La Bosnia Erzegovina si è qualificata alla fase finale dei mondiali di calcio del 2014. E' sicuramente un traguardo storico, risultato di un lungo processo, che ricompensa una
progresso costante. Peccato che questo discorso valga solo sul piano sportivo e non abbia un corrispettivo su quello politico sociale. La nazionale che scenderà in campo in Brasile, molto probabilmente avrà dietro di sé solo una parte del Paese, i bosgnacchi. E' la triste realtà di un Paese profondamente diviso, diciott'anni dopo la fine della guerra, in una regione, i Balcani, in cui lo sport e il calcio in particolare, anziché favorire l'unità e la riconciliazione, è stato spesso l'incubatore dei peggiori odii etnici e nazionalistici. L'anno prossimo, dunque, i croato-bosniaci tiferanno Croazia, sempre che la compagine della "madrepatria"
superi i playoff, mentre i serbo-bosniaci, non essendosi qualificata
la nazionale serba, tiferanno contro, sostenendo chiunque potrà sbarrare la strada ai "dragoni" giallo-blu. Per capire perché questo succede consiglio la lettura del bel pezzo di Matteo Tacconi, pubblicato il 16 ottobre su Europa. Come scrive Matteo sul suo blog, c'è da sperare che i fatti contraddicano il pessimismo, purtroppo però la Bosnia si
sta autocondannando alla stagnazione e non sembra che il calcio possa salvarla.
Le tre Bosnie, solo una ai Mondiali
Il paese dei Balcani pacificato dal
calcio dopo la qualificazione a Brasile 2014? Solo una bella storia.
La notizia si può prendere da due
lati. Il primo è quello della malinconia nostalgica. Quanto sarebbe
stata competitiva la Jugoslavia, se ancora esistesse; quanto filo da
torcere avrebbe dato alle grandi, ai Mondiali in Brasile dell’anno
prossimo. E giù, a snocciolare i ventidue possibili convocati:
Handanovic, Vidic, Ivanovic, Basta, Kolarov, Pjanic, Modric, Ljajic,
Dzeko, Vucinic e Jovetic, tra i tanti. Ma è solo fantacalcio. Un
esercizio magari divertente, ma molto sterile.
Il fatto è che la Jugoslavia non c’è
più e bisogna accontentarsi di quello che c’è sulla piazza. La
sola Bosnia, in questo caso. Il responso dei gironi di qualificazione
europei, terminati con le partite di ieri, dice infatti che in attesa
di quello che combinerà la Croazia negli spareggi tra le migliori
seconde, la Bosnia è l’unica delle vecchie repubbliche jugoslave a
essersi meritata il lasciapassare diretto per il mondiale brasiliano.
Le altre due ex consorelle di blasone, Slovenia e Serbia, sono fuori.
Come il Montenegro, malgrado lì davanti abbia Vucinic e Jovetic.
Come la Macedonia di Pandev. Il Kosovo, che repubblica jugoslava,
comunque, non fu, non è stato ammesso dalla Fifa neanche alle
qualificazioni. Il tortuoso processo dei riconoscimenti
internazionali si riflette anche a livello calcistico.
La Bosnia, una squadra ruvida al punto
giusto ma al tempo stesso con qualche giocatore dai piedi buoni e
dalla statura europea, come Pjanic, Dzeko, Misimovic e Lulic, va in
Brasile vincendo il proprio raggruppamento grazie alla differenza
reti favorevole rispetto alla Grecia, con cui ha terminato in testa a
pari punti (25). L’ha fatto all’ultimo respiro, nel match esterno
contro la Lituania, vinto 1-0 con una rete di Vedad Ibisevic,
attaccante dello Stoccarda, classe 1984, al sessantottesimo minuto.
Il suo nome rimarrà scolpito nella storia. Con la sua rete il paese,
prima volta dall’indipendenza del 1992, si guadagna l’accesso ai
mondiali. Ed ecco l’altro lato della faccenda, quello epico,
leggendario. Testimoniato dalle immagini giunte ieri sera da
Sarajevo. Una Sarajevo di chiasso, baldoria, euforia.
La partecipazione della Bosnia ai
Mondiali è il coronamento di un sogno inseguito da tempo e sfumato,
nel 2010, agli spareggi contro il Portogallo. Una faccenda che ha
pure una dimensione ultra-calcistica. Nella memoria collettiva la
Bosnia è la terra della guerra sporca, del ritorno alla pulizia
etnica e ai campi di prigionia, degli eccidi e degli “urbicidi”.
Srebrenica, Sarajevo, il ponte di Mostar, il viale dei cecchini.
Affacciarsi al grande palcoscenico globale del calcio può essere
visto come un momento di riscossa.
E forse potrà essere anche una
piccola, ma significativa rivincita, se dopo la Serbia anche la
Croazia non dovesse staccare il biglietto per il Brasile. Belgrado e
Zagabria, con Slobodan Milosevic e Franjo Tudjman a guidarle,
siglarono il patto del diavolo. I due, mentre si facevano la guerra,
riuscirono comunque a mettersi d’accordo sulla spartizione della
Bosnia. Messa in altri termini: stavolta, in un campo di battaglia
diverso e con armi non letali, potrebbe essere la Davide bosniaca a
trionfare sulle Golia serba e croata.
Ma qui si annida anche il problema. È
che la Bosnia odierna ha una dimensione una, bina e trina.
Formalmente è un solo stato. Ma nei fatti, volendo semplificare, è
suddivisa in tre aree di influenza ritagliate sulla base di criteri
etnici e delle antiche linee del fronte. Ciascuna è controllata da
uno dei gruppi nazionali del paese. Musulmani, serbi e croati, in
ordine di peso demografico. Gli stessi che tra il 1992 e il 1995 si
spararono addosso. E ancora oggi, benché i tempi siano cambiati, il
peso del conflitto si fa sentire. E vedere. Banja Luka, la capitale
dei serbi di Bosnia, ammicca a Belgrado. L’Erzegovina, la regione
meridionale del paese, zoccolo duro dei croato-bosniaci, è una terra
sassosa che ostenta con le chiese e le bandiere croate i suoi legami
con Zagabria. Mentre Sarajevo ha smarrito il suo respiro
multiculturale e oggi è una città a trazione musulmana. La Teheran
d’Europa, come dicono con disprezzo i serbo-bosniaci.
Gli attriti passano anche per il
calcio. Gli unici a tifare Bosnia sono i musulmani. I serbi
parteggiano per la rappresentativa di Belgrado e il loro uomo forte,
Milorad Dodik, è giunto a dire che riuscirebbe a tifare per la
nazionale bosniaca solo se questa giocasse contro la Turchia. A
Mostar, città divisa, metà croata e metà musulmana, ci sono stati
in passato scontri furiosi, aizzati proprio dal pallone. Agli Europei
del 2008, il giorno di Turchia-Croazia, ci fu un dispiegamento di
forze massiccio per evitare scontri tra i croati (il loro cuore batte
per la Croazia) e i musulmani (in quell’occasione sostenevano la
vecchia “madrepatria”). Costoro, due anni prima, ai Mondiali, si
misero invece a intonare cori a favore del Brasile, quando affrontò
e batté la Croazia. I croati di Mostar si riversarono nei quartieri
musulmani. Fu guerriglia urbana.
Più recentemente le tensioni
calcistiche sono state di carattere più istituzionale. Nel 2011 la
Fifa ha temporaneamente sospeso la Bosnia, pretendendo che la
federazione calcistica del paese eleggesse un solo uomo al vertice,
allineandosi con le regole internazionali e ponendo fine alla nomina
di tre co-presidenti, uno musulmano, uno croato e l’altro serbo.
Logica, questa della cogestione, che permea molte istituzioni
elettive. Sembra un indice di democraticità, ma in realtà inceppa
ogni riforma e favorisce il veto incrociato. E la stasi.
Dopo la misura della Fifa i leader dei
tre popoli di Bosnia, in nome del calcio, riuscirono a fare quello
che hanno sempre evitato sul piano politico nazionale: trovare un
compromesso, convergendo su un nome. Questo non significa, però, che
la qualificazione ai Mondiali e la spinta del calcio abbiano, come
successo in altri casi (Germania, Spagna..), la forza per compattare
una nazione sfilacciata. Le tre Bosnie sono ancora troppo diverse, e
distanti, tra loro. E il rapporto della Commissione europea sullo
stato del paese e sul suo (lentissimo, ai limiti della regressione)
percorso di avvicinamento a Bruxelles, prossimo a essere diffuso, non
farà che certificarlo ancora una volta.
La Bosnia pacificata grazie al calcio?
Sarebbe una bella storia, ma viene da sospettare che ai Mondiali, i
serbi e i croati, anche se le “loro” nazionali non saranno
presenti (la Croazia deve giocarsi i playoff), si uniranno molto
difficilmente ai musulmani. Fino a prova contraria.
@mat_tacconi