domenica 2 dicembre 2012

IL RICONOSCIMENTO PALESTINESE ALL'ONU E' COMINCIATO DAL KOSOVO

Foto AP / Mohammed Ballas
Il 29 novembre l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a larghissima maggioranza l'ammissione dell'Autorità nazionale palestinese come “non membro osservatore” al Palazzo di vetro. Credo sia stata una decisione giusta: certo imperfetta e criticabile, come ogni cosa, ma opportuna e ormai inevitabile. Sono convinto che Israele abbia il diritto di difendere la propria esistenza e la propria sovranità, concetti che forse nessuno metterebbe in discussione se si parlasse, che so, del Venezuela, del Togo o della Turchia, ma che nel caso dello Stato ebraico divengono sempre oggetto di sottili distinguo, magari da parte di chi poi non appare particolarmente scandalizzato dalle dichiarazioni di qualche capo di Stato che ne invoca la distruzione o propone la deportazione dei suoi abitanti in Alaska. Altro è, naturalmente, il giudizio che di volta in volta si dà sull'operato del governo di Tel Aviv.

Credo che quanto è successo al Palazzo di vetro sia giusto e opportuno e che chi da noi ha criticato il voto dell'Assemblea generale non capisca che il voto del 29 novembre offre delle opportunità e toglie qualche alibi. Un alibi da smascherare è certamente quello degli oltranzisti arabi e dei loro amici che lamentavano, strumentalmente, la mancanza di riconoscimento internazionale per il popolo palestinese. Un paravento dietro al quale sempre meno si possono nascondere anche i governanti palestinesi. Un'opportunità è quella di poter riprendere le trattative alla ricerca di un accordo di pace (che notoriamente si fa con i nemici, cioè quelli che ti hanno sparato addosso fino ad un momento prima). Per questo credo che sbagli chi sostiene, come per esempio Fiamma Nirenstein sul Giornale di ieri che Israele se ne dovrebbe uscire dell'Onu. Per andare dove? Israele è abituata all'isolamento e saprà resistere, ha scritto, ma è di questo che hanno bisogno gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo? Segnalo, a questo proposito, l'interessante intervento di ieri su Europa di Matteo Mecacci (deputato radicale, presidente del Comitato Diritti umani dell'Osce).

Non voglio insegnare niente a nessuno, ma Nirenstein e gli altri che in questi giorni hanno scritto cose simili, potrebbero ricordare, come ha fatto il grande direttore d'orchestra Daniel Barenboim, in un intervento sul Corriere della Sera, che (coincidenze della storia) il 29 novembre del 1947, proprio l'Onu, con il “Piano di partizione della Palestina”, stabilì la divisione del territorio in modo che arabi ed ebrei potessero convivere in due Stati. La decisione fu accolta con gioia dagli ebrei e respinta dagli arabi che diedero il via all'interminabile serie di conflitti che ancora non si è conclusa. Il voto del 29 novembre 2012 all'Onu è un'opportunità per la pace: non so se l'ultima, ma certo sarebbe un errore lasciarla cadere. Il governo israeliano può pure pensare di isolarsi illudendosi che il Paese possa bastare a sé stesso, ma, a mio modesto avviso, farebbe meglio a cogliere il momento e, invece di costruire nuovi insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania (con quale legittimità?), offrire di riprendere la trattativa isolando e smascherando chi non propone altro che la distruzione dello Stato ebraico.

Il riconoscimento dell'Anp all'Onu, però, non è una questione che possa essere circoscritta all'ambito mediorientale, ma finirà per avere conseguenze anche in altre questioni molto delicate e complesse: per esempio in quella dei curdi. Sempre ieri, Mimmo Candito su La Stampa faceva notare che “se sono in 5 milioni i palestinesi che hanno ottenuto un primo riconoscimento delle loro attese, i curdi – che sono 25 milioni – trovano nel voto dell'Onu ragioni ancora più forti per rinnovare la loro rivendicazione d'una patria che sia anche uno Stato”. La questione curda, ricordava Candito, investe frontiere, vicende nazionali e governi diversi dato che i curdi, infatti, sono divisi tra Turchia, Siria, Iran e Iraq, ma il problema è che “frantumare le storie politiche di questi paesi per ricompattarle in un unico nuovo spazio omogeneo che dovrebbe avere il nome appunto di Kurdistan sarebbe per la storia di quell'area più distruttivo di una gigantesca bomba atomica […] un sisma che allargherebbe la sua sconvolgente onda d'urto in ogni angolo del pianeta”.

L'indubbio successo colto dai palestinesi alle Nazioni Unite è dunque destinato, secondo Candito, ad avere delle ricadute “sull'intera cosmogonia dei nazionalismi riaccesi nella crisi identitaria provocata dalle fratture della mondializzazione”, dalla questione degli armeni al Tibet, dal conflitto in Kashmir ai Paesi baschi, fino all'indipendentismo catalano. Citando la “geostrategia delle emozioni” di Moisi seguita allo “scontro delle civiltà” di Huntigton, Candito ricorda che i processi della storia subiscono spesso spinte che provocano conseguenze imprevedibili. Seguendo questo ragionamento, la mia personale impressione è che il punto di inizio possa esser ricercato in Kosovo e nell'indipendenza dichiarata dai kosovari albanesi, sostenuti da Usa e da parte dell'Ue, poi legittimata dalla Corte di giustizia dell'Onu. Ci hanno spiegato che quello dell'indipendenza kosovara era un caso “sui generis”, ma era evidente che non poteva essere così. Non ha provocato la serie di disastri geopolitici a catena che molti autorevoli analisti avevano preconizzato con un po' troppa approssimazione, ma ha messo in moto trasformazioni le cui conseguenze non sono state previste. E non avrebbero potuto esserlo, perché “i processi della storia non sono segnati solo dalla razionalità”. Sarà bene che non ce ne dimentichiamo.


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