martedì 15 marzo 2011

UN GIORNO CON JOVAN DIVJAK

Jovan Divjak: Siamo andati a trovarlo a Vienna
di Andrea Rizza

Il testo che segue è tratto dal sito della Fondazione Alexander Langer. Ringrazio Edi Rabini per la segnalazione.

Domenica siamo andati a trovare Divjak a Vienna e mi aveva chiesto di fargli avere una raccolta stampa di quello che era uscito in Italia sul suo arresto ..oltre al bellissimo pezzo di Rumiz (che a Jovan è piaciuto molto) gli ho fatto avere l'appello che è stato fatto partire da Trieste (con tutta la lista dei firmatari) e vi ringrazia di cuore per la solidarietà e l'amicizia dimostratagli (si è commosso a vedere la lunga lista dei firmatari).
Abbiamo registrato una breve video-intervista nella quale si rivolge agli amici italiani ringraziandoli ..il tempo di montarla e di sottotitolarla e la faremo girare.
Per il resto ci tiene a farvi sapere che sta bene ..
Io l'ho trovato infatti molto sereno ..nessun rancore per quello che sta vivendo.
Si sente molto sicuro per quanto riguarda la qualità dell'assistenza legale che gli hanno procurato ..attualmente è alloggiato presso la residenza privata dell'ambasciatore bosniaco .. Non è sottoposto ad un regime di arresti domiciliari veri e propri ..può uscire e ricevere visite con la sola accortezza (su indicazione del legale) di stare attento a parlare del "caso" ..
Riguardo al caso stesso ci dice che secondo lui si è trattato di un errore della polizia di frontiera austriaca in quanto qualche mese fa era stato fermato a Berlino e la polizia germanica ha ritenuto che non ci fossero gli estremi per l'arresto ..per questo pensa che gli austriaci abbiano concesso l'uscita su cauzione così presto e un regime di domiciliari così blando ..
A proposito ..la cauzione è stata pagata dal Cantone di Sarajevo e ci ha detto che in Bosna è venuto fuori un mezzo casino ..il buon Dodik, oltre a fare pressioni sull'ambasciatore accusandolo di spendere soldi pubblici per un "criminale di guerra", ha sollevato la stessa obiezione a proposito del pagamento della cauzione ..
Ci dice che pensa che si tratti di una precisa volontà politica della Serbia ..nè lui, nè gli austriaci, nè il suo legale hanno ancora ricevuto i capi d'imputazione dal tribunale della Serbia ..ci dice, quasi sottovoce, che non gli perdonano di aver lasciato la JNA per la ARBiH e che la Serbia cerca a tutti costi di far incriminare qualche personaggio bosniaco di rilievo, simbolico, con lo scopo di "riequilibrare" le responsabilità serbe,croate e bosniache per le guerre jugoslave 91-95 ..ci avevano provato con Izetbegovic, ma la Del Ponte rispose picche ..
Adesso in Croatia c'è una grossa discussione politica riguardo all'ipotesi di incriminazione di Tudjman per l'operazione Oluja in Krajna di agosto 95 ..la Serbia ha già il suo bell'album di criminali di guerra e per quanto riguarda la Bosnia, l'unico che poteva essere simbolico, Naser Oric, se l'è cavata con una bacchettata sulle dita .. in più, circa una settimana prima che fermassero Divjak a Vienna, il tribunale bosniaco per i crimini di guerra (giustizia locale BiH), ha aperto il procedimento per il massacro di Kravica, che è il primo passo verso il genocidio di Srebrenica
Un pò deluso ci dice che non vede nessuna volontà politica di uscire dalla logica dei blocchi etnici che blocca il paese ..ci dice che Dodik sta facendo gli occhi dolci ai croati-bosniaci, sostenendo la delirante ipotesi di terza entità, la Herceg-Bosna, che in pratica legittimerebbe oltre ogni ipotesi di revisione di Dayton, l'esistenza di quell'aborto genocidiale che è la Republika Srpska ..
Prevede tempi simili a quelli di Ganic per ritornare a casa ..quatto mesi ..nel frattempo ha deciso che ha voglia di scrivere e usciamo per cercare una cartoleria aperta ..
[domenica 13 marzo -Andrea Rizza]


Un giorno a Vienna con Jovan Divjak
di Federico Zappini

Il testo che segue è tratto dal blog Pontidivista. Ringrazio Edi Rabini per la segnalazione.

E’ sempre piacevole incontrare Jovan Divjak. E’ strano però non incontrarlo nella “sua” Sarajevo, ma in una giornata di fine inverno a Vienna. Cielo grigio e un vento caldo ma fastidioso.
Partiamo da Bolzano alle sette e mezzo. Sei ore scarse di macchina ed eccoci in Austria.
Due ore di chiacchierata aprono altre mille parentesi, mille interrogativi. Divjak parla di tutto, davanti ad un tavolo pieno di giornali di mezza Europa che riportano la sua immagine e raccontano del suo arresto.
In così poco tempo non si può esaurire la voglia di approfondire la storia dell’assedio di Sarajevo, della guerra in ex-Jugoslavia e del futuro di un territorio tanto martoriato. Si parla ovviamente di Bosnia, ma si accenna anche al calcio italico ormai escluso dalla Champions League e a qualche canzone in italiano.

L’arresto. “All’areoporto di Vienna – dice – mi hanno fermato senza sapere chi fossi, senza dirmi il perchè e ancora oggi non so dire con certezza i capi d’imputazione che mi vengono contestati.” Dovrà attendere a Vienna le decisioni del tribunale. Nessuna vena complottista nel suo spiegare i fatti, solo una forte consapevolezza che sarebbe potuto succedere. Una consapevolezza che non lo ha tenuto fermo a Sarajevo negli ultimi anni.

Gli errori che portarono alla guerra. Il suo sguardo verso il passato non è nostalgico. La sua analisi impietosa. Nessuno sconto verso chi ha soffiato con forza su fuoco dello scontro etnico e lo ha portato alle peggiori conseguenze. Nessun problema nel parlare degli errori commessi da chi gli stava vicino, come il Presidente bosniaco Alija Itzetbegovic, che di fronte agli incontri diplomatici in corso prima del 1992 – certo di un forte appoggio dei paesi arabi – disse: “Meglio liberi che schiavi dei serbi”, accettando la guerra. Una scelta che costò alla Bosnia più di centomila vittime.

Le previsioni sbagliate. Un occhio al passato e uno al presente. Alla domanda su quale sia la situazione attuale della Bosnia Erzegovina Divjak ci risponde con un aneddoto. “All’inizio della guerra – racconta – mi chiesero quanto sarebbe durata. Dissi un mese, dopo un mese di guerra mi corressi dicendo quattro anni. Nel 1995 mi domandarono quanto tempo ci sarebbe voluto per dare corpo agli Accordi di Dayton. Risposi qualche anno, ora dico (ndr. con tristezza) molti anni ancora.” Allo stato attuale delle cose sembrano esserci ancora troppe incongruenze tra i contenuti degli accordi e i reali risultati raggiunti (le minoranze discriminate nelle tre parti della Bosnia Erzegovina, la non chiarezza nella dismissione degli armamenti, il sistema dell’istruzione che si basa ancora sulle divisioni etniche). Un contesto davvero poco promettente.

Quattro verità, nessuna volontà. Chiediamo come si possa imboccare il percorso di verità, giustizia e riconciliazione se rimangono vive tre verità (una croata, una serba e una bosniaca) per narrare una stessa storia. Divjak sorride e dice che le verità sono quattro, tenendo conto di quella della comunità internazionale, protagonista – non sempre eccellente – delle vicende balcaniche. E aggiunge che non c’è da parte di nessuno la volontà di affrontare una fase così complessa, mentre per tanti- soprattutto per i politici, di ogni parte – la condizione attuale va bene. In fin dei conti sono condivise da tanti le parole di una scrittrice bosniaca che Divjak riprende: “La merda in cui stiamo sicuramente puzza, ma almeno ci riscalda”. Il calore di un nazionalismo ancora dominante, alla base di tutte le divisioni, le ingiustizie e le sofferenze. Un vicolo cieco da cui non sembra esserci uscita.

Prima di andarcene – mentre camminiamo nel centro di Vienna – chiede di poter salire in bicicletta. Guarda l’obbiettivo della telecamera e ringrazia tutti quelli che da sempre gli stanno vicini e che negli ultimi giorni lo hanno aiutato e sostenuto. Poi sorridendo dice solennemente: “Tornerò pedalando verso Sarajevo.”
Buon viaggio, Jovan Divjak.
[domenica 13 marzo -Federico Zappini]

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