Tutte le analisi storiche e politiche delle guerre jugoslave si soffermano sulla presunta specificità del popolo serbo, sulla evoluzione assolutamente singolare del suo percorso storico. E d’altronde il mito del destino particolare, insieme drammatico e nobile, è profondamente sentito dalla società serba a tutti i livelli, e cioè sia dalla sua più alta espressione scientifica, l’Accademia delle Arti e delle Scienze, la quale, nel famoso Memorandum del 1987 afferma che il popolo serbo nel corso dei secoli si è sempre sacrificato per gli altri, ma, ciò nonostante, è stato sempre derubato delle sue vittorie, sia dalla gente comune, che si autodefinisce “nebeski narod”, popolo celeste, in quanto tale investito di una missione divina. Si tratta, ovviamente, di costruzioni soggettive, e quindi condivisibili o meno a seconda della interpretazione che si da ai fatti storici su cui esse si fondano. Vi è tuttavia una caratteristica, stavolta oggettiva, che distingue il popolo serbo da tutti gli altri popoli, e cioè il fatto che tutti gli eventi decisivi nella sua storia si sono verificati il 28 giugno, giorno di San Vito, Vidov dan.
Dipinto del pittore contemporaneo serbo Zoran Pavlovic |
Una coincidenza che ha dell’incredibile
Tutto inizia il 28 giugno 1389, con la battaglia di Kosovo Polje, quando l’esercito turco guidato da Murad sconfigge quello serbo guidato dal duca Lazar: l’evento è di fondamentale importanza per la storia europea e, ovviamente, per quella serba. La connotazione internazionale della battaglia è data dal fatto che essa segna l’ inizio del lungo dominio degli ottomani sull’Europea sudorientale e sulla Serbia in particolare, che durerà per circa cinquecento anni: i Balcani, soggetti al dominio del Sultano, vengono tagliati fuori dai contatti con il resto dell’Europa e quindi ignorano o perlomeno conoscono con ritardo quegli eventi, sia economici come la rivoluzione industriale inglese, sia culturali e politici come l’illuminismo e la rivoluzione francese, che hanno caratterizzato l’ evoluzione dell’ Europa Occidentale. E Kosovo Polje segna ovviamente un momento fondamentale anche della storia nazionale dei serbi, e non solo perché segna la fine della loro indipendenza, che verrà riconquistata solo nell’Ottocento.
Le implicazioni psicologiche della battaglia, della perdita dell’indipendenza, sono notevoli e durature: nasce proprio a Kosovo Polje l’idea della Serbia come antemurale della cristianità, la leggenda del popolo serbo che si è sacrificato per difendere l’Europa cristiana dall’invasione musulmana. Questo mito si è poi consolidato nel corso dei secoli e dura, lo si è visto con il Memorandum dell’Accademia , fino ai giorni nostri. Ma con la battaglia di Kosovo Polje nasce anche una letteratura che riecheggia in termini epici il contrasto tra serbi e musulmani: i poemi che mitizzano le lotte tra gli eroi serbi e gli infedeli presentano evidente analogie con le opere degli scrittori occidentali che celebrano le crociate cristiane in Terra Santa.
Dopo Kosovo Polje il giorno di San Vito torna ad essere, per più di cinque secoli, un giorno assolutamente normale, ma nel 1914 questa ricorrenza torna a sconvolgere non solo il mondo serbo ma anche quello europeo, con una violenza quale non si era mai vista in precedenza. Il teatro dell’avvenimento è Sarajevo, capoluogo della Bosnia, regione abitata da serbi e all’epoca contesa tra l’Impero Austro–Ungarico, a cui apparteneva, e la Serbia. Il 28 giugno 1914, come è noto, l’arciduca Francesco Ferdinando, fratello dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, viene assassinato da un nazionalista serbo, Gavrilo Princip. L’incidente è il detonatore della prima guerra mondiale a cui prendono parte, a causa di un complicato sistema di alleanze, quasi tutti gli Stati europei. Gli effetti della Grande Guerra in termini di perdite di vite umane e di distruzioni sono risaputi, e non è il caso di intrattenersi sul punto.
In un ottica specificamente serba l’episodio di Sarajevo ed il conflitto che ne è conseguito hanno una importanza fondamentale: la Serbia si ingrandisce, assorbendo i territori del Montenegro, della Croazia, della Slovenia, della Macedonia e della Bosnia, ed il nuovo Stato assume la denominazione di Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, che cambierà dopo qualche anno in quella di Jugoslavia. I serbi sono il gruppo etnico egemone della nuova compagine statale, nonostante le istanze autonomiste di croati e sloveni: serba infatti è la dinastia regnante, quella dei Karageorgevic, serbi sono quasi tutti i ministri e serbi sono i vertici dell’apparato militare.
Il giorno di San Vito torna ad incidere sui destini della Serbia ed anche sugli equilibri geopolitici internazionali nel 1948 : siamo in pieno clima di guerra fredda e la Jugoslavia fa parte del blocco comunista guidato dall’URSS. Il 28 giugno 1948 il Cominform, l’organismo di consultazione fra i partiti comunisti europei, fondato nell’anno precedente dal partito comunista russo, di cui attuava in modo scrupoloso gli orientamenti internazionali, si riunisce a Bucarest ed adotta una risoluzione con cui espelle il partito comunista jugoslavo. La motivazione ufficiale dell’espulsione è quella, tipica delle purghe all'interno del sistema comunista, della deriva controrivoluzionaria, del trozkismo, della deviazione dai principi fondamentali della dottrina comunista. In realtà la ragione dell’espulsione era diversa : Stalin non accettava il fatto che Belgrado svolgesse una politica estera autonoma, di cui è tipico esempio il progetto di realizzazione di una confederazione balcanica guidata dalla Jugoslavia e comprendente la Bulgaria (il leader bulgaro Dimitrov venne chiamato a Bucarest per riferire sul punto), mentre Tito si sentiva autorizzato ad agire autonomamente in quanto riteneva di essere giunto al potere con le proprie forze, senza l’ aiuto decisivo di Mosca, verso la quale non si sentiva obbligato e di cui, di conseguenza, non accettava i diktat, almeno nella politica estera.
Le conseguenze dello strappo sono note: sul piano delle relazioni internazionali il blocco sovietico perde un importante tassello, e la cosiddetta cortina di ferro retrocede verso est di diverse centinaia di chilometri e di ciò si giova particolarmente l’Italia che non è più a diretto contatto con una nazione facente parte del Patto di Varsavia e quindi non è più a rischio d’ invasione. Il sollievo degli occidentali, e degli italiani in particolare, per la rottura tra Tito e Stalin ed il conseguente arretramento della cortina di ferro venne efficacemente espresso dall’ambasciatore italiano a Parigi, Pietro Quaroni: “E' un vantaggio così grande che non sarebbe mai pagato troppo caro”. Ma le conseguenze internazionali dello scisma non finiscono qui. Tito fonda, con l’ egiziano Nasser, l’indonesiano Sukarno e l’indiano Nehru, il movimento dei Paesi non allineati, il cui scopo, quello di inserirsi quale terza forza nella rivalità tra mondo comunista e paesi democratici, non verrà tuttavia concretizzato. E le conseguenze del Vidov dan del 1948 sono state di tutto rilievo anche per la Jugoslavia, e quindi per la Serbia.
Londra e Washington , a seguito della condanna della Jugoslavia da parte del Cominform, offrono a Tito appoggio economico e militare: nel successivo trentennio il paese balcanico gode, grazie soprattutto agli aiuti occidentali ed a quelli che dal 1955 (anno della riconciliazione con la Russia di Kruscev) riotterrà dall’URSS, di un periodo di benessere, il cui sintomo, nella parole di tutti gli jugoslavi di una certa età, era rappresentato dal fatto che essi potevano permettersi di recarsi a Trieste, e quindi in un paese occidentale, a fare acquisti. Si trattava, sia detto per inciso, di un benessere illusorio: venuti meno, dopo la fine del comunismo nell’est, gli aiuti occidentali e russi, e fallito l’esperimento dell’autogestione, il regime crollerà prima economicamente e poi politicamente.
Ed il crollo della Jugoslavia trova il suo incipit, ancora una volta, nel giorno di San Vito, il 28 giugno 1989, nel dopo Tito (scomparso nel 1980 dopo essere stato al potere, incontrastato, per 35 anni) e ci troviamo ancora una volta a Kosovo Polje, dove il seicentesimo anniversario della battaglia viene celebrato da un discorso di Slobodan Milosevic, all’ epoca presidente della repubblica federata serba. Il contesto politico in cui venne tenuto il discorso è rovente: la regione del Kosovo, provincia autonoma all’interno della repubblica serba, da qualche anno ha perso l’autonomia che le aveva concesso Tito, di qui una serie di violenti scontri tra i kosovari, etnia maggioritaria della regione, e la minoranza serba.
Nel suo discorso Milosevic esalta i valori del popolo serbo: la maggioranza dei commentatori ha letto nelle parole del vozd il segno della volontà di dominio dell’etnia serba sulle altre componenti etniche della Jugoslavia ed infatti di lì a qualche anno inizieranno le cosiddette guerre jugoslave (Slovenia 1990, Croazia 1991-1992, Bosnia 1992-1995, Kosovo 1999) che condurranno alla disgregazione dello Stato.
Per due volte, quindi il Vidov dan, e per due volte a Kosovo Polje, segna un momento drammatico nella storia serba: nel 1389 segna la fine dell’indipendenza del popolo serbo, che durerà per circa 500 anni, e nel 1989 segna l’inizio della disgregazione della Jugoslavia, di cui i serbi costituivano la componente etnica più numerosa. Ma anche la parabola di Milosevic, iniziata, lo si è visto, il giorno di San Vito, quello del 1989, si spegne esattamente 11 anni dopo, il 28 giugno 2001, quando il dittatore viene estradato in Olanda, per essere giudicato dal Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia .
Con l’estradizione di Milosevic, con l’allontanamento del principale protagonista del dramma che ha ferito profondamente i serbi e gli altri popoli dell’ex Jugoslavia, si apre, sia pure a fatica, un periodo di pace e di rinnovamento nella regione: la Serbia arresta e consegna importanti personaggi al Tribunale Penale, le elezioni si svolgono sempre in modo regolare e democratico, ai cittadini serbi viene concesso di viaggiare all’estero, le sanzioni economiche vengono abolite e Bruxelles conferisce al Paese lo status di candidato all’ ingresso nell’Unione Europea.
Ecco quindi che, finalmente, il Vidon dan, dopo aver segnato per tante volte i momenti tragici della storia serba, finalmente, nel 2001 inaugura una fase positiva e di riscatto per lo sfortunato popolo balcanico.
[*] Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, particolarmente sotto il profilo giuridico, conoscitore della realtà serba e di quella balcanica più in generale, anche per aver partecipato a diverse missioni di carattere politico patrocinate da istituzioni internazionali.