sabato 14 luglio 2012
venerdì 13 luglio 2012
ME NE VADO A EST
Italiane e italiani nell'Europa ex comunista
Migliaia di imprese italiane hanno deciso di portare in tutto o in parte la loro produzione nei Paesi che una volta si trovavano oltre quella che era stata definita la “cortina di ferro”, nella parte di Europa che si è aperta al mercato dopo il crollo del muro di Berlino. Accanto agli imprenditori ci sono altre migliaia di italiani e italiane che, per i motivi più diversi, hanno deciso di lasciare il Belpaese e andare a vivere in quello che una volta era l'Europa comunista. E' un fenomeno importante, ma troppo spesso sottovalutato. A questa lacuna pone rimedio un libro uscito a maggio di quest'anno che racconta proprio le storie degli italiani che ha deciso di investire il proprio lavoro e la propria vita in questa parte del nostro continente e le realtà che hanno trovato e con cui devono fare i conti.
Il libro si intitola Me ne vado a Est. Imprenditori e cittadini italiani nell’Europa ex comunista, è pubblicato da Infinito Edizioni ed è stato scritto a quattro mani da Matteo Ferrazzi, laureato in Economia politica, ricercatore presso Prometeia ed economista all'ufficio studi di Unicredit, giornalista, ha partecipato come speaker a decine di conferenze internazionali sulle tematiche dell'Est Europa e ha scritto numerosi rapporti, contributi a libri e articoli (vive tra Vienna, l'Est Europa e Milano potete contattarlo scrivendo a matteo.ferrazzi@fastwebnet.it), e da Matteo Tacconi, giornalista indipendente che scrive di Balcani, Europa centro-orientale e area russa, ha all'attivo due libri (Kosovo, la storia, la guerra, il futuro e C'era una volta il Muro, viaggio nell'Europa ex comunista, entrambi editi da Castelvecchi, ha curato Narconomics, inchiesta a più mani sul narcotraffico internazionale (Lantana) e che oltre alle diverse testate per cui scrive (Europa, Limes, East, Narcomafie, Popoli, Reset, Linkiesta e altre ancora) potete trovare sul suo blog www.radioeuropaunita.wordpress.com
La registrazione dell'intervista è disponibile sul sito di Radio Radicale, oppure è ascoltabile direttamente qui
Imprenditori e cittadini italiani nell’Europa ex comunista
Di Matteo Ferrazzi e Matteo Tacconi
Introduzione di Federico Ghizzoni
Postfazione di Angelo Tantazzi
Con il patrocinio di Confindustria Balcani e East
“Me ne vado a Est è un volume unico nel suo genere. In una qualunque libreria si trovano libri sulla Cina, sull’India, sul Brasile, sulla Russia. Mai, però, un testo come questo, che sapesse dare una visione complessiva sull’Europa dell’Est e che avesse il coraggio e la capacità di raccontare le storie di coloro che hanno varcato l’ex Cortina di ferro”. (Federico Ghizzoni, a.d. UniCredit)
Migliaia di imprenditori e cittadini italiani hanno lasciato il Belpaese per andare a vivere e a produrre a Est, nei Paesi dell’Europa orientale e balcanica un tempo oltrecortina. Me ne vado a Est racconta le storie di chi ce l’ha fatta e di chi non ce l’ha fatta – imprenditori e manager, calciatori e veline. E, soprattutto, spiega le economie e i sistemi politici di questi Paesi con passione e semplicità, mettendo in evidenza luci e ombre di un processo che sta cambiando l’industria italiana e tutte le nostre vite.
Me ne vado a est ci spiega che l’80 per cento delle imprese italiane attive nell’Europa dell’Est lavora principalmente in quattro Paesi: Romania, Polonia, Ungheria e Bulgaria. Le aziende italiane con più di 2,5 milioni di euro di fatturato annuo attive in questi quattro Paesi sono 4.000 e rappresentano un quinto della presenza imprenditoriale italiana nel mondo. Sommando le aziende italiane attive in Serbia, Bosnia, Macedonia e altri Paesi, le cifre sono ancora più sorprendenti. Ancora più straordinario è il fatto che il numero di imprese italiane presenti nell’Europa dell’Est è quattro volte superiore a quello delle aziende, sempre italiane, attive in Cina. Se tenessimo conto anche delle piccole e piccolissime imprese, la proporzione sarebbe ancora più accentuata. Idem per l’import-export: importiamo dall’Europa orientale tre volte e mezzo quello che importiamo dalla Cina; esportiamo a Est un flusso di merci otto volte superiore a quello diretto verso il Dragone.
Me ne vado a Est prova a colmare un grave vuoto di conoscenza e a tracciare un’analisi dei Paesi di destinazione e a spiegare le ragioni, le delusioni e le difficoltà che spingono a varcare la frontiera.
“Il testo di Ferrazzi e Tacconi non è un libro solo per economisti. Mette insieme elementi di storia, di cultura e di politica, aneddoti, vicende sociali. È una piccola enciclopedia, adatta ai curiosi come ai viaggiatori, che aiuterà a riscoprire l’Est, una regione che è ormai parte integrante del nostro panorama produttivo e culturale”. (Angelo Tantazzi)
Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414 www.infinitoedizioni.it
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918
La Cina è vicina, si diceva tanti
anni fa, guardando preoccupati o affascinati, secondo i punti di
vista, al Paese della rivoluzione maoista. Anche oggi la Cina è vicina, molto
vicina, diventata ormai la potenza politica ed economica con cui
facciamo i conti da qualche anno. La Cina è vicina all'Italia, anche
per gli scambi commerciali e gli interessi economici. Sui quali si
esercitano politici, analisti e commentatori. Ma l'oriente cinese non è il solo che
ci riguarda. C'è un altro Est, che è molto più vicino a noi
e che è anche più importante di quello cinese. Ci riferiamo all'est
europeo e per capire di cosa stiamo parlando basta dire che per ogni
imprenditore italiano che investe in Cina ve ne sono quattro che
fanno altrettanto e si spostano nell'Europa dell'Est.
Migliaia di imprese italiane hanno deciso di portare in tutto o in parte la loro produzione nei Paesi che una volta si trovavano oltre quella che era stata definita la “cortina di ferro”, nella parte di Europa che si è aperta al mercato dopo il crollo del muro di Berlino. Accanto agli imprenditori ci sono altre migliaia di italiani e italiane che, per i motivi più diversi, hanno deciso di lasciare il Belpaese e andare a vivere in quello che una volta era l'Europa comunista. E' un fenomeno importante, ma troppo spesso sottovalutato. A questa lacuna pone rimedio un libro uscito a maggio di quest'anno che racconta proprio le storie degli italiani che ha deciso di investire il proprio lavoro e la propria vita in questa parte del nostro continente e le realtà che hanno trovato e con cui devono fare i conti.
Il libro si intitola Me ne vado a Est. Imprenditori e cittadini italiani nell’Europa ex comunista, è pubblicato da Infinito Edizioni ed è stato scritto a quattro mani da Matteo Ferrazzi, laureato in Economia politica, ricercatore presso Prometeia ed economista all'ufficio studi di Unicredit, giornalista, ha partecipato come speaker a decine di conferenze internazionali sulle tematiche dell'Est Europa e ha scritto numerosi rapporti, contributi a libri e articoli (vive tra Vienna, l'Est Europa e Milano potete contattarlo scrivendo a matteo.ferrazzi@fastwebnet.it), e da Matteo Tacconi, giornalista indipendente che scrive di Balcani, Europa centro-orientale e area russa, ha all'attivo due libri (Kosovo, la storia, la guerra, il futuro e C'era una volta il Muro, viaggio nell'Europa ex comunista, entrambi editi da Castelvecchi, ha curato Narconomics, inchiesta a più mani sul narcotraffico internazionale (Lantana) e che oltre alle diverse testate per cui scrive (Europa, Limes, East, Narcomafie, Popoli, Reset, Linkiesta e altre ancora) potete trovare sul suo blog www.radioeuropaunita.wordpress.com
La registrazione dell'intervista è disponibile sul sito di Radio Radicale, oppure è ascoltabile direttamente qui
Imprenditori e cittadini italiani nell’Europa ex comunista
Di Matteo Ferrazzi e Matteo Tacconi
Introduzione di Federico Ghizzoni
Postfazione di Angelo Tantazzi
Con il patrocinio di Confindustria Balcani e East
“Me ne vado a Est è un volume unico nel suo genere. In una qualunque libreria si trovano libri sulla Cina, sull’India, sul Brasile, sulla Russia. Mai, però, un testo come questo, che sapesse dare una visione complessiva sull’Europa dell’Est e che avesse il coraggio e la capacità di raccontare le storie di coloro che hanno varcato l’ex Cortina di ferro”. (Federico Ghizzoni, a.d. UniCredit)
Migliaia di imprenditori e cittadini italiani hanno lasciato il Belpaese per andare a vivere e a produrre a Est, nei Paesi dell’Europa orientale e balcanica un tempo oltrecortina. Me ne vado a Est racconta le storie di chi ce l’ha fatta e di chi non ce l’ha fatta – imprenditori e manager, calciatori e veline. E, soprattutto, spiega le economie e i sistemi politici di questi Paesi con passione e semplicità, mettendo in evidenza luci e ombre di un processo che sta cambiando l’industria italiana e tutte le nostre vite.
Me ne vado a est ci spiega che l’80 per cento delle imprese italiane attive nell’Europa dell’Est lavora principalmente in quattro Paesi: Romania, Polonia, Ungheria e Bulgaria. Le aziende italiane con più di 2,5 milioni di euro di fatturato annuo attive in questi quattro Paesi sono 4.000 e rappresentano un quinto della presenza imprenditoriale italiana nel mondo. Sommando le aziende italiane attive in Serbia, Bosnia, Macedonia e altri Paesi, le cifre sono ancora più sorprendenti. Ancora più straordinario è il fatto che il numero di imprese italiane presenti nell’Europa dell’Est è quattro volte superiore a quello delle aziende, sempre italiane, attive in Cina. Se tenessimo conto anche delle piccole e piccolissime imprese, la proporzione sarebbe ancora più accentuata. Idem per l’import-export: importiamo dall’Europa orientale tre volte e mezzo quello che importiamo dalla Cina; esportiamo a Est un flusso di merci otto volte superiore a quello diretto verso il Dragone.
Me ne vado a Est prova a colmare un grave vuoto di conoscenza e a tracciare un’analisi dei Paesi di destinazione e a spiegare le ragioni, le delusioni e le difficoltà che spingono a varcare la frontiera.
“Il testo di Ferrazzi e Tacconi non è un libro solo per economisti. Mette insieme elementi di storia, di cultura e di politica, aneddoti, vicende sociali. È una piccola enciclopedia, adatta ai curiosi come ai viaggiatori, che aiuterà a riscoprire l’Est, una regione che è ormai parte integrante del nostro panorama produttivo e culturale”. (Angelo Tantazzi)
Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414 www.infinitoedizioni.it
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918
giovedì 12 luglio 2012
CROATIA SUMMIT: SORPRESE E POLEMICHE
Venerdì e sabato della scorsa
settimana si è tenuto a Dubrovnik il settimo “Croatia Summit”.
Il nuovo governo croato ha deciso di continuare questo tradizionale
appuntamento che riunisce i rappresentanti dei Paesi dell'Europa sud
orientale e balcanica per confrontarsi sui temi chiave delle
relazioni internazionali. Il presidente croato Ivo Josipović, il
premier Zoran Milanović e la ministra degli Esteri Vesna Pusić
hanno accolto nella “perla dell'Adriatico” primi ministri,
ministri degli Esteri e altri alti funzionari e i rappresentanti
degli Stati Uniti e della NATO, mettendo al centro del dibattito i
temi di importanza politica, sociale ed economica dell'Europa
sudorientale allargati anche al sud Mediterraneo. Come sottolineato
dal premier croato nel suo intervento inaugurale, l'esperienza della
Croazia nel cammino di avvicinamento all'Ue puo' aiutare gli altri
Paesi, in particolare quelli che vivono situazioni post-conflittuali,
a costruire e sviluppare la democrazia. Milanović ha aggiunto che la
Croazia si impegnera' fortemente per il proseguimento
dell'allargamento dell'Ue e che Zagabria sosterrà i Paesi che
aspirano all'ingresso nell'Ue. Assente, come sempre, la Serbia, che
rifiuta di prendere parte a riunioni e vertici a cui siano presenti
rappresentanti del Kosovo. Belgrado era assente almeno a livello
ufficiale, perché in effetti a Dubrovnik è arrivato l'ex presidente
Boris Tadic che, a sorpresa, ha stretto la mano al premier kosovaro
Hashim Thaci: e la cosa non è affatto piaciuta in patria.
Qui di seguito la corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale.
Secondo alcuni, il Croatia summit di quest'anno poteva quasi diventare storico, anche se poi di valore storico, dopo tutti i pro e contro, non si puo' parlare. Il secondo giorno, vale a dire sabato, dalla Serbia che non e' stata rappresentata da nessuna autorita' ufficiale e' arrivato l'ospite di sorpresa – l'ex presidente Boris Tadić. Si aspettava un incontro con il premier kosovaro Hashim Thaqi, ma quest'incontro alla fine non e' avvenuto bensi' soltanto una stretta di mano che, come detto, ha suscitato commenti e polemiche in Serbia e approvazioni altrove. Va detto che propro a causa della presenza del premier kosovaro negli anni precedenti, e' venuta sempre a mancare la presenza dei vertici di Belgrado al Croatia summit. In veste privata e non piu' presidente, Boris Tadić questa volta si e' recato a Dubrovnik su invito personale del premier croato Zoran Milanović. Il presidente del governo croato ha giustificato il suo invito indicando che Tadić e' l'ex presidente della Serbia e presidente del grande partito serbo che tecnicamente sta ancora nel governo fino alla formazione di quello nuovo. Lo stesso Tadić ha precisato ai giornalisti che non bisogna dare troppa importanza alla sua stretta di mano con il premier del Kosovo. L'ex presidente serbo ha aggiunto che appoggia le dichiarazioni dell'attuale presidente della Serbia Tomislav Nikolić il quale si e' detto pronto ai colloqui sulla soluzione del problema Kosovo.
Il gesto di Tadić dunque, non e' passato senza reazioni negative in Serbia. La prima quella del attuale ministro degli interni, incaricato a formare il nuovo governo, Ivica Dačić il quale ha detto che sicuramente nessuno puo' imporre come uno si deve comportare quando non e' piu' rappresentante dello stato e che tutti hanno il diritto privatamente o in veste di presidente di partito a funzionare cosi' come ritengono sia giusto. Tuttavia ha aggiunto che secondo la sua opinione "i partiti non dovrebbero avere diversi comportamenti quando sono al potere e quando si trovano in opposizione e che si dovrebbe definire chiaramente qual e' la politica dello stato". "Credo che in questo modo non si ottiene nulla, ma si ha dato soltanto la legittimita' a Hashim Thaqi. Va tenuto presente che contro di lui ci sono sospetti che sia stato coinvolto nel traffico di organi umani in Kosovo" ha sottolineato Dačić. A conclusione della conferenza il premier croato Milanović ha ribadito che la Croazia ha un ruolo importante nella regione, ma che non ha preteste megalomane ad essere un leader regionale: "Siamo qui per aiutare i nostri vicini poiche' abbiamo interessi di lavoro ma anche umani" ha detto Milanović augurando che "tutto quello che ci ha perseguitato negli ultimi vent'anni sia dietro di noi". Va detto che questa conferenza sull'Europa sudorientale, che quest'anno si e' allargata anche al sud Mediterraneo, ha visto la partecipazione di sette premier: oltre al croato Zoran Milanović, c'erano presenti i suoi colleghi dall'Albania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Kosovo, Montenegro e Polonia.
Dubrovnik e' stato anche un punto inevitabile per il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen e l'assistente del segretario di stato americana per gli Affari europei ed euro-asiatici, Philip Gordon. Per quanto riguarda l'arrivo dell'ex presidente serbo Boris Tadić, il rappresentante di Hillary Clinton ha osservato che Tadić poteva finora incontrare Hashim Thaqi molte volte e ha valutato che per Tadić non e' buono che cio' accada soltanto adesso. In Serbia, criticando la partecipazione e la stretta di mano di Boris Tadić con il premier del Kosovo, Ivica Dačić designato a formare il nuovo governo, ribadisce questo suo ruolo per la formazione del nuovo esecutivo promettendo che il processo avviato verra' a compimento oppure si dovra' andare alle nuove elezioni. Commentando la posizione degli Stati Uniti secondo la quale la Serbia non deve riconoscere l'indipendenza del Kosovo ma deve accettare la sua esistenza, Dačić ha detto che questo non e' niente di nuovo e ha ripetuto che la Serbia si impegna per il proseguimento del dialogo sulla soluzione dei problemi vitali, senza il riconoscimento di fatto del Kosovo.
La stretta di mano tra Tadić e Thaqi a Dubrovnik e' stata commentata anche dal leader liberaldemocratico serbo, Čedomir Jovanović secondo il quale questo gesto e' un atto che arriva troppo tardi e che avrebbe avuto un significato molto piu' importante per il futuro delle relazioni serbo-albanesi se fosse accaduto alcuni anni fa. "In questo modo si doveva reagire in tempo utile, per esempio l'estate scorsa quando invece di un dialogo razionale e' stata scelta la via delle barricate, confrontazioni e paure quotidiane di possibile conflitto" ha dichiarato Jovanović. Per il leader dello SPO, Movimento serbo del rinnovamento, Vuk Drašković e' invece vergognoso ogni tipo di accusa del gesto di Tadić che secondo la sua opinione e' stato un atto umano, civile ed educato. Il leader del Partito del Progresso serbo Aleksandar Vučić, successore di Tomislav Nikolić all'incarico di presidente del partito vincente alle elezioni, ha commentato che ognuno ha il diritto alla sua politica di partito ma ha rilevato che questo tipo di politica e' diverso da quella del Partito del Progresso. Per quanto riguarda l'opinione dei media in Croazia dove l'arrivo e il gesto di Tadić ha suscitato altrettanto diverse reazioni, la valutazione generale e' che intorno ad una semplice stretta di mano si e' fatto molto scalpore e che l'ex presidente della Serbia e' arrivato a Dubrovnik a seguito di un "forte insistere da parte dell'amministrazione americana".
All'indomani di quanto accaduto al “Croatia Summit”, il lider del Partito Democratico ed ex presidente della Serbia, Boris Tadić ha dichiarato che la sua stretta di mano con Hashim Thaqi non ha nessun significato storico ma si tratta di un gesto di buona educazione. Ospite della Prima televisione nella trasmissione "La posizione della Serbia", Tadić ha detto che quel momento ha comunque "una dimensione simbolica" e che non e' ne' da sottovalutare ma non e' nemmeno un atto di grande portata. Molto piu' importante, ha sottolineato Tadić, e' terminare i negoziati e trovare una soluzione per il Kosovo. Ha riconfermato di essersi recato alla conferenza su invito del premier croato Milanović e che per la Serbia e' importante partecipare ai forum internazionali dove vengono prese decisioni importanti. Ha precisato che il travaglio intorno al Kosovo ha limitato la partecipazione di Belgrado ai forum internazionali. Il noto analista politico croato Davor Gjenero ha valutato invece per la Tanjug serba che il gesto di Tadić e' stato un gesto statale intrapreso nel momento in cui e' stato possibile compierlo e cambia la posizione poiche' tutti i portatori della politica in Serbia dovranno prendere decisioni. Gjenero ha osservato che Tadić, il quale ha ceduto ai suoi colleghi il potere esecutivo e rappresentativo, ha aperto un punto politico molto piu' grande e ha anche aperto la via verso l'incontro tra Nikolić e la presidente kosovara Jahjaga. L'analista croato ha paragonato il gesto di Tadić con quello di Willi Brandt il quale aveva abolito "la dottrina di Halstein" secondo la quale la Germania occidentale interrompeva tutte le relazioni diplomatiche con ogni stato che avrebbe riconosciuto la Germania dell'Est difendendo cosi' il concetto di una Germania unica. Cosi', spiega Gjenero, Brandt aveva iniziato la politica di apertura che aveva svolto un ruolo importante nel crollo del regime comunista e l'unificazione dell'Europa.
Infine, da Belgrado, non e' mancato nemmeno il commento del capo dello stato Tomislav Nikolić il quale, lunedi' ha dichiarato che la stretta di mano del presidente del Partito democratico Boris Tadić con il premier del Kosovo e' stato un suo gesto personale. Ha precisato di aver parlato venerdi' scorso con Tadić sulla sua visita a Dubrovnik ma che l'ex presidente della Serbia non aveva menzionato nessuna possibilita' di incontro con Thaqi. "Se me l'avesse detto, gli avrei consigliato – per il suo bene – di non stringere la mano all'uomo che si trova sotto pesanti accuse" ha detto Nikolić. Ha aggiunto che non avrebbe mai stretto la mano a Thaci finche' non si stabilisce la verita' sulle accuse che lo stesso attuale premier kosovaro aveva commesso crimini contro i serbi. Nikolić ha ribadito che lo Stato non ha nulla a che fare con il saluto tra Tadić e Thaqi e che lui in quanto presidente della Serbia non e' stato nemmeno invitato al Croatia summit.
L'AJA: I PRIMI TESTIMONI CONTRO MLADIĆ, DICIASETTE ANNI DOPO SREBRENICA
Davanti al Tribunale internazionale per
l'ex Jugoslavia, all'Aja, lunedì 9 luglio e' inizata la
presentazione delle prove della procura nel processo contro colui che
è stato definito “il boia di Srebrenica”, ovvero Ratko Mladić.
L'inizio di questa parte del processo ricade nella settimana in cui
si commemora il piu' atroce crimine nella storia europea del
dopoguerra. La procura ha chiamato a testimoniare il primo testimone
nel processo, Elvedin Pašić il quale nel novembre 1992 e'
sopravvissuto all'uccisione di circa 150 persone nel villaggio
Grabovica. All'epoca, Pašić aveva 14 anni. Secondo la sua
deposizione, Pašić ha raccontato che i soldati nelle divise
dell'esercito jugoslavo arrivarono sui carri armati nel suo villaggio
musulmano e il secondo giorno del Bajram inizio' l'attacco.
"Andavo a scuola con i croati ed i serbi, ci divertivamo un sacco, giocavamo, facevamo tutto insieme e dividevamo tutto", ha raccontato alla Corte il testimone illustrando poi come gli e' stata bruscamente fermata la fanciullezza. Pašić ha raccontato del suo villaggio bruciato in cui le case erano rase al suolo e poi la fuga. Profondamente sconvolto, Pašić ha proseguito ricordando che loro tutti pregavano e poi decisero di arrendersi. Lui era con suo padre e fu l'ultimo ragazzo separato dagli uomini. I soldati comandavano loro di alzarsi, correre, fermarsi, lanciavano sassi su di loro. Il peggio doveva ancora arrivare. Va detto che tutte le deposizioni dei testimoni dovrebbero svolgersi fino al 20 luglio prossimo, quindi ci sara' la pausa estiva di tre settimane.
Intanto, circa sette mila partecipanti della "Marcia di pace" da Tuzla fino a Srebrenica, dedicata alle vittime del genocidio contro i bosgnacchi di Srebrenica, domenica scorsa hanno marciato i primi trenta chilometri arrivando fino ai pressi di Zvornik. Il percorso era lungo 80 chilometri e voleva commemorare il cammino che migliaia di uomini, donne e bambini bosgnacchi hanno dovuto percorrere nel luglio 1995, dopo la caduta dell'enclave di Srebrenica nelle mani dei serbi bosniaci, cercando di salvarsi fuggendo verso il territorio sotto il controllo dell'Armata della BiH. Domenica scorsa, alla prima tappa della marcia ha partecipato anche l'ambasciatore americano in Bosnia Erzegovina, Patrick Moon. "Questa e' l'occasione per rendere omaggio a quelli che hanno perso la loro vita e riunirsi ai loro amici e famigliari che trasmettono il messaggio di pace" ha dichiarato l'ambasciatore statunitense. Martedi', un giorno prima dell'inizio della commemorazione dei 17 anni dal genocidio contro i bosgnacchi, i partecipanti della marcia sono arrivati a Srebrenica. Dopo la commemorazione al cimitero memoriale di Potočari, mercoledi' sono stati seppelliti, come ormai di tradizione, i resti identificati di 520 vittime del massacro di Srebrenica.
Sempre in tema di commemorazioni di crimini di guerra compiuti durante le guerre jugoslave degli anni '90, un gesto di omaggio alle vittime, e' stato compiuto nonostante il caldo torrido di questo periodo, da quattro maratoneti di Croazia: Mladen Hodak e Duško Štrbac di Zagabria, Elvir Rakipović di Osijek e Mirsad Veladžić della citta' di Daruvar hanno corso con successo l'ultra maratona da Vukovar fino a Srebrenica. La maratona e' stata organizzata dal Consiglio della minoranza bosgnacca della citta' di Zagabria in occasione dell'anniversario di Srebrenica. La maratona e' iniziata lo scorso 6 luglio dal Centro memoriale di Ovčara nei pressi di Vukovar per terminare a Potočari, con un totale di 227 chilometri percorsi.
[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale
Nella foto Elvedin Pasic durante la sua deposizione al processo contro Ratko Mladic nell'aula del Tribubale internazionale per l'ez Jugoslavia
"Andavo a scuola con i croati ed i serbi, ci divertivamo un sacco, giocavamo, facevamo tutto insieme e dividevamo tutto", ha raccontato alla Corte il testimone illustrando poi come gli e' stata bruscamente fermata la fanciullezza. Pašić ha raccontato del suo villaggio bruciato in cui le case erano rase al suolo e poi la fuga. Profondamente sconvolto, Pašić ha proseguito ricordando che loro tutti pregavano e poi decisero di arrendersi. Lui era con suo padre e fu l'ultimo ragazzo separato dagli uomini. I soldati comandavano loro di alzarsi, correre, fermarsi, lanciavano sassi su di loro. Il peggio doveva ancora arrivare. Va detto che tutte le deposizioni dei testimoni dovrebbero svolgersi fino al 20 luglio prossimo, quindi ci sara' la pausa estiva di tre settimane.
Intanto, circa sette mila partecipanti della "Marcia di pace" da Tuzla fino a Srebrenica, dedicata alle vittime del genocidio contro i bosgnacchi di Srebrenica, domenica scorsa hanno marciato i primi trenta chilometri arrivando fino ai pressi di Zvornik. Il percorso era lungo 80 chilometri e voleva commemorare il cammino che migliaia di uomini, donne e bambini bosgnacchi hanno dovuto percorrere nel luglio 1995, dopo la caduta dell'enclave di Srebrenica nelle mani dei serbi bosniaci, cercando di salvarsi fuggendo verso il territorio sotto il controllo dell'Armata della BiH. Domenica scorsa, alla prima tappa della marcia ha partecipato anche l'ambasciatore americano in Bosnia Erzegovina, Patrick Moon. "Questa e' l'occasione per rendere omaggio a quelli che hanno perso la loro vita e riunirsi ai loro amici e famigliari che trasmettono il messaggio di pace" ha dichiarato l'ambasciatore statunitense. Martedi', un giorno prima dell'inizio della commemorazione dei 17 anni dal genocidio contro i bosgnacchi, i partecipanti della marcia sono arrivati a Srebrenica. Dopo la commemorazione al cimitero memoriale di Potočari, mercoledi' sono stati seppelliti, come ormai di tradizione, i resti identificati di 520 vittime del massacro di Srebrenica.
Sempre in tema di commemorazioni di crimini di guerra compiuti durante le guerre jugoslave degli anni '90, un gesto di omaggio alle vittime, e' stato compiuto nonostante il caldo torrido di questo periodo, da quattro maratoneti di Croazia: Mladen Hodak e Duško Štrbac di Zagabria, Elvir Rakipović di Osijek e Mirsad Veladžić della citta' di Daruvar hanno corso con successo l'ultra maratona da Vukovar fino a Srebrenica. La maratona e' stata organizzata dal Consiglio della minoranza bosgnacca della citta' di Zagabria in occasione dell'anniversario di Srebrenica. La maratona e' iniziata lo scorso 6 luglio dal Centro memoriale di Ovčara nei pressi di Vukovar per terminare a Potočari, con un totale di 227 chilometri percorsi.
[*] Il testo è tratto dalla corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale
Nella foto Elvedin Pasic durante la sua deposizione al processo contro Ratko Mladic nell'aula del Tribubale internazionale per l'ez Jugoslavia
PASSAGGIO IN ONDA
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est trasmessa oggi da Radio Radicale. La trasmissione è riascoltabile nella sezione "In Onda" del blog oppure, insieme a quelle precedenti, sul sito di Radio Radicale.
mercoledì 11 luglio 2012
L'INCAPACITA' DI COMPRENDERE SREBRENICA
C'è,
secondo me, in Europa, un'incapacità di comprendere Srebrenica,
quello che che è successo in quel luglio di 17 anni fa. Non la
realtà storica, su cui si continuerà a scavare e a polemizzare,
com'è giusto che sia, non la verità processuale, se e quando verrà
stabilita, non le responsabilità, politiche, materiali, dirette e
indirette. L'incapacità riguarda, secondo me, la comprensione
autentica e profonda di cosa è stato quel genocidio e di cosa sono
state le guerre jugoslave degli anni '90.
Costa tanto, troppo,
all'Europa riflettere su quel buco nero balcanico che cominciò ad
aprirsi all'indomani della morte di Tito fino a spalancarsi del tutto
sull'orrore delle pulizie etniche incrociate, degli stupri, delle
deportazioni, dei massacri, degli affari politico-mafiosi intrecciati
all'ombra dei conflitti. Quel buco nero ha mostrato tutta la miseria
delle “democrazie” europee, l'ignavia delle classi politiche
(tranne rare eccezioni), l'inadeguatezza degli intellettuali (tranne
poche voci, grandissime, ma inascoltate).
E l'Europa continua a non
voler comprendere: preferisce pensare che un po' più di governance
economica e un po' più di integrazione bancaria possano guarire il
suo male profondo. E intanto, proprio là, nel profondo, continua ad
allevare le uova del serpente: sessantasette anni dopo la seconda
guerra mondiale, diciassette anni dopo Srebrenica. [RS]
L'unica domanda che vorrei porre a
tutti gli amici che ho conosciuto dopo la guerra è se ricordino dove
si trovavano l'11 luglio 1995. Non posso farla, perché non sono
sicuro che riceverei sempre la risposta che desidero, con tutti i
particolari; non posso farla, perché so che alla fine rimarrei solo,
senza nessuno. Eppure, malgrado questo, sono convinto di avere il
diritto di pretendere una risposta a quella domanda. Non perché mi
interessi sapere dove fossero esattamente i miei amici, ma perché
vorrei sapere se anche loro abbiano partecipato a quel tradimento.
Ciò che avvenne a Srebrenica durante quei giorni del luglio 1995 è
uno dei peggiori tradimenti del genere umano.
Emir Suljagić,
Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica (Beit, 2010)
martedì 10 luglio 2012
EX JUGOSLAVIA: L'IMPORTANZA DEL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE
Ratko Mladic sul banco degli imputati |
E' ripreso ieri all'Aja, al Tribunale
internazionale per l'ex Jugoslavia, il processo a carico all'ex capo
militare dei serbi di Bosnia Erzegovina, Ratko Mladic, arrestato nel
maggio 2011 in Serbia, dopo quasi sedici anni di latitanza, chiamato
a rispondere dell'accusa di genocidio e crimini guerra, il più grave
dei quali è il massacro di Srebrenica, compiuto nel luglio 1995 e
qualificato come “genocidio” dalla Corte internazionale di
giustizia dell'Onu. Mladic, che oggi ha 70 anni, è malato e si
dichiara non colpevole, deve rispondere di 11 capi d'accusa e
rischia l'ergastolo.
La procura ha annunciato che intende
presentare 400 testimoni a carico dell'imputato. Il primo di questi è
Elvedin Pasic, oggi 34enne, sopravvissuto al massacro di Grabovica,
nella Bosnia settentrionale, dove circa 150 persone furono eliminate
dai militari serbo-bosniaci al comando di Mladic nel novembre 1992,
poco dopo lo scoppio del conflitto. Pasic aveva solo 14 anni quando
kle truppe serbo-bosniache fecero irruzione nel suo villaggio
imprigionando uomini, donne e bambini e istituendo un campo di
detenzione in una scuola vicina. Le audizioni dei testimoni
dell'Accusa dovrebbero proseguire fino al 20 luglio, prima della
pausa estiva dei lavori del Tpi.
Il processo era iniziato il 16 maggio,
ma era stato quasi subito sospeso dopo che la procura aveva ammesso
un errore nella consegna di migliaia di pagine di documenti alla
difesa dell’ex generale. Ieri c'è stato un nuovo colpo di scena: i
difensori dell'imputato hanno infatti chiesto ai giudici di rinviare
il caso di sei mesi a causa delle recenti modifiche delle regole di
presentazione delle prove introdotte dalla Corte. Secondo i legali
con la nuova procedura i giudici hanno permesso ai procuratori di
presentare un numero maggiore di prove documentali rispetto a prima,
dunque “urge un’azione da parte della Corte per evitare un
potenziale e probabile errore giudiziario”. Da qui la richiesta di
sospensione per sei mesi.
La questione sollevata dai legali di Mladic non è la prima a cui il Tribunale ha dovuto far fronte negli ormai non pochi anni della sua esistenza. Qui di seguito vi propongo un report
sul Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia: la sua particolare natura e alcuni
problemi organizzativi e procedurali sorti in questi anni di
attività. L'autore è Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni
internazionali, particolarmente sotto il profilo giuridico, e
conoscitore e analista della realtà serba, e di quella balcanica più
in generale, anche per aver partecipato a diverse missioni
patrocinate da istituzioni internazionali.
Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia
di Riccardo de Mutiis
L’ Aja può essere considerata la
capitale mondiale della giustizia: infatti hanno sede nella città
olandese sia la Corte di Giustizia internazionale, competente a
giudicare le controversie tra Stati, sia la Corte Penale
Internazionale, istituita nel 2002 per perseguire singoli individui
accusati di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, sia il Tribunale Penale Internazionale per l‘ex Jugoslavia,
denominazione ufficiale ICTY (International Criminal Tribunal for
the former Yugoslavia), istituito nel 1993 dall’ONU (con la
risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza) per giudicare i crimini
commessi nell’ex Jugoslavia durante i conflitti che hanno
infiammato il paese balcanico nell’ultimo decennio del secolo
scorso. E proprio la natura affatto particolare del Tribunale Penale
per l’ex Jugoslavia, organo giurisdizionale di creazione politica,
ha in un certo qual modo originato la crisi intervenuta nelle
relazioni tra l’ONU ed il Tribunale stesso nel periodo in cui alla
guida della procura dell’Aja vi era un personaggio deciso e
carismatico come Carla Del Ponte.
La Del Ponte, che ha guidato la procura
dal 1999 al 2007, lamentava che il suo lavoro era di fatto ostacolato
dall’ostruzionismo del governo jugoslavo, guidato all’epoca da
Vojislav Kostunica: in particolare rimproverava alle autorità di
Belgrado di non consegnare i documenti relativi alle indagini svolte
dalla procura, di non ricercare attivamente gli imputati, di non
contattare i testimoni ed in qualche caso di scoraggiarli dal deporre
dinanzi al Tribunale, di rinviare sine die l’approvazione della
legge sulla cooperazione con il Tribunale. A fronte di questo
atteggiamento non collaborativo la procuratrice svizzera chiedeva
agli organismi internazionali ed agli USA di non erogare
finanziamenti alla Jugoslavia fino a quando questa non avesse
iniziato a cooperare concretamente con il Tribunale. L’ iniziativa
della Del Ponte, che racconta l’episodio nel suo libro “La
caccia”, veniva stigmatizzato dal segretario generale delle Nazioni
Unite, Kofi Annan, il quale la invitava a non intromettersi in
questioni, quali quella relativa agli aiuti economici da concedere a
Belgrado, di natura politica e quindi non di competenza del Tribunale
(in una missiva Kofi Annan invitava espressamente la procuratrice “a
limitare i suoi interventi a questioni che più direttamente
rientrino nella sfera delle sue competenze legittime”).
Appare davvero difficile indicare quale
dei due protagonisti della vicenda sia nel giusto: ha ragione la Del
Ponte quando, trovatasi nella impossibilità di portare a termine le
indagini a causa della mancata collaborazione delle autorità
jugoslave, chiede alla comunità internazionale di subordinare la
concessione di aiuti allo stato balcanico alla cooperazione con il
Tribunale, oppure ha ragione Kofi Annan quando afferma che
l’atteggiamento della Del Ponte sconfinava nell’ambito politico
e quindi esorbitava dalle competenze del Tribunale, che avevano
natura esclusivamente giuridica? Probabilmente il motivo dell’impasse
risiede nel fatto che il Tribunale, ed in special modo la procura,
non possiede, diversamente dalle istituzioni giudiziarie nazionali,
strutture in grado di assicurare in via coercitiva l’esecuzione
dei propri provvedimenti. Infatti la procura dell’Aja non ha alla
proprie dipendenze una struttura operativa che abbia competenza sul
territorio serbo, vi si possa recare per acquisire documenti, sentire
testimoni, arrestare imputati: di qui la necessità per gli
inquirenti di ricorrere alla collaborazione con le autorità di
Belgrado e di qui la necessità di chiedere un intervento politico
nel caso in cui quella collaborazione non venga offerta. In altre
parole il Tribunale, pur essendo indipendente dal punto di vista
giudiziario, non dispone dei poteri di cui gode una corte di
giustizia in uno stato sovrano.
Come le corti nazionali il Tribunale ha
il potere di emettere intimazioni nei confronti di individui ed
istituzioni affinché forniscano documenti ed altro materiale
probatorio e di spiccare mandati di arresto internazionali; ma a
differenza delle corti nazionali non dispone di una polizia
giudiziaria che svolga ricerche ed arresti, per tali attività deve
ricorrere necessariamente alla collaborazione dello stato
interessato. E la mancanza di tale potere spinge necessariamente il
Tribunale nel regno della politica. Ma, oltre a quello appena
esaminato, il Tribunale soffre anche di altre disfunzioni. E’ il caso della norma secondo cui i
giudizi dinanzi al Tribunale per l‘ex Jugoslavia non possono
svolgersi in assenza dell’imputato, contrariamente a quanto accade
nella maggior parte dei Paesi, in cui l‘imputato può essere
giudicato in contumacia. E la necessità della presenza
dell’imputato, che abbiamo visto dipendere dalla esecuzione del
mandato di cattura internazionale, e quindi in ultima analisi da
quella collaborazione dell’ex Stato jugoslavo che spesso è
mancata, ha ritardato l’inizio di alcuni importanti procedimenti
per diversi anni. In alcuni casi tra il periodo in cui vennero
commessi i crimini e l’inizio dei relativi procedimenti sono
trascorsi più di dieci anni, è il caso dei giudizi contro Karadzic,
Mladic e Hadzic. E’ evidente come in tali casi non sia agevole
istruire il giudizio, soprattutto perché i testimoni potrebbero non
ricordare fatti avvenuti in un’epoca così lontana. Per ovviare ad
un simile inconveniente sarebbe sufficiente modificare la regola del
Tribunale che prevede la presenza obbligatoria dell’imputato con
quella, in vigore in quasi tutti i Paesi europei , secondo cui il
procedimento può svolgersi anche in assenza dell’imputato, a
condizione che gli venga notificato l’atto di accusa.
Un altro problema è quello
rappresentato dallo schema operativo della procura dell’ICTY,
creato dal viceprocuratore Graham Blewitt sulla falsariga del modello
utilizzato dalla unità della procura australiana che lui dirigeva, e
che si occupava di perseguire ex nazisti sospettati di crimini di
guerra durante la seconda guerra mondiale: di conseguenza vennero
assunti dalla procura degli investigatori con esperienza in indagini
relative a quel genere di reati. Ma gli indiziati dalla procura
australiana erano principalmente guardie dei campi di concentramento
ed altre figure di basso livello, ragion per cui è del tutto
evidente che un sistema operativo finalizzato a perseguire persone
che in sostanza hanno solo eseguito ordini criminali altrui non è
assolutamente adatto a perseguire soggetti, quali quelli incriminati
dall’ICTY , che ricoprivano i vertici politici e militari di uno
stato. Quello che si vuole dire è che per incriminare un ministro,
un capo di stato, un generale di stato maggiore è necessaria
sensibilità politica, conoscenza del contesto storico in cui sono
avvenuti i fatti, capacità di individuare profili di responsabilità
penale in atti di natura politica: è necessaria, in altre parole,
una preparazione tecnica, un back ground professionale che colui che
indaga il guardiano di un lager non ha.
Un caso emblematico della
impreparazione degli investigatori della procura è stato quello in
cui alcuni di essi interrogarono l’ ex
capo dei servizi segreti croati, Josip Manolic: costui, nel corso
della sua dichiarazione, fece riferimento al servizio di informazioni
dell’esercito jugoslavo, indicandolo con il suo acronimo KOS
(Kontrabavestaina sluzba) e con somma sorpresa realizzò che i suoi
intervistatori non conoscevano quella sigla, e quindi , ritenendoli
non affidabili, decise di non proseguire una collaborazione che
avrebbe potuto fornito un notevole aiuto, in termine di acquisizione
di informazioni assolutamente riservate, alla procura. L’impreparazione dimostrata dagli investigatori della procura nel caso
Manolic può essere equiparata a quella di un investigatore russo che
non conosce il significato della sigla CIA o, al contrario, a quella
di un investigatore americano al quale rimanga oscuro il significato
dell’acronimo KGB. Il problema rappresentato dalla impreparazione
degli investigatori venne risolto dalla Del Ponte, la quale, una
volta nominata al vertice della procura, modificò il modello
operativo di Brewitt ed assunse procuratori ed analisti che
conoscevano lo scenario storico e politico in cui si erano verificati
i crimini oggetto di indagine: non a caso nel 2005 Manolic venne
nuovamente contattato e questa volta convinto a collaborare da uno
staff investigativo che parlava la sua lingua e conosceva la storia
del suo paese. Ma il modello operativo australiano presentava una
ulteriore caratteristica che di fatto ostacolava il lavoro della procura dell’Aja: la rigida ripartizione delle competenze tra
investigatori e procuratori.
Nel sistema australiano la polizia
svolge , in esclusiva, la funzione inquirente ed al termine delle
indagini rimette gli atti al procuratore il quale decide se formulare
o meno l’ atto di accusa. Non vi è, per la procura , nessuna
possibilità di incidere sulle indagini svolte dalla polizia ed è
evidente come questo schema operativo non poteva che rivelarsi
inadeguato per indagini complesse come quelle relative ai criminali
di guerra. Il procuratore si trovava infatti a dovere costruire
l’incriminazione sulla base di elementi raccolti secondo una
impostazione alla cui formulazione era rimasto estraneo e che nella
maggior parte dei casi non condivideva. Anche in questo caso il
sistema operativo della procura venne riformato dopo l’
insediamento al vertice della procura della Del Ponte, ed un
contributo decisivo in tal senso venne dal sostituto procuratore
Clint Williamson. La direzione delle indagini di polizia
venne infatti affidata ai procuratori, e ciò sulla base dell’ovvia
constatazione per cui è colui che costruisce l’ incriminazione,
appunto il procuratore, che deve decidere su quali aspetti si deve
indagare .La squadra operativa della procura venne poi potenziata
attraverso l’assunzione di investigatori e procuratori di diversa
provenienza, dotati delle conoscenze specifiche necessarie per
affrontare i diversi casi: quindi analisti politici particolarmente
esperti del contesto della ex Jugoslavia, conoscitori del diritto
della nazione balcanica, professionisti in gradi di esprimersi anche
in lingua serbo-croata.
Questa breve analisi dei problemi che
hanno caratterizzato la vita del Tribunale per l’ex Jugoslavia si
chiude con un accenno a quello che è stato l’ aspetto che ha
colpito in modo particolare i mass media. Il riferimento è a quella
norma che prevede la possibilità, per l‘imputato, di rinunciare ad
essere difeso da un legale e quindi di difendersi da solo. Della
norma, tipica di un sistema giuridico di common law, ed in quanto
tale non prevista in ordinamenti di civil law quali quello italiano,
si sono serviti i più importanti imputati del Tribunale, Milosevic e
Seselji, per trasformare il processo in arena politica, per
effettuare una serie di contestazioni che nulla avevano di giuridico
e che hanno avuto il solo effetto di prolungare in modo eccessivo i
tempi del processo. Sarebbe auspicabile, in futuro, che tale norma
venisse abolita e, più in generale che venisse adottata tout
court, per la regolamentazione del processo, il sistema in vigore
presso i Paesi di civil law: tale sistema, infatti , per il fatto di
prevedere in modo rigoroso e tassativo, anche sotto il profilo
temporale, le attività che possono essere svolte durante il
procedimento, e per il fatto di prevedere obbligatoriamente
l’assistenza tecnica per l'imputato, ben difficilmente può
originare inconvenienti e lungaggini procedurali.
In conclusione non si può negare che
il Tribunale per l'ex Jugoslavia, nonostante le disfunzioni su cui ci
si è soffermati, abbia ottenuto risultati importanti: ha processato,
per la prima volta nella storia, un capo di Stato, Slobodan Milosevic, ed ha
incriminato, dalla sua fondazione fino alla fine del 2007, ben 161
persone. Ma la creazione del Tribunale Penale per l’ex Jugoslavia
ha anche un altro significato, ed è forse il più importante:
dimostra la volontà della comunità internazionale di perseguire gli
autori di crimini spaventosi ovunque essi si trovino ed in questo
senso rappresenta anche un deterrente non trascurabile per militari e
politici, ormai consapevoli che i loro atti criminosi vengono puniti
senza limiti di spazio e di tempo da una autorità internazionale.
giovedì 5 luglio 2012
SERBIA: LE INCERTEZZE SULLA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO
Di Marina Szikora - Corrispondente di
Radio Radicale
"Vorrei che il governo fosse
finalmente una squadra. Il governo non sono feudi, i ministeri non
sono governi. Questo governo non ha il diritto agli errori, sara'
sotto esame, cosi' come lo sara' anche il presidente", ha detto
Tomislav Nikolić ospite di una trasmissione della televisione
indipendente serba B92. Il neo presidente serbo ha rilevato di essere
rimasto lo stesso uomo, ma piu' vecchio e piu' serio, vale a dire
consapevole di aver vinto ma che nei presidenti precedenti la Serbia
non ha un personaggio esemplare. Nikolić ha precisato che negli
ultimi vent'anni la Serbia e' stata guidata da "Milošević e
Tadić con molto di singolare, mentre Milutinović non aveva nulla di
suo". "In tutto bisogna trovare la misura" ha aggiunto
Nikolić, rilevando che la sua richiesta al nuovo governo, quale che
esso sia, sara' quella di indagare sulla criminalita'. "Il mio
obbligo costituzionale e' di rendere possibile la formazione del
governo a quello che offrira' le prove di avere dietro di se la
maggioranza in parlamento", ha detto Nikolić che ha anche
avvertito qual e' il costo per la Serbia di ogni giorno in più senza
governo e del rinvio della sua formazione. Per questo e' stato
felicissimo quando si e' trovato qualcuno che ha affermato di avere
la maggioranza parlamentare.
"Il Partito Liberaldemocratico non
deve assolutamente nulla al Partito Democratico, come nemmeno il
Partito Democratico non deve nulla ai liberaldemocratici. Abbiamo la
responsabilita' verso i nostri elettori e verso il paese. Per questo
motivo, fino all'ultimo momento, abbiamo protetto la possibilita' di
formare il governo in cui LDP potrebbe promuovere le riforme",
ha detto il leader liberaldemocratico Čedomir Jovanović in una
intervista al giornale serbo 'Blic'. Jovanović aggiunge che esiste
l'obbligo dell'onesta' politica e un limite al compromesso. Ha
rivelato che il suo partito ha accettato perfino l'ultima richiesta
del Partito Democratico di dare al socialista Ivica Dačić alcuni
giorni aggiuntivi per decidere con chi formare la coalizione di
governo. Quando anche questo termine e' scaduto, e' diventato chiaro
che non c'era ancora disponibilità per un governo con il Partito
Libaraldemocratico. Jovanović ha rigettato le critiche giunte dal
Partito Democratico con le quali ai liberaldemocratici e' stata data
la colpa di aver per primi abbandonato i negoziati e di aver voltato
le spalle ai democratici lasciandoli senza maggioranza parlamentare.
"Ci siamo comportati sempre onestamente nei confronti del
Partito Democratico, in ogni momento nei precedenti quattro anni.
Perfino quando non e' stato sufficientemente decisivo nelle riforme o
non ha avuto la forza ad assicurare l'appoggio dei partner nel
governo, ha spiegato Jovanović.
Il presidente dei liberaldemocratici ha
precisato inoltre che il Partito Democratico ha condotto i colloqui
singolarmente, attraversando una via dall'evidente sorpresa dopo la
perdita delle elezioni parlamentari, attraverso un periodo di
ottimismo, fino alla fase di sempre piu' aperti ricatti nei confronti
di Ivica Dačić, 'il pacchetto' con Mlađan Dinkić, il ritorno alla
vecchia prassi di non sincerita' e di inganno dell'opinione pubblica.
Jovanović ha sottolineato che a tutti, sin dall'inizio, e' stato
chiaro che l'entrata del Partito Liberaldemocratico nel governo
avrebbe rappresentato la fine della cattiva politica e l'inizio della
svolta in tutti i settori. Secondo Čedomir Jovanović non c'era
disponibilità, ne' dall'una, ne' dall'altra parte, affinche' la
Serbia possa uscire dalla crisi distruttiva con una politica di
modernizzazione. Jovanovic ha precisato di aver indicato a Boris
Todić, durante i colloqui sulla formazione del governo, che e'
indispensabile avere uno sguardo realistico della politica sul
Kosovo, che bisogna essere piu' costruttivi nella politica regionale,
che nei primi mesi bisogna togliere tutti gli ostacoli per ottenere
la data dei negoziati di adesione all'Ue. Il Partito
Liberaldemocratico ha proposto i punti chiave per mettere ordine
nelle finanze pubbliche, un risparmio razionale, ordine nelle imprese
pubbliche, grandi riforme dell'educazione, sanita', media e lo
sviluppo della liberta' della stampa, la riforma della situazione
insostenibile del fondo pensionistico.
Nei prossimi quattro anni, Jovanović
si aspetta una combinazione di populismo e costante calcolo da parte
dei partner nel governo e la scelta di un timing migliore per le
nuove elezioni. In ogni caso, ha promesso che il suo partito sara'
duro ma farà una opposizione razionale e responsabile. "Avranno
il nostro sostegno per la politica dell'integrazione della Serbia
nell'Ue e nella NATO, per lo sviluppo di una aperta economia di
mercato, nuove relazioni regionali, affermazione dello stato di
diritto, liberta' civili e saremo la piu' dura opposizione per quanto
riguarda qualunque decisione contraria a questi valori e obiettivi",
ha concluso Jovanović.
[*] Il testo è tratto dalla puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi
UNIONE EUROPEA: LA PRESIDENZA CIPRIOTA E I BALCANI
Di Marina Szikora - Corrispondente di
Radio Radicale [*]
Oltre alla crisi economica globale, una
delle priorita' dell'appena iniziata presidenza cipriota all'Ue sarà
l'integrazione dei Balcani occidentali. Da Nicosia il messaggio
mandato alle autorita' di Belgrado e' pero' quello di affrontare gli
errori come unica via di avanzamento, scrive il portale della
Deutsche Welle. Cosi' Cipro si aggiunge alle presidenze precedenti -
quelle di Svezia, Spagna, Belgio, Ungheria e Polonia - che avevano
incluso tra le loro priorita' del mandato a rotazione anche il
proseguimento dell'allargamento dell'Ue. Ma anche la Danimarca, che
ha appena trasmesso la presidenza dell'Ue a Cipro, tra i suoi sei
risultati piu' importanti indica proprio il proseguimento del
processo di integrazione, lo status di candidato concesso alla Serbia
e l'avvio dei negoziati di adesione del Montenegro. "Non
dobbiamo dimenticare che scegliendo la via democratica, le riforme e
la pace, i Balcani Occidentali hanno scelto il modello europeo. Si
tratta di una questione storica. Questa parte del mondo nel futuro
puo' lasciare definitivamente alle spalle il passato problematico,
pieno di guerre e violenze nonche' relazioni di vicinato che mai
saranno parte dell'Ue", ha detto il ministro delle questioni
europee danese Nicolai Vamen. Per la prima volta alla guida dell'Ue,
la presidenza cipriota promette quindi, anche se di un Paese piccolo
e tra i piu' giovani membri dell'Ue, di impegnarsi affinche' questa
presidenza si presenti in modo giusto, modesto ma anche ambizioso.
Entro la fine della presidenza cipriota
ci si aspetta che la Bosnia Erzegovina soddisfi le condizioni della
“road map” accordata durante il dialogo ad alto livello e che a
dicembre si presenti nelle condizioni di poter presentare la
richiesta di ottenere lo status di candidato all'adesione. Il
Montenegro entro dicembre dovrebbe passare un vasto e profondo
controllo focalizzato sullo stato di diritto ed entro la fine
dell'anno un rapporto in merito dovrebbe essere presentato al
Consiglio europeo. Quanto all'integrazione del Kosovo, Nicosia (che
non ha riconosciuto l'indipendenza di Priština) afferma che si
occupera' di questa questione all'interno dell'attuale cornice di
lavoro europea, senza essere influenzata dall'agenda nazionale e con
una generale accettazione dell'approccio neutrale dell'Ue. Le recenti
dichiarazioni del presidente serbo Nikolić, che negano il genocidio
di Srebrenica, vengono giudicate come un passo indietro, ma si spera
che questo sia l'unico ostacolo nel cammino della Serbia. Consapevoli
dei propri problemi con la Turchia, i ciprioti ritengono che
affrontare gli errori sia il modo migliore per andare avanti e non la
loro negazione o perfino la convinzione che gli errori non sono stati
nemmeno commessi.
[*] Il testo è tratto dalla puntata diPassaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale
PASSAGGIO IN ONDA
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est trasmessa
oggi da Radio Radicale. La trasmissione è riascoltabile nella sezione
"In Onda" del blog oppure, insieme a quelle precedenti, sul sito di Radio Radicale.
mercoledì 4 luglio 2012
ROMANIA: SCONTRO POLITICO-ISTITUZIONALE TRA PRESIDENTE E GOVERNO
Victor Ponta e Traian Basescu |
Ieri il quotidiano Adevarul aveva previsto che la sostituzione dei presidenti democratico-liberali della Camera e del Senato, approvata dall'Unione socialista-liberale, era la premessa della destituzione del presidente e oggi la previsione si è realizzata. Il neo presidente della Camera dei deputati, Valeriu Zgonea, ha annunciato l'avvio delle procedure per la destituzione di Basescu annunciando la convocazione straordinari del Parlamento per domani e dopodomani per discutere la rimozione del presidente.
La Costituzione stabilisce che il presidente può essere sospeso "se commette dei fatti gravi che violino il dettato costituzionale". Se la proposta è approvata, entro 30 giorni deve essere convocato un referendum per la destituzione del capo dello Stato. "Il documento che prevede la sospensione del presidente dalle sue funzioni è pronto e sarà depositato presso gli uffici permanenti del Parlamento nel pomeriggio", ha spiegato il vicepresidente della Camera, Viorel Hrebenciuc.
Basescu, che era è stato già sospeso dalle sue funzioni una prima volta nel 2007 (anche in quel caso da una maggioranza di centrosinistra), ma aveva poi vinto il successivo referendum, ha chiesto al premier e all'altro leader della coalizione social-liberale, Crin Antonescu, “di fermare immediatamente le loro azioni contro le istituzioni dello stato romeno" e la grave violazione delle leggi e della Costituzione che “hanno posto lo stato romeno e 22 milioni di persone in una situazione estremamente pericolosa".
La coabitazione tra il governo guidato dal socialista Ponta, insediato il mese scorso dopo la crisi del governo di centrodestra guidato da Emil Boc, è stata fin dall'inizio impossibile e che la situazione stesse precipitando lo si è capito quando il governo ha tentato di impedire a Basescu la partecipazione al recente Consiglio europeo. Il presidente si è rivolto alla Corte costituzionale che gli ha dato ragione, provocando le minacce del ministro della Giustizia di far saltare i membri dell'alta corte accusati di essere fedeli a Basescu. Ponta si è poi recato da solo al vertice Ue.
L'Unione socialista-liberale sta tentando di prendere il controllo sulle istituzioni ancora in mano al partito di Basescu. Ieri è stato rimosso anche l'Avvocato del popolo, cioè l'"ombudsman" Gherghe Iancu, che in Romania riveste un ruolo importante. Al suo posto è stato nominato Valer Dorneanu. Secondo diversi osservatori il centro-sinistra sta cercando di conquistare una posizione di vantaggio in vista delle elezioni che si terranno nel prossimo autunno.
La situazione in Romania ha suscitato com'era prevedibile molte preoccupazioni a Bruxelles. Il commissario europeo alla Giustizia, Viviane Reding, si è detta "seriamente preoccupata" per gli attacchi alla Corte costituzionale. Un sentimento condiviso dall'ambasciatore americano a Bucarest, Mark Gitenstein, che ha detto di essere "profondamente preoccupato da ogni tentativo che minaccia l'indipendenza delle istituzioni democratiche".
Il premier Ponta ha chiesto al suo ministro della Giustizia Titus Corlatean di ritirare i ricorsi presentati contro giudici costituzionali. Una decisione che secondo il Partito socialdemocratico, di cui Ponta è il leader, vuole dare "un segnale fermo sul rispetto assoluto dell'indipendenza delle istituzioni democratiche e sull'integrità del sistema giudiziario romeno". L'impressione, però, è che si tratti solo di una mossa per tranquillizzare gli osservatori internazionali mentre la guerra interna prosegue senza esclusione di colpi.
martedì 3 luglio 2012
UOMO DI FRONTIERA SENZA FRONTIERE
Alex Langer e Gandhi |
Diciassette anni fa Alexander Langer
decideva di porre fine alla sua esistenza terrena. Era nato a
Sterzing/Vipiteno 49 anni prima. Giornalista, traduttore, insegnante,
esponente politico, credo si possa dire che prima e al di là di
tutto questo, Langer sia stato una persona ed un cittadino. E come tale fin
da giovanissimo ha sentito profondamente il dovere civico di
partecipare e impegnarsi. Anche “sporcandosi le mani”, al di qua
e al di là delle frontiere politiche, culturali, ideologiche e
materiali, anzi andando oltre i confini che troppo spesso, prima
ancora che sulle carte geografiche stanno nella testa delle persone.
Resta emblematico, secondo me, il suo
rifiuto – per lui che si era sempre dichiarato di madre lingua
tedesca - di aderire al censimento nominativo del 1981 e del 1991 che
rafforzava la politica di divisione etnica. Non comune e coerente con
questa sua visione è stata la volontà di dialogo e di confronto
anche con aree diverse dalle sue e la disponibilità alle idee
originali e non conformiste che emergevano in gruppi e movimenti non
compresi nell'abituale panorama politico.
Dopo la caduta del muro di Berlino
Langer si impegnò ancora di più per contrastare i contrapposti
nazionalismi che emergevano nell'Europa ex “oltre cortina” e
soprattutto in Jugoslavia, sostenendo e schierandosi al fianco chi si
batteva per la conciliazione interetnica. Anche in questo caso non
ebbe paura di andare controcorrente, assumendo anche posizioni
scomode rispetto ad un certo pacifismo che
pretendeva di mantenersi equidistante tra aggrediti ed aggressori e
rifiutava aprioristicamente ogni ipotesi di intervento, anche
militare, per fermare il bagno di sangue in corso nei Balcani.
Il 26 giugno del 1995, con altri
parlamentari, esponenti politici, militanti e profughi dell'ex
Jugoslavia, si recò a Cannes, in occasione del Consiglio europeo,
per portare ai capi di stato e di governo l'appello "L'Europa muore o rinasce a Sarajevo", che resta tutt'oggi un testo di
grande valore morale e politico. Un manifesto che mostra ancora la
sua attualità in questi mesi di crisi non solo economica e
istituzionale dell'Unione Europea, ma finanche dello stesso progetto
politico di unione concepito sulle macerie della seconda guerra
mondiale.
Pochi giorni dopo, il 3 luglio, Alex
Langer decideva di interrompere la sua vita. Nemmeno due settimane
più tardi il mondo avrebbe conosciuto l'orrore di Srebrenica, che
sembrava rappresentare, nella maniera più tragica e sanguinaria, il
fallimento di ogni idea di tolleranza e di convivenza pacifica e che
denunciava nel peggior modo possibile l'assenza politica dell'Europa
e l'ignavia dei suoi vertici politici nazionali.
Alex Langer è stato davvero, come ha
scritto qualcuno, “un uomo di frontiera senza frontiere”, che ha
saputo fare delle sue radici etniche e culturali non un elemento di
chiusura e di separazione, ma lo stimolo di una nuova idea di
appartenenza, un mattone da mettere in comune per costruire un nuovo
concetto di cittadinanza, facendo delle differenze e delle
specificità un elemento di unione e non di separazione, al di là
delle frontiere fisiche e dei confini mentali.
Il sito della Fondazione Alexander Langer
Il sito della Fondazione Alexander Langer
lunedì 2 luglio 2012
KOSOVO: NIKOLIC ANNUNCIA "NUOVO CAPITOLO" IN COLLOQUI BELGRADO-PRISTINA
Come ha raccontato Marina Szikora nella
corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda
il 28 giugno a Radio Radicale (vedi anche il relativo post su questo blog), i colloqui tra Belgrado e Pristina
potrebbero proseguire “ad un livello più alto”. Il neo presidente serbo, Tomislav Nikolic, ha infatti annunciato
"nuovo capitolo" nel dialogo con le autorità kosovare
intrapreso a marzo 2011 con la mediazione dell'Unione europea, per
volontà dell'allora capo dello Stato filo-europeista Boris Tadic,
dopo oltre tre anni di gelo seguiti alla proclamazione unilaterale
dell'indipendenza da parte degli albanesi kosovari.
Dopo la pausa dovuta alle elezioni tenutesi
in Serbia lo scorso maggio e ora che il suo Partito serbo del
progresso (Sns) si appresta a far parte di un governo nazionalista
moderato guidato del leader del Partito socialista serbo (Sps), Ivica
Dacic, il dialogo "dovrebbe essere elevato ad un livello più
alto" ha detto, Nikolic all'emittente belgradese B92, precisando che dei
colloqui con Pristina dovrebbe occuparsi il primo ministro, ma che è
pronto lui stesso ad assumerne la guida, qualora "il governo mi
desse mandato".
Per fissare la data ufficiale di
apertura dei negoziati di adesione con l'Unione europea, dopo aver
concesso lo status di Paese candidato, Bruxelles chiede a Belgrado
prima di tutto di applicare le intese già raggiunte con Pristina e
poi di conseguire concreti passi avanti nel processo di
normalizzazione delle relazioni. Nikolic ha riferito di una
conversazione avuta con l'alto rappresentante Ue, Miroslav Lajcak,
secondo il quale "la Serbia non può essere troppo ottimista
sull'apertura dei negoziati poiché loro (in Ue) sanno bene che ci
chiedono condizioni che non possiamo accettare", ha detto il
presidente serbo.
Il quale presidente, non può ovviamente deludere
il suo elettorato e contraddire le sue stesse ripetute posizioni, accettando il riconoscimento dell'indipendenza
della (ex) provincia. Però, proseguire i colloqui con la controparte
a livello di primi ministri o addirittura di presidenti può voler
dire proprio una sorta di riconoscimento, come hanno fatto notare
alcuni osservatori citati da Marina Szikora nella sua corrispondenza.
D'altra parte Nikolic non può nemmeno giocarsi i rapporti con Bruxelles
fallendo l'apertura dei negoziati di adesione e tradendo la svolta
moderata dopo i suoi trascorsi come “numero due”
dell'ultranazionalista radicale Vojislav Seselj e dopo le promesse
fatte prima e dopo l'elezione.
La cosa singolare di tutto ciò, in parte prevedibile, è che Nikolic potrebbe troversi, suo malgrado, a proseguire la politica del suo predecessore Tadic: quella
che per il Kosovo proponeva “più dell'autonomia e meno
dell'indipendenza” (senza mai spiegare bene cosa ciò volesse dire)
e che tentava di tenere insieme sovranità sul Kosovo e adesione
all'Ue. Dunque, a meno di scelte coraggiose e controcorrente, per ora non in vista, Nikolic rischia
di rinchiudersi in una strada senza uscita nella quale, anche a causa
della crisi europea, potrebe restare per molto tempo. Con quale
vantaggio, per i serbi (della Serbia e del Kosovo), ma anche per gli
stessi kosovari albanesi e per il resto della regione, è tutto da
capire. [RS]
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