mercoledì 11 settembre 2013

L'11 SETTEMBRE DI SIMON TECCO

Simon Tecco (Foto Pop Tv)
L'11 settembre di quarant’anni fa la democrazia in Cile fu stroncata da un golpe militare. Dopo aver eliminato il presidente eletto Salvador Allende e azzerato le istituzioni legittime, i militari misero in atto una repressione durissima contro gli oppositori politici. Molti furono torturati, uccisi, i "desaparecidos" furono migliaia. Tanti si rifugiarono nelle ambasciate dei Paesi democratici per cercare di salvarsi lasciando il Paese. Tra di essi c'era anche, Simon Tecco, che all’epoca dei fatti era un giovanissimo dirigente locale del MAPU, un partito di orientamento marxista che faceva parte del fronte di "Unidad popular" che aveva sostenuto il presidente Allende. Tecco è stato l’unico rifugiato cileno residente in Slovenia, dove è diventato giornalista del Dnevnik . Stefano Lusa di Radio Capodistria ha raccolto la sua testimonianza di quell’11 settembre 1973.

Simon Tecco racconta il suo 11 settembre
di Stefano Lusa per Radio Capodistria

“Quell’11 settembre la mia vita cambiò radicalmente. Mi alzai, lasciai la mia casa e non vi feci mai più ritorno. Finì, così, la mia vita in quella società. Cominciai un’avventura, in parte tragica della mia vita, per la perdita tanti amici e conoscenti. Sono andato per il mondo e ho lasciato il Cile. Ci sono poi tornato solo come turista tanto tempo dopo, nel 2000.
Inizialmente nessuno pensava che la repressione potesse essere così dura, ma presto ci cominciammo a chiedere come fuggire dal paese. L’imperativo era scappare e così abbiamo fatto. 
Ho avuto la fortuna di poter lasciare il Cile il 30 dicembre 1973. Mi ero rifugiato nell’ambasciata svedese, poi grazie all’ambasciata italiana, sono finito a Roma. Uscire dal Cile, comunque, non fu facile, ma alla fine arrivò il giorno della partenza. 
Il funzionario d’ambasciata mi portò alla macchina tenendomi per il braccio, se mi avesse mollato i militari avrebbero potuto arrestarmi. Fu così fino al momento dell’imbarco. A quel punto venni lasicato al mio destino e, insieme agli altri esuli politici, dovetti percorrere l’ultimo tratto per arrivare all’aereo. Passammo a piedi tra una colonna di militari, dove un ufficiale - e questo lo ricordano tutti quelli che abbandonarono così il Cile - continuava ad urlare che avrebbe aperto il fuoco contro chiunque avesse fatto un gesto o si fosse girato. In quel moneto non sapevamo se saremmo riusciti a percorrere quei pochi metri che ci separavano dalla libertà. Alla fine salimmo sull’aereo, ma la paura non era finita. Il velivolo doveva fare scalo in Argentina.
All’aeroporto di Buenos Aires la polizia fece scendere noi rifugiati e ci rinchiuse per un ora in uno stanziano. Non sapevamo che fine avremmo fatto, la paura era di salire su un aereo che ci avrebbe riportato in Cile, ma alla fine ma ci ritrovammo su quello in partenza per l’Europa. Così, io, arrivai a Roma e l’accoglienza fu straordinaria.
Come gli altri profughi arrivai con quello che avevo addosso. Penso fossero ancora i pantaloni e la camicia con cui uscii di casa l’11 settembre. Fu il mio primo giorno di libertà, dopo mesi passati all’interno di una ambasciata.
Da quel momento cominciò un'altra pagina della mia vita, che mi portò nell’allora Jugoslavia, dove venni a studiare, grazie ad una borsa di studio.
Arrivai a Lubiana, mi feci una famiglia, mi fu vietato di tornare in Cile sino al 1987, poi, il divieto fu revocato, ma a quel tempo non era ancora sicuro tornare, qualcuno lo fece e sparì. La repressione era ancora fortissima. Tornai nel 2000. Trovai un paese completamente cambiato, molto diverso, modernizzato, ma in cui continuavano ad esistere due società: una ricca occidentalizzata, per forme e ritmi di vita, ed un'altra che lavora per mantenerla. Il Cile ora è ancora una società che sente tutto il peso delle politiche neoliberiste e che oggi, soprattutto i giovani, cercano di sovvertire, per cercare di tornare ad una democrazia ed ad uno stato normale”.

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