Qui di seguito riporto un articolo di Sabine Freizer, a lungo responsabile del Programma Europa dell'International Crisis Group, pubblicato originariamente sul quotidiano Today's Zaman
il 2 giugno scorso e tradotto in italiano sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso.
Turchia: reclamare il proprio spazio
C'era il sapore della vittoria quando i dimostranti di Istanbul, il
primo giugno, hanno riguadagnato Piazza Taksim, il cuore della città. Le
proteste erano iniziate qualche giorno prima quando un piccolo gruppo
di attivisti aveva bloccato le ruspe pronte a sradicare gli alberi del
Parco Gezi, proprio dietro la piazza centrale di Taksim, il primo passo
per la costruzione di un grande edificio al posto della zona verde.
I manifestanti hanno organizzato un sit-in pacifico contro il quale
la polizia è intervenuta più volte con un uso eccessivo della forza.
Poi, il 31 maggio, dopo che la polizia aveva transennato il parco, la
protesta si è riversata nelle strade di Taksim, dove per tutto il giorno
la polizia ha lanciato lacrimogeni contro la gente che si assemblava
nella piazza centrale, lungo la principale arteria pedonale di Taksim,
İstiklal Avenue o nelle strade vicine.
Infine, nel pomeriggio del primo giugno, sono scesi in piazza in
migliaia per protestare contro l'atteggiamento della polizia e
quest'ultima si è ritirata.
I cittadini di Istanbul hanno dimostrato di essere in grado di
reclamare il loro spazio pubblico. Ma cos'altro hanno dimostrato questi
eventi della vita politica e della democrazia in Turchia?
Chiaramente, non si è trattato di alcuna “Primavera araba” o “Rivolta
di piazza Tahir”, come troppo in fretta è stato affermato da alcuni sui
social media, nei primi sovreccitati momenti. Come ha subito ricordato
il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, la Turchia è una
democrazia e chiunque abbia problemi con la politica espressa dal
governo può scegliere una via diversa alle elezioni.
Ciononostante questi eventi mostrano l'esistenza di un forte senso di
frustrazione nei confronti della situazione politica nel paese. Molte
delle persone che sono scese per strada hanno la sensazione che la loro
voce non venga più ascoltata.
Nelle ultime elezioni, tenutesi nel giugno 2011, quasi il 50% delle
preferenze sono andate al Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP),
il 26% al Partito repubblicano del popolo (CHP) e il 5,5% al Partito di
Azione nazionalista (MHP). Da allora l'AKP, e in particolar modo il
primo ministro, hanno in modo incrementale fatto pesare la propria
posizione di maggioranza, di contro l'opposizione è stata incapace di
guadagnare spazio.
Nel frattempo, i media hanno perso gran parte della loro voce.
Giornalisti sono stati licenziati o coinvolti in casi di diffamazione
per il loro atteggiamento critico o per i loro articoli di giornalismo
investigativo. Secondo il Comitato per la difesa dei giornalisti (CPJ)
quasi 50 giornalisti sarebbero attualmente dietro le sbarre. Se vi è un
po' di coraggioso dibattito sulla carta stampata e sui social media,
dove alcuni commentatori hanno migliaia di follower, la televisione
turca sembra invece, a volte, quasi sovietica.
Nel fine settimana, mentre gli scontri stavano proseguendo nel centro
di Istanbul e in altre città, la maggior parte dei principali canali
televisivi mandavano in onda programmi culturali e di intrattenimento. I
turchi o si sintonizzavano su un canale pressoché sconosciuto, “Halk
TV” (TV della gente) oppure si rivolgevano ai social media. Mentre la
CNN International andava in onda con dirette da Piazza Taksim, la sera
del primo giugno, la CNN Turchia faceva vedere delfini e pinguini.
Da notare che questo è un momento chiave della politica turca, i
legislatori stanno riscrivendo la costituzione. Non dovrebbe forse
essere la prospettiva dell'adozione di una nuova costituzione a
promuovere il dibattito e la partecipazione? Ma se nel 2012, si erano
tenuti alcuni incontri pubblici sul tema, da allora il dibattito sulla
nuova carta si è svolto perlopiù dietro le porte chiuse della relativa
commissione parlamentare.
Anche in questo caso i media non hanno aiutato. Le notizie in merito
sono state quasi sempre negative: la commissione non riesce a trovare
l'accordo; alla commissione sono stati dati altri tre mesi; l'AKP sta
per riunire e proporre un proprio testo. Sino ad ora la grande
maggioranza dei cittadini turchi non ha sentito alcun senso di
responsabilità e partecipazione nel processo.
Gli eventi dei giorni scorsi possono cambiare le cose.
Le dimostrazioni, partite per difendere un parco, si sono presto
trasformate in aperta contestazione al primo ministro. La sua linea dura
e intransigente dimostrata la mattina del primo giugno, e la sua
decisione di continuare con i progetti di eliminazione del Parco Gezi,
hanno contribuito a spingere in strada molti cittadini di mezz'età di
Istanbul che si stavano ancora chiedendo se erano stati sufficientemente
“attivisti” nell'affrontare i lacrimogeni della polizia. Nei successivi
cortei di massa uno dei principali slogan è stato “Erdoğan,
dimettiti”.
Il primo ministro è ben lontano dal lasciare il suo posto, e
probabilmente ha ancora il sostegno del 50% degli elettori del paese. Vi
sono voci secondo le quali le riforme costituzionali possano essere
utilizzate dall'AKP per trasformare il paese in un sistema
presidenziale, con Erdoğan che andrebbe ad assumere il nuovo - e
potenziato - ruolo di presidente alle elezioni del 2014. Dato un mandato
di 5 anni, se eletto due volte, Erdoğan potrebbe restare alla guida
della Turchia per un altro decennio, sino al 2023, il centesimo
anniversario dalla fondazione del paese.
Le proteste di Istanbul hanno dimostrato di cosa sono in grado i
cittadini se si uniscono, attraversando linee di divisione religiose,
economiche e ideologiche. Ma mostrano anche tutti i limiti delle azioni
per strada in una democrazia che si basa sullo stato di diritto.
Le prossime battaglie dovrebbero infatti avvenire in parlamento e
alle elezioni, ed il 2014 in questo senso - con le elezioni
amministrative e presidenziali ed un possibile referendum sulla nuova
carta costituzionale - potrebbe fornire ampie possibilità. Per per non
dissipare tale opportunità i media, i partiti politici e le élites di
governo devono però iniziare a prendere sul serio i loro ruoli
democratici. E' tempo di reclamare uno spazio nella solita - ma
essenziale – politica.
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