Da FaiNotizia.It un ritratto della giovane generazione turca protagonista delle proteste di piazza di giugno e luglio contro il premier Recep Tayyip Erdoğan. Un video di Andrea Di Grazia, con la collaborazione con Ilknur Doganay, giornalista e traduttrice, Jenk K., pilota di droni telecomandati, e il fotografo Burac Baructu.
Realizzato dopo lo sgombero di Gezi Park, il documentario tratteggia l'immagine di un movimento nonviolento nato dal basso e diffusosi grazie ai social network e al semplice passaparola. I sei protagonisti spiegano (in lingua turca ed inglese con sottotitoli in italiano) origini e motivazioni del loro dissenso nei confronti della linea tradizionalista e repressiva adottata dal governo turco contro le proteste che ha provocato 4 morti durante gli scontri con la polizia, 8000 feriti ed oltre 5000 arresti, tra i quali anche quelli dei reporter italiani Daniele Stefanini e Mattia Cacciatori, liberati in seguito all'intervento dell'ambasciata italiana. Il racconto passa in rassegna l'idea di un'Europa che appare sempre più lontana e simbolo di modernità, di una democrazia saldamente ancorata alle tradizioni islamiche, le difficoltà ed i divieti imposti ai ragazzi in pubblico.
Guarda qui Gezi Park Generation
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“NON SI TRATTA DI UN ALBERO, MA DELLA
DEMOCRAZIA”.
Ovvero da piazza Taksim ad un diverso
futuro possibile
La protesta che tra giugno e luglio è
dilagata nelle strade della Turchia, e che ha avuto nella piazza
Taksim di Istanbul il suo epicentro, è stata molto di più e molto
altro che non gli scontri che abbiamo visto nelle cronache dei
telegiornali. Dal Gezi Park alle città dell'Anatolia teatro di
decine di manifestazioni, è sceso in piazza un popolo multiforme e
colorato fatto di giovani, studenti, intellettuali, massaie,
militanti politici autorganizzati, curdi, musulmani, atei, aleviti
che con i loro cartelli, i loro slogan e nelle loro assemblee
spontanee hanno cercato di proporre un'idea di libertà in cui
progettare una nuova convivenza possibile.
Tutto è partito dalla decisione delle
autorità di cancellare l'ultimo spazio verde del centro di Istanbul
per costruire al suo posto un centro commerciale, appartamenti di
lusso ed una moschea. All’inizio i manifestanti erano pochi. La
notte del 31 maggio la polizia è intervenuta duramente attaccando i
giovani che si trovavano nel parco e distruggendo l'accampamento. La
repressione violenta di quella protesta pacifica ha fatto scattare la
reazione: grazie ai social network e ai media indipendenti, la
rivolta è dilagata in decine di città di tutto il Paese, perfino
nell’Anatolia da cui proviene quella nuova classe dirigente e
imprenditoriale portata al potere da Erdogan e che in questi anni è
stata il motore del successo economico turco.
La protesta non riguardava più solo
gli alberi da salvare in un piccolo parco di Istanbul, ma ha espresso
il malcontento verso un primo ministro e un governo accusati di
metodi autoritari e repressivi. Nelle piazze è sceso un movimento
spontaneo e trasversale, non riconducibile a nessuna etichetta
politica o ideologica. Molti dei partecipanti non aveva mai preso
parte ad alcuna manifestazione politica. Ed è apparso subito chiaro
che “Taksim non era Tahrir”, che questa protesta non era affatto
assimilabile alle “primavere arabe”. La Turchia è una
democrazia, il premier Erdoğan è stato eletto per tre volte
attraverso elezioni regolari e il movimento di Gezi Parkı non
puntava alla caduta del governo. “Occupy Gezi Parkı” è diverso
e peculiare anche rispetto a “Occupy Wall Street” e agli altri
movimenti scesi in piazza in molti Paesi contro le misure adottate
dai vari governi per far fronte alla crisi economica.
Sotto accusa era la politica di Erdoğan
considerata autoritaria, moralistica e paternalistica, che fa sempre
più riferimento ai princìpi religiosi e rappresenta un regressione
rispetto ai principi di libertà e laicità su cui è stata fondata
la Turchia moderna. Il movimento partito da Gezi Parkı, al
contrario, proponeva un pensiero politico basato sul dialogo, che non
rifiuta i diversi orientamenti ideologici e religiosi presenti nella
società turca e proponeva una modalità di organizzazione e di
partecipazione nuova rispetto a quella codificata fino ad oggi nel
quadro politico turco così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi,
anche dopo la prepotente ascesa dell'Akp. A Gezi Parkı vi erano
luoghi di discussione e di confronto, spazi per la danza, la lettura,
l'espressione artistica e per i bambini, proiezioni e concerti.
Un'organizzazione libera e sperimentale, senza gerarchie
prestabilite.
Ciò che si è coagulato al Gezi Parkı
di Istanbul ed è poi dilagato nelle piazze di tante altre città è
un malcontento che da anni cova nelle pieghe della parte più
consapevole della società turca, di un Paese, cioè, che ha vissuto
nell'ultimo decennio uno straordinario successo economico, ma che
resta agli ultimi posti della classifiche mondiali sulla libertà di
espressione e in cui la forte coscienza nazionale viene declinata da
tutti i principali partiti in un nazionalismo intollerante usato come
arma per controllare le minoranze e ostacolare il dissenso. Il
malessere è esploso per la difesa di qualche centinaio di alberi, ma
ciò che è in gioco, in realtà, è il futuro della democrazia turca
e la speranze di una generazione che chiede libertà di parola, di
religione, di pensiero e di scelte di vita e un pieno rispetto dei
diritti umani e civili. La protesta è ferma, per ora, ma il
malcontento è sempre tutto lì. [RS]
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