale morirono circa 10mila persone. A questi reati si aggiunge la "presa di ostaggi" compiuta con il sequestro di 284 caschi blu dell'Onu usati come scudi umani contro i bombardamenti della Nato. Il tribunale dell'Aja ha ritenuto invece insufficienti gli elementi forniti dall'accusa per estendere l'accusa di genocidio anche agli eccidi compiuti a Bratunac, Prijedor, Foca, Kljuc, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik. Per questi episodi Karadzic è stato comunque ritenuto colpevole di crimini contro l'umanità, omicidio e persecuzione.
Il video delle lettura della sentenza di condanna per Radovan Karadzic
Alla lettura delle sentenza, nell'aula del tribunale internazionale all'Aja, hanno assistito rappresentanti delle associazioni delle Donne e Madri di Srebrenica, degli ex detenuti dei campi di concentramento, delle Donne vittime di guerra, dei Genitori dei bambini uccisi e rappresentanti di altre organizzazioni giunti appositamente dalla Bosnia, assieme a decine e decine di giornalisti, diplomatici e insegnanti, ricercatori e rappresentanti della società civile.
"Predrag Matvejević è la sintesi dell'Europa, anche dell'Est, che si riconosce nel Mediterraneo e nella sua storia: nella sua vita, nella sua famiglia, nella sua opera letteraria e politico-letteraria, ai tempi della cortina di ferro, si ritrovano quasi tutte le etnie, le religioni, le nazionalità e le culture che oggi come ieri, qualcuno vuole trasformare in ragione di conflitto. Tutta l'opera di Matvejević, ma in particolare il suo impareggiabile Breviario Mediterraneo, ripercorre quelle differenze presunte, mostrandone, come forse nessuno ha fatto, oltre lui e Braudel, quanto siano nostre, di tutti; mutandole, così, in ragioni di convivenza, arricchimento, scambio. Ma, soprattutto, a Matvejević si deve una concezione poetica altissima, che fonde la sua capacità di sentire con quella di capire i luoghi e le genti della sua Europa". E' quanto si legge, tra l'altro, nella lettera diffusa dal comitato che sostiene la candidatura al premio Nobel per la letteratura del grande scrittore nato a Mostar "e cresciuto sulle rive del Mediterraneo che ha magistralmente narrato, guardando con grande attenzione e sensibilità genti e culture dei tre continenti che lo bagnano".
"I fatti di questi giorni, e più in generale di questi anni - si legge ancora nella lettera - rendono tragicamente attuale l'ammonimento di Predrag Matvejević: “Sono immense le incongruenze che hanno contrassegnato le diverse civiltà e culture del Mediterraneo, vecchie e nuove” e continua aggiungendo che “lo tradiamo accostandoci ad esso da punti di vista eurocentrici”. Perciò rimane di grande attualità, diremmo obbligatoria per tutti coloro che hanno a cuore una pacifica e fruttuosa convivenza mediterranea, la rilettura di “Mediteranski Brevijar”, pubblicato nel 1987 in serbo-croato e tradotto poi in francese, italiano e in tante altre lingue. In quei lontani anni Ottanta, gli occhi europei erano tutti rivolti a est, dimentichi del sud, che per l'Europa corrisponde con il Mediterraneo, “il mare della vicinanza”. Una vicinanza che per non rivelarsi conflittuale, deve praticare l'ascolto e accettare la convivenza nella diversità, storica, politica e religiosa. [...] Può essere sufficiente un libro per candidare al Nobel l'autore? Noi crediamo di sì. Ma se ciò non bastasse, allora aggiungiamo il valore letterario e culturale, antropologico e storico, di tutti gli altri suoi libri, tra cui ci limitiamo a ricordare: “Epistolario dell’altra Europa”, “Mondo Ex: confessioni”, “Tra asilo ed esilio”. I titoli sono già sufficienti per riassume la tensione morale di Matvejević, volta alla comprensione dell'alterità culturale. In ultimo, “Pane nostro”, può essere letto anche come un manifesto della condivisione del più necessario e sacro degli alimenti dell'uomo".
Passaggio a Sud Est sostiene l'iniziativa del comitato per la candidatura di Predrag Matvejevic al Premio Nobel per la letteratura.
Chi vuole sottoscrivere la lettera può scrivere una mail a nobelpermatvejevic@gmail.com indicando nome cognome e qualifica e, se si vuole, aggiungendo un pensiero che si farà recapitare allo scrittore che da oltre un anno è ricoverato in ospedale a Zagabria
La puntata del 12 marzo di Spazio Transnazionale, trasmissione di Radio Radicale sull'attualità internazionale in collaborazione con OltreRadio
Focus sulle proposte della Turchia all’Unione Europea in tema di immigrazione.
Intervengono Mariano Giustino(Direttore della rivista “Diritto e Libertà”), Marco Guadagnino(Responsabile dei contenuti e della comunicazione della Divisione Programmi Internazionali di “Save the Children”), Giampiero Gramaglia(Analista dell’Istituto Affari Internazionali), Roberto Spagnoli(Vice Capo redattore di RadioRadicale), Danilo Taino(Corrispondente dalla Germania per il Corriere della Sera) in collegamento da Berlino.
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 13 marzo 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Sommario della puntata
Anche questa puntata è quasi interamente dedicata alla crisi dei profughi e alla situazione sulla "rotta balcanica" dopo il vertice Unione europea/Turchia di lunedì 7 marzo: la bozza di accordo in vista del Consiglio europeo del 17/18 marzo; le dichiarazioni del presidente del Consiglio Matteo Renzi; il giudizio di Emma Bonino; le reazioni e i commenti in Croazia e Slovenia; le preoccupazioni dell'Albania per il possibile spostamento del flusso dei profughi; la situazione in Macedonia.
Si parla anche della Turchia e della repressione della libertà di stampa negata però dal governo di Ankara.
Nella seconda parte si parla di Kosovo e delle relazioni con l'Unione Europea e della situazione in Albania del Partito socialista del premier Edi Rama che si prepara al congresso. La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Sikora e Artur Nura, è ascoltabile direttamente qui
La vicenda del compromesso tra Unione Europea e Turchia sulla crisi dei profughi porta al pettine tutti i nodi del controverso processo di integrazione della Mezzaluna e la mancanza di un pensiero strategico, di una visione e medio-lungo termine che ha caratterizzato le leadership di entrambe le parti in causa e che sarebbero invece stati necessari in una trattativa così importante quanto delicata.
L'UE, dopo aver deciso di dare via libera formalmente al negoziato con la Turchia per l'adesione nel 2005, lo ha di fatto bloccato. Protagoniste di questo evidente voltafaccia sono state la Francia del presidente Sarkozy e la Germania della cancelliera Merkel. La stessa che, dopo aver proposto un “partenariato rafforzato” con Ankara, ora, pressata dalle circostanze, sembra sostenere una “partnership privilegiata” che fa della Turchia una sorta di 29° stato membro dell'Unione.
In tempi di Brexit e di messa in discussione degli accordi di Schengen, se non della stessa Unione, è chiaro che è meglio avere una Germania che chiede maggiore integrazione anziché accodarsi ai governi euroscettici. Però in questa situazione di crisi e di divisione tra i 28, l'UE, se non proprio sotto ricatto, si trova comunque in una situazione di debolezza di fronte al presidente Erdogan proprio nel momento in cui il governo di Ankara appare più lontano dagli standard comunitari.
Senza almanaccare sull'esistenza o meno di una “agenda segreta”, c'è da domandarsi se l'uomo forte di Ankara sia mai stato davvero interessato all'adesione all'UE o se non abbia solo usato opportunisticamente questa prospettiva. C'è da chiedersi, anche, se in tutti questi anni ci siamo un po' illusi sulla Turchia di Erdogan, vedendo solo ciò che ci piaceva credere di vedere (quasi l'Akp fosse una sorte di “Democrazia islamica” simile ai partiti democristiani europei), invece dei segnali preoccupanti che pure arrivavano dal Bosforo.
La svolta autoritaria che abbiamo visto concretizzarsi con la brutale repressione delle proteste di Gezi Park e la furiosa reazione allo scandalo del 2013 era stata preceduta da segnali preoccupanti. C'erano state però, insieme, aperture impensate come quella sulla “questione curda”, diventata appunto questione politica dopo decenni di conflitto e decine di migliaia di morti. Anche l'uso opportunistico dell'Islam (perché di questo si tratta) che Erdogan ha fatto fin dal suo arrivo al potere avrebbe dovuto suonare un altro campanello d'allarme.
Se l'UE avesse aperto da subito i capitoli negoziali su diritti umani e libertà fondamentali, forse oggi la situazione ad Ankara sarebbe diversa, ma del senno di poi, come si sa, son pieni i fossi (e gli editoriali). Ma questa è la Turchia e questo il governo con cui dobbiamo trattare oggi (facendo finta di non vedere la guerra in corso nel sud-est curdo, la repressione della libertà di stampa e le relazioni pericolose con l'Isis). Anche perché Erdogan prima o poi passerà, mentre la Turchia sarà sempre lì, in posizione strategica in uno degli scenari geopolitici più complicati e instabili del globo.
Avremmo bisogno di classi politiche lungimiranti e invece ci dobbiamo affidare a politici di piccolo cabotaggio il cui orizzonte non va al di là delle prime elezioni utili. Per cui una leader di medio livello come Angela Merkel emerge come una statista. E per fortuna c'è almeno la cancelliera a chiedere più Europa per rispondere alla crisi dell'Unione. Perché se non si rilancia la costruzione di una “patria europea”, federalista e democratica, il destino sarà quello del ritorno all'Europa delle patrie. Sempre più piccole, sempre più divise, sempre più ininfluenti.
Abbiamo lasciato per anni i paesi confinanti con la Siria ad affrontare da soli una crisi umanitaria spaventosa e ci siamo ricordati della guerra in Medioriente solo quando i profughi hanno preso la rotta balcanica.
Adesso da struzzi ci stiamo trasformando in bestie feroci, disposti a
tutto per arginare l'afflusso di richiedenti asilo. Arriveranno lo
stesso. Adottare retoriche paranoiche e scelte securitarie, per far
crescere le paure, per guadagnare facili punti politici, per non dover
assumersi responsabilità nel trovare soluzioni ad una crisi complessa
non è umano e rischia di distruggere l'Europa e farci pagare un prezzo
enorme.
Ma è possibile resistere: rilanciamo con l’accoglienza
che è necessaria, oltre che dovuta. Sono tante le iniziative già in
corso, un arcipelago di resistenze che deve mettersi in rete e salvarci
dal baratro in cui rischiamo di cadere. Osservatorio Balcani e Caucaso ha aperto una apposita sezione del portale a disposizione delle notizie e delle segnalazioni dei lettori su chi ha deciso di reagire all'attuale deriva prendendosi delle responsabilità, agendo, provando a capirne di più.
Il
"supplemento del giovedì" di Passaggio a Sud Est del 10 marzo 2016 su
Radio Radicale propone una rassegna di articoli sulla Turchia
pubblicati in questi giorni su giornali e siti Internet: il compromesso
con l'Unione Europea sulla crisi dei profughi e la situazione della
libertà di espressione dopo il commissariamento del
quotidiano di opposizione Zaman.
Gli articoli citati:
Rifugiati: cinque cose da sapere dell'accordo UE-Turchia
Andrea Sorbello, Rivista Europae, 9 marzo 2016
L'Europa spaccata al gran ballo del sultano
Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016
Il rinvio una sconfitta per l'Unione
Stefano Stefanini, La Stampa, 8 marzo 2016
Europa a corto di statisti
Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016
Turchia: il sultano riceve altri 3 mld per i migranti, come buttare i soldi nel cesso
Matteo Zola, Eastjournal.net, 9 marzo 2016
Erdogan ha capito che può fare tutto quello che vuole con questa Europa
Marta Ottaviani, EastWest, 8 marzo 2016
Emergenza migranti: intervista a Emma Bonino
sull'esito del vertice Ue-Turchia Andrea Billau, Radio Radicale, marzo 2016
L'8 marzo del 2008 Pippa Bacca iniziava da Milano la performance itinerante Brides on Tour (Spose in Viaggio) con cui si proponeva di attraversare in autostop undici paesi teatro di conflitti armati vestendo un abito da sposa per promuovere la pace e la fiducia tra le persone.
Il viaggio, compiuto insieme a un'altra artista, Silvia Moro, anch'essa vestita da sposa, aveva come meta finale Gerusalemme.
Dopo aver attraversato Slovenia, Croazia, Bosnia e Bulgaria, Pippa e la sua compagna arrivarono in Turchia il 20 marzo da dove avrebbero poi dovuto continuare attraverso Siria, Libano, Giordania, Israele e Palestina, con arrivo a destinazione prevista per la metà di aprile. Dopo essersi separata a Istanbul dalla compagna, con cui prevedeva di rincontrarsi a Beirut il 31 marzo, Pippa Bacca fu violentata e uccisa a Gebze, da un uomo che le aveva dato un passaggio.
Ricordiamo Pippa Bacca e il suo messaggio di pace e convivenza per non dimenticare tutte le donne che ogni giorno, in tutto il mondo, sono vittime di violenze.
"Velo di sposa" la canzone dei Radiodervish ispirata alla storia di Pippa Bacca. Concerto del 17 agosto 2014 presso la collina di San Mauro a Sannicola (LE).
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est del 6 marzo 2016. La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui di seguito oppure sul sito di Radio Radicale. Sommario della puntata
La puntata è quasi interamente dedicata alla
crisi dei rifugiati sulla "rotta balcanica": Stefano Lusa di Radio Capodistria e collaboratore di Osservatorio Balcani e Caucaso, racconta
la situazione a Idomeni, al confine greco-macedone; Elisabetta
Casalotti, da Atene, spiega la difficile situazione politica e il
rischio di crisi di governo in Grecia di fronte alla crisi dei migranti;
i colloqui del neoministro degli Esteri della Croazia con la cancelliera
Merkel e con il presidente del Consiglio europeo Tusk; la situazione
in Macedonia e in Albania e la possibilità che i profughi respinti
dalla Macedonia si spostino verso Albania, Bosnia e Montenegro; le
considerazioni di Emma Bonino sulla attuale crisi, le sue prospettive e
il futuro dell'Unione Europea. In apertura la Turchia, il commissariamento del quotidiano d'opposizione Zaman, le proteste e le reazioni interne e internazionali. In chiusura la Serbia e le elezioni anticipate della prossima primavera. La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Sikora e Artur Nura, è ascoltabile direttamente qui
In vista del consiglio europeo straordinario di lunedì sulla crisi dei profughi, e dell'incontro con il capo del governo turco Ahmet Davutoglu, il premier greco Alexis Tsipras ha convocato venerdì 4 marzo un vertice di tutti i partiti presenti in parlamento (esclusa Alba Dorata) presieduto dal capo dello stato Pavlopuolos.
Otto ore di confronto e tre ore di trattativa per riuscire a stendere un comunicato congiunto danno la misura delle difficoltà dell'esecutivo che sulla crisi dei profughi rischia la sua stessa tenuta, mentre la popolazione greca cerca come può di affrontare la situazione e di dare una mano alle migliaia di profughi accampati non solo a Idomeni e in altre località di confine, ma anche nella stessa capitale Atene.
Ennesimo duro attacco in Turchia alla libertà di stampa e alla libertà di informazione. Nella notte tra venerdì e sabato la polizia turca ha fatto irruzione nella sede del quotidiano di opposizione Zaman, il più diffuso del paese. Questo dopo la sentenza di un tribunale di Istanbul che ha ordinato il commissariamento del giornale e l'allontanamento degli amministratori e dei giornalisti sgraditi.
Centinaia di persone hanno protestato davanti alla sede del giornale e hanno cercato di impedire l'irruzione della polizia. Per disperderli sono intervenuti i reparti antisommossa che, stando alle testimonianze, hanno fatto uso di gas lacrimogeni e idranti per disperdere i manifestanti.
Per mettere sotto controllo il gruppo editoriale Feza, al quale oltre a Zaman fanno capo anche la sua edizione in inglese Zaman Today. l'agenzia di stampa Cihan, il settimanale Acsyon e l'emittente televisiva Samanyolu, l'accusa è quella ormai consueta usata dal regime – ormai possiamo definirlo così – del presidente RecepTayyip Erdogan per mettere a tacere le voci critiche: “propaganda terroristica”.
Questa volta non a favore dei guerriglieri curdi, ma del presunto stato parallelo che sarebbe stato creato dal magnate e predicatore sunnita Fetullah Gulen, ex alleato e sostenitore di Erdogan, poi diventato suo acerrimo nemico.
Dopo aver disperso i manifestanti che si erano riuniti davanti alla sede del quotidiano, la polizia ha fatto irruzione nella redazione e ha letteralmente buttato fuori i giornalisti e gli amministratori. I giornalisti sono riusciti a mettere online sul sito del quotidiano la cronaca e le immagini delle cariche della polizia al di fuori della sede del giornale e poi l'irruzione nella redazione. In precedenza il direttore del quotidiano nel corso di un'assemblea aveva parlato ai giornalisti dicendo: “Questo è un giorno nero per la democrazia”
Il leader del Chp, il principale partito di opposizione, Kemal Kilicdaroglu, ha denunciato l'azione della magistratura definendola un colpo alla libertà di espressione. Condanne sono arrivate anche dall'estero: il commissario europeo all'Allargamento Johannes Hahn ha detto di essere estremamente preoccupato per quanto accaduto. Il Dipartimento di Stato americano ha definito inquietanti le azioni giudiziarie per mettere a tacere gli organi di informazione sgraditi al al potere ricordando che la Turchia è candidata all'adesione all'Unione europea e deve rispettare la libertà di stampa. "I diritti fondamentali non sono negoziabili”.
A Zaman è successo quello che era già accaduto per il gruppo editoriale Ipker che era stato commissariato alla vigilia delle elezioni dello scorso novembre sempre per il suo legame con l'organizzazione che fa capo alla al predicatore e magnate Fetullah Gulen. “Oggi è un giorno di vergogna per la libertà dei media in Turchia. La Costituzione è stata sospesa”, ha detto tra l'altro la direttrice della versione online di Zaman, Sevgi Akarcesme, che ha parlato ai giornalisti della stampa internazionale davanti alla sede del giornale. Ricordiamo che la Costituzione turca vieta il sequestro di tipografie e delle attrezzature necessarie alla stampa dei giornali.
Una petizione su internet è stata lanciata da Index on Censorship che chiede al tribunale di Istanbul di rivedere la decisione e al presidente Erdogan di mettere fine alla repressione degli organi di informazione. “Le autorità turche - si legge tra l'altro nella petizione - hanno confermato di non rispettare più la libertà dei media che è la base di ogni società democratica. Noi sottoscritti chiediamo al tribunale di rivedere la sua decisione di porre sotto sequestro Zaman e chiediamo alla comunità internazionale di prendere posizione contro i ripetuti tentativi della Turchia di soffocare i media liberi e indipendenti “. La petizione è stata lanciata sulla piattaforma Change.org.
Non sfugge una coincidenza tra la decisione di commissariare Zaman e l'allontanamento forzato dei dei giornalisti e degli amministratori e il vertice di lunedì 7 marzo a Bruxelles tra il Governo turco. L'Unione Europea da molto tempo chiude gli occhi di fronte alle violazioni alla libertà di stampa e di espressione in Turchia vista la potente arma di ricatto che Erdogan ha in mano. Bruxelles ha stanziato tre miliardi per a sostenere la Turchia nell'accoglienza dei profughi che arrivano dalla Siria e delle altre zone di conflitto del Medio Oriente ed evitare che arrivino sulle coste europee. Ormai sono centinaia di migliaia in territorio turco e, purtroppo, nulla fa pensare che l'atteggiamento europeo possa cambiare molto presto vista la debolezza e le divisioni tra i 28 su come affrontare e gestire la crisi dei profughi.
Intervista a Stefano Lusa Stefano Lusa, giornalista di Radio Capodistria e collaboratore di Osservatorio Balcani e Caucaso racconta la situazione a Idomeni, località greca al confine con la Macedonia, dove migliaia di persone sono ammassate, in condizioni sempre più precarie, sotto ripari di fortuna, in attesa di riuscire a proseguire verso il nord Europa. Solo la saggezza e l'umanità con cui le autorità e la polizia greca stanno gestendo la situazione ha impedito che si ripetessero i tentativi di sfondamento dei confini dei giorni scorsi.
Coltivazioni orientate all'autosufficienza famigliare, bioedilizia, permacultura. Seppur ancora timidamente, in Moldavia si stanno sviluppando preziose iniziative per vivere l'ambiente e la terra in modo sostenibile. Il reportage di Francesco Brusa.
Così come per l'ambiente, dove è l'agire quotidiano che conta e fa la differenza, così nei processi di riconciliazione. Vent'anni dopo la fine della guerra, in Bosnia Erzegovina gruppi di veterani di opposti schieramenti si confrontano con il passato grazie al lavoro del Centro per l'Azione Nonviolenta: un approfondimento di Andrea Rossini.
Il viaggio dei profughi verso Idomeni, dove nei giorni scorsi si sono chiuse le porte della rotta balcanica (Foto e testi di Andrea Rossini e Simone Ginzburg)
Per gli storici Dubravka Stojanović e Tvrtko Jakovina l'unica possibile risposta all'attuale crisi dei rifugiati resta quella di rilanciare il progetto europeo. Un'intervista
Coltivazioni orientate all'autosufficienza famigliare, bioedilizia, permacultura. Seppur ancora timidamente, in Moldavia si stanno sviluppando numerose idee per vivere l'ambiente e la terra in modo sostenibile
L'abolizione del sostegno pubblico ai media no profit è il primo provvedimento del neo ministro della Cultura croato Zlatko Hasanbegović. Ne parliamo con Toni Gabrić, caporedattore di H-Alter, fra i media beneficiari del sostegno pubblico negli ultimi tre anni
In vista delle elezioni parlamentari georgiane che si terranno nell'autunno prossimo, abbiamo incontrato Giorgi Bobghiashvili dell’European Centre for Minority Issues per parlare di minoranze e politiche inclusive in Georgia
Un villaggio della Dobrugia romena dove tutt'oggi vivono i discendenti di famiglie friulane e venete emigrate alla fine dell'Ottocento. Lì ci si soffermerà nella seconda tappa di "Navigando lungo i sapori del delta del Danubio", viaggio promosso a giugno da Viaggiare i Balcani. Un reportage
La recente elezione di Hashim Thaçi alla presidenza del Kosovo non è valida per almeno due motivi, che rimandano entrambi alla violazione delle regole stabilite dalla Corte Costituzionale
Venti anni dopo la fine della guerra, gruppi di veterani di opposti schieramenti si confrontano con il passato grazie al lavoro del Centro per l'Azione Nonviolenta
Un nuovo saggio analizza dove sia finita la cosiddetta "sinistra" in questi 25 anni che ci separano dal crollo dell'ex Jugoslavia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
La "rotta balcanica" per centinaia di rifugiati e migranti parte da Istanbul. Per moltissimi, usare la rete dei trafficanti è una scelta obbligata. Un reportage esclusivo firmato OBC
Esposizione foto-documentaria in occasione del Centenario della Grande Guerra; inaugurazione sabato 5 marzo alle 12:00 Dal 5 al 19 marzo 2016 RIGNANO FLAMINIO (RM)
Incontro-dibattito sulle complesse alternative rappresentate dai corridoi umanitari rispetto ai percorsi di fuga che i rifugiati oggi devono intraprendere. Nell'ambito della due giorni di eventi volti a sensibilizzare la cittadinanza e contrapporre alla mentalità delle barriere la possibilità dei corridoi umanitari per i rifugiati 5 marzo 2016 TRENTO
Secondo appuntamento del ciclo di incontri destinati a studenti, docenti, giornalisti e lettori; interviene il direttore de Il Post, Luca Sofri 9 marzo 2016 TRENTO
Workshop che si pone come obiettivo quello di incentivare e promuovere la formazione di giovani drammaturghi in grado di rispondere in maniera competente alle richieste della scena contemporanea, capaci altresì di individuare nuove possibili forme di scrittura drammaturgica al fine di una sempre più vasta circolazione di testi e forme che siano in grado di raccontare la realtà che ci circonda; diretto da Jeton Neziraj, già direttore del Teatro Nazionale del Kosovo e coraggiosa voce politica nel teatro del nuovo Kosovo, impegnato sul fronte dell'attivismo intellettuale e sul ruolo dell'artista, sulla sua responsabilità e sul margine di libertà dei processi socio-politici in atto.