mercoledì 28 marzo 2012

CHI SI RICORDA DELLA "KATER I RADES"?

Il relitto della Kater I Rades
La Kater I Rades era una vecchia motovedetta albanese in disuso, una carretta del mare. Quindici anni fa, il 28 marzo 1997, la corvetta Sibilla della Marina militare italiana la fece affondare provocando la morte di più di un centinaio di persone, soprattutto donne e bambini. Era un venerdì santo e con questo nome, la “strage del venerdì santo”, la tragedia viene anche ricordata (da chi se ne ricorda). Nel 1997 l’Albania attraversava una crisi difficilissima: il crack delle società finanziarie piramidali aveva bruciato in pochi mesi i risparmi di moltissimi albanesi, lasciando sul lastrico migliaia di famiglie illuse dal miraggio di arricchirsi molto ed in poco tempo. La situazione politica interna precipitò fino al rischio di una guerra civile, ci furono anche scontri armati e alcuni morti. Molti albanesi decisero di lasciare il Paese per cercare miglior fortuna all’estero e l’Italia divenne la meta privilegiata di questo esodo. Le autorità italiane avevano deciso, in quell’anno, di far pattugliare l’Adriatico alle unità della nostra marina militare per fermare l’immigrazione clandestina e operare una sorta di “blocco navale” che in molti giudicarono in contrasto con il diritto internazionale. Il 25 marzo del ’97 Roma e Tirana stipularono un accordo che autorizzava il nostro Paese, in cambio degli aiuti promessi al governo albanese, a fermare gli emigranti clandestini anche in acque territoriali albanesi. L’accordo sarebbe dovuto entrare in vigore il 3 aprile.

La Kater I Rades salpò alle tre del pomeriggio del 28 marzo 1997 dal porto di Valona: su una imbarcazione costruita 35 anni prima per un equipaggio di nove marinai si stiparono più o meno in centoquaranta persone, tra cui intere famiglie con molte donne e molti bambini. Poco dopo aver doppiato il capo dell’isola Karaburun, la Kater fu intercettata dalla fregata italiana Zeffiro che le intimò di invertire la rotta e tornare verso la costa albanese. La Kater però ignorò l'ordine e proseguì verso la navigazione verso la Puglia. Verso le 17.30 la Zeffiro fu rilevata da un’altra unità italiana, più piccola e più adatta a manovre di intercettazione, la corvetta Sibilla. La tragedia avvenne attorno alle 19. Come sempre in questi casi le testimonianze divergono. Secondo alcuni sopravvissuti la Sibilla, dopo essersi molto avvicinata e dopo aver intimato ancora una volta senza successo agli occupanti di tornare indietro, avrebbe puntato direttamente sulla Kater I Rades fino a speronarla. Secondo la Marina militare italiana invece la collisione sarebbe stata provocata da alcune virate sconsiderate compiute dal comandante della Kater. Le testimonianze dei sopravvissuti indicano che la motovedetta albanese sarebbe stata colpita due volte. Al primo urto diverse persone furono sbalzate fuoribordo, mentre al secondo la Kater si rovesciò imprigionando la maggior parte degli occupanti sottocoperta. L’affondamento avvenne alle 19.03.

Secondo le ricostruzioni che è possibile reperire facendo una ricerca su Internet, alle 17.15 del 28 marzo 1997 la Zeffiro avvistò la Kater informando l’ammiraglio Alfeo Battelli, all’epoca comandante del Maridipart di Taranto (il centro che coordina le attività di pattugliamento in Adriatico) e l’ammiraglio Umberto Guarnieri, capo di Stato maggiore della Marina e comandante in capo del Cicnav, la sala operazioni nazionale di Roma. Più tardi, come abbiamo detto, nell’operazione subentrò la corvetta Sibilla. Il capitano Angelo Luca Fusco, in servizio all’ufficio operativo del Maridipart di Taranto, tenne i contatti tra le navi militari in mare e i comandi. Fusco trasmise le disposizioni dei comandi che ordinavano ai comandanti della Zeffiro e della Sibilla di fermare la Kater. La Zeffiro riferì quindi di avere iniziato “un’operazione di harrassment sul bersaglio albanese” vale a dire una decisa azione di disturbo. Pochi minuti dopo alla Zeffiro arrivò l’ordine di compiere un’azione più decisa, “anche fino a toccare il bersaglio”. Nella sua deposizione il capitano Fusco parlò di una riunione per concordare il comportamento da tenere nei confronti dell’inchiesta della magistratura, tenutasi nell’ufficio dell’ammiraglio Battelli sei giorni dopo la tragedia, il 3 aprile, e alla quale parteciparono tutti i militari che nel pomeriggio del 28 marzo si trovavano nella sala comando. Si tratta di una circostanza quanto meno interessante ma secondo il pm mancava la prova certa della connessione tra il Cicnav e la Sibilla, non c’erano cioè elementi sufficienti per accusare l’ammiraglio Guarnieri.

Va altresì detto che l’ammiraglio Alfeo Battelli ordinò di svolgere un’inchiesta per accertare le cause del disastro. L’indagine, che fu affidata all’ammiraglio Coviello, concluse che la collisione tra la Sibilla e la Kater I Rades aveva avuto una funzione di “concausa” dell’affondamento e individuò la vera causa nell’improvviso spostamento dei pesi a bordo, cioè dei movimenti degli emigranti albanesi che si trovavano sulla vecchia motovedetta. Il ministero della Difesa, all'epoca guidato da Beniamino Andreatta, in un comunicato diede una versione dei fatti sostanzialmente analoga a quella delle autorità militari: la Marina aveva avvistato la Kater già all’uscita dal porto di Valona, nonostante l’alt l’imbarcazione albanese aveva proseguito sulla sua rotta ed era così entrata in azione la Sibilla che, dopo un inseguimento, aveva costretto il comandante albanese ad una serie di manovre azzardate che avevano portato alla collisione che aveva provocato l’affondamento della Kater. Una versione che coincide con quella del comandante della Sibilla, Fabrizio Laudadio, il quale sostenne di essersi portato due volte a portata di megafono, a una distanza fra i dieci e i 25 metri, a dritta della Kater, per intimare il dietrofront. L’incidente si sarebbe verificato nel secondo tentativo a causa di una manovra sconsiderata della motovedetta albanese che virando a dritta si venne a trovare davanti alla prua dell’unità italiana. Entrambe le versioni, quella della Marina e quella del Governo, contrastano però con quella fornita dai superstiti del naufragio.

Nell’aprile del 1998 al termine delle indagini il sostituto procuratore di Brindisi, Leonardo Leone de Castris, chiese e ottenne l’archiviazione dell’inchiesta “nella convinzione di aver ricercato la verità in ordine alle cause di questa tristissima vicenda, in ogni angolo e in ogni documento esaminato e in ogni testimonianza vagliata, non rimane che arrestarsi, così come il ruolo impone, davanti a un’arida valutazione di inidoneità degli elementi raccolti all’esercizio dell’azione penale”. Il magistrato dichiarò cioè di non essere stato messo in grado “di valutare l’incidenza degli ordini impartiti ai comandanti delle due navi impegnate (Sibilla e Zeffiro) dai comandi a terra”, parlò di manomissione di prove fotografiche e del fatto che “il filmato girato a bordo della fregata Zeffiro si interrompe inspiegabilmente, con ciò destando non pochi sospetti, proprio nel momento in cui è inquadrata la prua della nave Sibilla che si avvicina minacciosamente alla nave albanese”. De Castris scrisse che le registrazioni radio tra le navi impegnate nell’operazione e tra queste e i comandi di terra nel lasso di tempo in cui avvenne la collisione e poi l’affondamento della Kater I Rades, “sono scarsamente intelligibili o si riferiscono a momenti temporalmente diversi da quello utile” e inoltre che non sarebbero state rese disponibili le comunicazioni su frequenza criptata usata negli ultimi momenti prima del naufragio. Sono affermazioni gravi che lasciano intendere che la responsabilità dell’accaduto non poteva essere addebitata solo ai comandanti delle due imbarcazioni e che da parte delle autorità militari italiane sarebbe stato opposto un “muro di gomma” per impedire la ricostruzione esatta di cosa avvenne quel venerdì santo del 1997.

A Brindisi nessun esponente del Governo rese omaggio alle vittime: non ci andò l'allora presidente del Consiglio Romano Prodi, non ci andò il ministro della Difesa Andreatta, non il ministro degli Esteri Lamberto Dini e nemmeno il ministro dell’Interno, Giorgio Napolitano. In compenso arrivò Silvio Berlusconi che versò lacrime di circostanza ad uso delle telecamere e si offrì di ospitare a sue spese tutti i superstiti che però declinarono l’offerta e chiesero piuttosto che si pensasse al recupero dei morti. Nessun rappresentante italiano presenziò nemmeno ai funerali in Albania, per i quali, peraltro, si dovettero attendere sei mesi dato che solo in ottobre fu concesso il via libera al recupero della Kater che giaceva su un fondale a 800 metri di profondità. Il relitto mostra in effetti i segni di due colpi sulla fiancata, come dichiarato dai superstiti. La perizia ordinata dal Tribunale e di cui fu incaricato l’ingegnere Dell’Anna confermò la collisione tra le due imbarcazioni ma ne attribuì la causa alla “interazione idrodinamica” che si produrrebbe in certe circostanze di mare e di vento, tra una nave di grandi dimensioni e una nave molto più piccola e che renderebbe quest’ultima ingovernabile.

Sono passati quindici anni dal naufragio e non si può certo dire che le vittime e i loro familiari abbiano avuto giustizia. Io non credo che l’affondamento della Kater I Rades possa essere attribuito ad una decisione premeditata: sarebbe un vero e proprio atto di pirateria. Non posso credere che sia stato ordinato ad una nostra nave di affondare una carretta piena di disperati e che l’ordine sia stato eseguito. Penso piuttosto che si sia trattato dell’esito finale, tragico e sicuramente evitabile, di una catena di eventi legata all'imperizia di alcuni, al clima politico di quei giorni e all’uso che veniva fatto della questione immigrazione. Sta di fatto che la collisione ci fu, un’imbarcazione affondò, un centinaio di persone morirono annegate e le loro famiglie e i sopravvissuti fino ad oggi non hanno avuto giustizia. Pensare che nessuno abbia voluto deliberatamente ammazzare un centinaio di migranti albanesi non significa non avanzare qualche dubbio lecito su quello che è successo e soprattutto su come ce lo è stato raccontato. In questa vicenda non mancano i silenzi, le ambiguità, i ritardi che caratterizzano tanti altri eventi oscuri della storia italiana. In attesa che chi di dovere cancelli finalmente ombre e sospetti, sarebbe già qualcosa se qualche autorità italiana si ricordasse ogni tanto di quelle donne, di quegli uomini e di quei bambini che cercavano solo un’esistenza un po’ migliore a qualche decina di chilometri da casa loro e invece sono finiti sul fondo dell’Adriatico insieme a tutte le loro speranze. [RS]

Questo post è un adattamento con alcune modifiche di un testo "Chi si ricorda della Kater I Rades", pubblicato il 4 aprile 2007 in occasione del decennale della "strage del venerdì santo", quando questo blog era ospitato sulla piattaforma de Il Cannocchiale.
Clicca qui per vedere il testo originario.

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