domenica 3 marzo 2013

VIAGGIO NELLA "CITTA' BIANCA" - 3a puntata

Continua il viaggio di Riccardo De Mutiis nella storia recente di Belgrado, dall’epoca della Jugoslavia del Maresciallo Tito ai giorni nostri: un viaggio alla scoperta della “città bianca” nelle cui strade vibra il “srpsko srce”, il cuore serbo. In questa terza parte continua il racconto della capitale serba durante il periodo di Milosevic, sotto i bombardamenti della Nato, nei giorni duri del dopoguerra e fino alla caduta del "vodz".

Secondo Le Corbusier “di tutte le capitali situate in una posizione splendida, Belgrado è la più brutta”. L’affermazione dell’architetto svizzero è troppo drastica, ma ha un fondo di verità. In effetti la posizione geografica della capitale serba è invidiabile: il nucleo originario della città venne realizzato su una collina ai cui piedi la Sava affluisce nel Danubio e da cui, in particolare dalla fortezza di Kalemegdan, si gode il panorama di una pianura che si estende a perdita d’occhio. Non sono altrettanto apprezzabili, purtroppo, né l impianto urbanistico, né lo stile architettonico della città. Infatti alla impostazione urbanistica degli Ottomani si sovrappose quella dei Karadjordjevic ed a questa quella di stampo comunista del periodo titino: alla disorganicità derivante dalla sovrapposizione di tali idee urbanistiche profondamente diverse l’una dall'altra si aggiunsero, nel momento in cui la città si estese oltre la Sava ed il Danubio, i problemi di una rete viaria che si intasava spesso e volentieri in prossimità dei pochi ponti che collegavano il centro con Zemun, Novi Beograd e le altre nuove zone costruite oltre i fiumi. Ma se la struttura urbanistica di Belgrado non è entusiasmante, è altrettanto vero che il viaggiatore che arriva nella capitale balcanica è colpito dall’atmosfera tutta particolare che vi si vive: nelle strade di Belgrado vibra l’anima del popolo serbo, batte il “srpsko srce”, il cuore serbo. La città ha sempre vissuto con grande partecipazione le vicende nazionali, senza mai appiattirsi sui mantra dettati dal potere costituito, ma tenendo invece spesso un atteggiamento critico e disincantato nei confronti dei vari regimi che dal dopoguerra ad oggi si sono avvicendati alla guida del paese. In questo scritto il rapporto tra la città di Belgrado e la politica prima jugoslava e poi serba viene analizzato con riferimento diversi periodi storici, dal dopoguerra fino alla morte del Maresciallo Tito, dal periodo del regime di Slobodan Milosevic alla sua caduta, fino ai nostri giorni.
Riccardo De Mutiis [*]

La Belgrado di Milosevic / 2
Gli anni a cavallo tra la fine del passato millennio e l’inizio di quello attuale sono i più tragici vissuti dalla Serbia e da Belgrado: in questi anni la città vive il suo momento più tragico, appare sospesa in una sorta di microcosmo del tutto indipendente e svincolato dal contesto esterno, in cui le regole di natura legale, sociale o morale sembrano non avere alcun valore. All’inizio del periodo in questione, siamo nel 1998, il regime comincia a mostrare le prime crepe: si è visto che i belgradesi alle elezioni comunali hanno sfiduciato il vozd [duce, n.d.r.], criticato anche, adesso, dalla stampa della capitale. Ed un personaggio popolarissimo come il cantautore Djordje Balasevic, da sempre impegnato politicamente (uno dei suoi hits è Tri put sam video Tita, cioè “Ho visto tre volte Tito”), esprime pubblicamente il suo dissenso nei confronti di Milosevic. Slobo conserva il potere, ma è in crescente difficoltà, anche a causa della crisi economica e della situazione di illegalità, percepibili soprattutto a Belgrado. La svalutazione del dinaro, a cui non è estranea l’emissione illegale di moneta ordinata in diversi casi dallo stesso Milosevic, ha raggiunto livelli da repubblica di Weimar. La capitale, poi, in particolare risente dell'arrivo dei profughi serbi provenienti dalle Kraijne croate e dalla Bosnia: costoro non trovano né lavoro, né alloggi disponibili e creano delle baraccopoli, anche nelle zone centrali. 

Il fallimento dell’economia jugoslava genera una folla di disoccupati che affolla le arterie centrali in cerca di un impiego, di una abitazione, di un pasto. Ma la misura del degrado in cui versa la capitale è data soprattutto dalla situazione dell’ordine pubblico: la legalità, nella Belgrado di fine millennio, è una parola senza significato. I personaggi della malavita locale si comportano come padroni della città, sfrecciano per le strade del centro su Suv di colore scuro e con i vetri oscurati ed hanno i loro santuari: il famoso, Zeljko Raznatovic, alias Arkan, viaggia su un Pajero nero, poi abbandonato per una Chevrolet blu marine, gioca a baccarat al casino dello Slavija, beve, è astemio, succo di pompelmo all’hotel Intercontinental o allo Hyatt e di notte è rintracciabile in centro, da Amadeus, oppure all'hotel Jugoslavija. Un giornalista che conosce molto bene Belgrado, Marko Lopusina, dice che in questi anni la città bianca “è come la Chicago degli anni '20 e '30, come la Berlino della crisi economica degli anni '30, come la Casablanca degli intrighi spionistici della seconda guerra mondiale e come il Vietnam degli anni 60”. Come si è arrivati a tanto? Perché il crimine impera? Perché lo Stato abdica ad uno dei suoi compiti fondamentali, quello di garantire il rispetto della legge e la sicurezza dei cittadini? 

La risposta è che il sistema è allo sfascio, le istituzioni che dovrebbero intervenire non lo fanno, perché non vogliono o perché non possono. Il controllo della polizia è scarso: per un poliziotto capacissimo ed onesto come il capo della sezione di Belgrado, Marko Nicovic, l’unico che a Belgrado riesce ad arrestare Arkan, ci sono molti funzionari che si accordano con i criminali: non è un caso che proprio Arkan verrà giustiziato da un poliziotto colluso con la malavita belgradese, Dobrosav Gavric. Il sistema giudiziario è del tutto inefficace, anche perché lo stipendio dei giudici, che non arriva ai 40 dollari mensili, non funziona sicuramente da incentivo. Ma le responsabilità della drammatica situazione della capitale è anche delle istituzioni internazionali: la Jugoslavia viene espulsa dall’Interpol e Belgrado diventa una zona franca in cui, proprio perché non vi trovano esecuzione i mandati di cattura emessi da altri paesi, si trasferiscono criminali provenienti da diversi paesi europei. E’ questo il contesto in cui inizia, nel marzo 1999, la guerra del Kosovo, del tutto diversa da quelle precedenti, perché questa volta la capitale vivrà l’evento bellico in prima persona per effetto dei bombardamenti a cui verrà sottoposta. 

La reazione di Belgrado ai bombardamenti Nato è tutta particolare ed è indotta dalla propaganda di Milosevic, che, per una volta, riesce a portare la città dalla parte del regime. Slobo crea un clima di unione sacra, chiama tutti i serbi a difendere la patria in pericolo: lo slogan del momento è Samo sloga srbina spavala, ovvero “Solo l’unità può salvare i serbi”. Una delle prime decisioni è quella di chiudere la principale voce di dissenso, la stazione radiotelevisiva B92, a cui segue l’espulsione di alcuni giornalisti occidentali ed il sequestro degli strumenti delle televisioni straniere, per impedire loro di inviare immagini via satellite all’estero non controllate dalle autorità locali e costringerli quindi a servirsi delle sole installazioni tecniche della televisione jugoslava, che in tal modo riesce ad esercitare una specie di censura preventiva (l’episodio è sottolineato da Joze Pirievec nel suo “Le guerre jugoslave”). La stampa, ma soprattutto la tv pubblica, insiste sulla demonizzazione dell’avversario, prefigura una congiura internazionale finalizzata alla distruzione dell’etnia serba ed in tal modo esalta la tendenza del popolo a considerarsi predestinato alla guerra ed ad essere santificato nella sconfitta. Il richiamo all’epopea medievale, al mito di Kosovo Polje e quindi del popolo serbo che si è sacrificato per salvare la cristianità dall’invasione musulmana, è martellante. E’ un messaggio che parla alla pancia più che al cervello, basato sull’emotività, che la colta borghesia belgradese non condivide, ma che non può neppure contestare, altrimenti verrebbe accusata di disfattismo, di dividere il paese in un momento in cui è in gioco la sua stessa sopravvivenza.

La manipolazione si rivela efficace nei confronti delle classi meno scolarizzate, in particolare colpisce i seljaci, quelli che si sono trasferiti nella capitale dalle zone rurali della profonda Serbia, sono legati ai miti del passato e non si sono mai amalgamati con la borghesia cittadina. Lo straniero che si trova a Belgrado nei giorni delle bombe assiste a scene che non riesce a comprendere: ricompaiono i simboli monarchici, abbondano i ritratti di Draza Mihajlovic, il capo dei cetnici giustiziato da Tito, la gente si riunisce intorno a fuochi e si dà a canti e balli antichi, si mobilita, insomma, nei confronti dell’aggressore. Il tutto organizzato da una regia che richiama incessantemente il passato per cementare il popolo contro il pericolo presente. La scena che forse rende in pieno il livello di manipolazione è quella che si vede al ponte Brankov, il più importante collegamento tra Novi Beograd ed il centro: la Nato ha comunicato in anticipo che bombarderà il ponte, su cui arrivano, formando una catena umana, centinaia di serbi che si appuntano sul petto un cartello a mo' di bersaglio, a sfidare le bombe occidentali. La guerra finisce nel giugno 1999 e riduce il paese e la sua capitale in ginocchio: sono state distrutte le strutture produttive, le vie di comunicazione, le fonti di approvvigionamento energetico.

La città, secondo Cristopher S. Stewart, il biografo di Arkan, in quel periodo assomiglia a Mordor, il nome che J.R.R. Tolkien dà alla sua depravata "terra d’ombra". Ed il caos è l’humus ideale per regolare una serie di conti che adesso hanno natura politica: nell’aprile 1999 viene assassinato il giornalista Slavko Curuvija, direttore del Dnevni Telegraf, da qualche tempo inviso al regime, nel gennaio 2000 viene ucciso Arkan, di cui erano noti i legami con il potere e nell’agosto dello stesso anno viene assassinato addirittura Ivan Stambolic, ex presidente della federazione serba e mentore di Milosevic. L’embargo decretato dalle istituzioni internazionali priva la popolazione dei generi di prima necessità: prospera di conseguenza il mercato nero, gestito ovviamente dalle organizzazioni criminali, che erano già attive nel settore del controllo del transito degli stupefacenti e della protezione. Benzina, sigarette, alcoolici ed auto rubate sono i generi più redditizi: un litro di benzina costa pochi centesimi di dollaro e viene rivenduto a 4 dollari, un pacchetto di Marlboro viene venduto a 30 dollari ed un litro di whisky anche a 100. Le bande di malavitosi si contendono il territorio: gli scontri a fuoco sono all’ordine del giorno, fa epoca quello tra due boss come Goran Vukovic e Ljuba Zemunac, in cui il secondo trova la morte.

Ma il fattore critico che porta finalmente alla caduta di Milosevic è quello economico: la disoccupazione dilaga ed i generi alimentari, visti i prezzi proibitivi della borsa nera, sono inaccessibili per la maggior parte della popolazione e di fronte alla fame non c’è propaganda che tenga: anche la Chiesa ortodossa, tradizionale sostenitrice del regime spinge per un cambiamento ed alle elezioni parlamentari del settembre 2000, Milosevic, l’ex funzionario della Beobanka che ama le cravatte regimental, viene finalmente sconfitto e qualche mese dopo viene trasferito a L’Aja per rispondere alle accuse che gli vengono mosse dal Tribunale Penale Internazionale.
[3. continua]
Belgrado, 5 ottobre 2000: la rivolta popolare pone fine al regime di Milosevic

[*] Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi pezzi: per ritrovarli clicca qui.   


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