di Riccardo De Mutiis [*]
Le guerre jugoslave, come è noto,
hanno rivoluzionato la geografia politica dei Balcani; infatti hanno
determinato la nascita di 6 nuove entità statali (le ex repubbliche
federate jugoslave) e, probabilmente, anche di una settima (l’ex
provincia autonoma del Kosovo). Ma i conflitti che hanno infiammato
la ex Jugoslavia dal 1991 al 1999 hanno generato anche una ulteriore
conseguenza, ossia l’istituzione di un organismo che ha l’obiettivo
di giudicare le ipotesi di reato che traggono origine e vita da quei
conflitti: il Tribunale Penale per i crimini commessi nell’ex
Jugoslavia, con sede a L’Aja (ICTY - International Criminal
Tribunal for the former Yugoslavia). Al di là di quella che è la sua
funzione istituzionale, di natura giuridica, il Tribunale Penale ha
anche una connotazione politica e non solo perché è stato creato
proprio da una organizzazione politica, quale l’ONU, ma anche
perché le sue decisioni hanno una inevitabile ricaduta sulla
politica interna ed internazionale degli Stati interessati da quelle
decisioni, quali Serbia, Croazia, Bosnia e Kosovo.
In questa sede si intende esaminare un
aspetto particolare, di natura politica, o meglio storica, che è
conseguito alla assoluzione in appello dei generali croati Gotovina e
Markac da parte dell’ICTY, e cioè il riemergere, a distanza di
anni, di personaggi ed istituzioni che erano stati tra i protagonisti
della fase bellica e quella post bellica. Gli attori che, dopo un
decennio di silenzio, sono tornati alla ribalta, sono tre: Carla Del
Ponte, la Chiesa cattolica croata e la Chiesa ortodossa serba.
La Chiesa ortodossa serba fu la prima,
in ordine temporale, a fare il suo ingresso nel periodo che si
concluse con la disgregazione della ex Jugoslavia: erano gli anni
della dittatura di Milosevic ed il clero ortodosso decise di
cavalcare la tigre del nazionalismo serbo, forse per recuperare quei
consensi che aveva perso a causa della impostazione ateista ed
antireligiosa del regime di Tito (all’epoca circa l’80 % dei
serbi non era battezzato). Un atteggiamento, quello del Patriarcato
serbo, che rappresenta un'eccezione nel mondo ortodosso, le cui
gerarchie, a cominciare da quella russa, sono generalmente più
restie di quelle cattoliche ad interessarsi degli affari temporali.
L’evento che segna in modo inequivocabile la presa di posizione
della Chiesa ortodossa avviene il 1° agosto 1994, quando
l’autorevole Patriarca di Belgrado, Pavle si reca nella cittadina
di Dalj, dove erano stati massacrati diversi croati (da 40 a 150, a
seconda delle fonti), per celebrare una solenne messa in memoria
delle vittime serbe delle violenze degli ustascia durante la seconda
guerra mondiale e per consacrare un vescovo. E lo stesso Pavle si
recò nel 1994 in Bosnia a Pale, la capitale dei serbo-bosniaci, per
esprimere la solidarietà al governo di Karadzic e condannare il
governo di Milosevic che, sotto la pressione della comunità
internazionale, aveva deciso di interrompere i rapporti politici ed
economici con i connazionali d’oltre Drina.
Le parole pronunciate in quella
occasione dal patriarca meritano di essere ricordate: “Con il
pilatesco lavacro delle mani nel sangue dei fratelli in pericolo,
sotto la pressione dei potenti del mondo, nulla verrà salvato, ma si
perderà la faccia e l’anima e la dignità personale e nazionale”. E Pavle si recò di nuovo a Pale nel
1995, per esprimere di nuovo il suo appoggio al regime di Karadzic e
quindi al suo progetto di conquista manu militari della Bosnia o di
buona parte di essa: “Esiste una guerra giusta in cielo”, disse
il patriarca in quella occasione, “perciò esiste anche in terra”.
Una presa di posizione esplicita, quella della Chiesa ortodossa serba
che le valse l’appellativo di “Armata jugoslava dello spirito“,
coniato dall’acuto scrittore serbo Mirko Kovac. A partire dalla fine delle guerre, e
quindi dalla fine del millennio scorso, la Chiesa ortodossa serba si
ritrae progressivamente dall'agone politico. Una delle cause di tale
mutamento di rotta è sicuramente rappresentata dalla scomparsa dalla
scena di Pavle, ultranovantenne e molto malato, e quindi non più in
grado di svolgere le sue funzioni, tanto da essere sostituito
nell’esercizio delle stesse dal Metropolita Amfilohije. A ciò si
aggiunga che l’amaro epilogo delle guerre civili e la presa di
distanza di parte della popolazione e quindi di parte dei fedeli
serbi dalle posizioni nazionaliste consigliavano alle gerarchie
ortodosse un atteggiamento più cauto, meno impegnato politicamente
e più concentrato a sostenere spiritualmente la comunità serba,
duramente provata sotto il profilo economico e psicologico dalle
vicende belliche.
Carla Del Ponte compare nello scenario
ex jugoslavo nel 1999, quando viene nominata procuratrice dell’ICTY,
e si distingue subito per l’energia con cui svolge il suo incarico
e per la fermezza con cui difende gli interessi della giustizia
internazionale nei confronti dell’ONU (l’organismo che ha creato
il Tribunale), di cui respinge le censure di invasione della sfera
politica, e degli Stati di cui sono cittadini coloro che sono
indagati dalla Procura da lei diretta (Serbia, Croazia e Kosovo), di
cui lamenta la mancanza di collaborazione, con specifico riferimento
alle richieste di ricerca degli imputati e del materiale probatorio.
La Chiesa cattolica croata entra in
campo nel 2005, non per sua iniziativa, ma a seguito di una precisa
accusa mossale proprio della Del Ponte, che sosteneva che uno dei
principali ricercati del Tribunale, il generale croato Ante Gotovina,
si nascondeva in un monastero francescano in Croazia. Convinta di
tale tesi, la procuratrice si reca anche a Roma per chiedere la
collaborazione dello Stato della Città del Vaticano al fine di
ottenere la consegna di Gotovina, ma si scontra, a suo dire, con un
atteggiamento ostruzionistico delle alte gerarchie della Santa Sede:
l’episodio viene raccontato dalla Del Ponte nel suo libro "La
caccia" e in una intervista al prestigioso Daily Telegraph. Appena
un mese dopo Gotovina viene arrestato, non in un monastero croato, ma
in un posto molto lontano dalla Croazia, le isole Canarie, e
sorprende che la Del Ponte non abbia sentito la necessità di
scusarsi per la gratuita ed infondata accusa rivolta alla Chiesa
cattolica croata. Con la cattura di Gotovina la Chiesa cattolica
croata e la Del Ponte escono dallo scenario della dissoluzione della
ex Jugoslavia, da cui la Chiesa ortodossa serba, come si è visto, si
era già ritirata da qualche anno. Vero è che il mandato della Del
Ponte cesserà solo nel 2007, ma negli ultimi anni trascorsi alla
guida della Procura il magistrato svizzero, nelle more nominata anche
al vertice della Procura del Tribunale internazionale per crimini
commessi nel Ruanda, si occuperà quasi esclusivamente di processi e
quindi non interagirà più con le istituzioni religiose e politiche
degli Stati sorti a seguito della fine della Jugoslavia.
Tutti gli attori della vicenda che
abbiamo ricostruito, dopo un lungo letargo, ricompaiono nel quadro
politico ex jugoslavo a seguito della sentenza di assoluzione dei
generali croati Gotovina e Markac, pronunciata dalla Corte di Appello
dell’ICTY (come è noto in primo grado i due erano stati condannati
a pesanti pene detentive) novembre 2012. Se è vero che la Chiesa
cattolica croata nel 2005 si era rivelata del tutto estranea alle
accuse, mossele dalla Del Ponte, di proteggere Gotovina, è
altrettanto vero che il comportamento tenuto dalla curia di Zagabria
in occasione dell'assoluzione dello stesso generale da parte della
Corte olandese, non può essere definito discreto. Al contrario, i
vertici dell’episcopato croato hanno dato all’evento una
connotazione religiosa, celebrando in onore di Gotovina e Markac un
te deum di ringraziamento nella cattedrale di Zagabria. Un
atteggiamento che ha acuito il senso di frustrazione dei serbi per
una sentenza che essi sentono come profondamente ingiusta e che ha
avuto, inevitabilmente, un riscontro da parte della Chiesa ortodossa
serba, il cui nuovo Patriarca, Irinej, ha a sua volta officiato una
messa per le vittime serbe delle guerre civili jugoslave, a cui ha
assistito anche il primo ministro Dacic, e nel corso dell’omelia ha
affermato che “l’ICTY è un Tribunale politico, il cui obiettivo
è proclamare innocenti i colpevoli e colpevoli gli innocenti”. Il
commento di Irinej ricalca fedelmente quelli del presidente serbo
Nikolic e dello stesso Dacic, ma può essere affrettato dedurre da
tale uniformità di valutazioni una nuova deriva nazionalistica della
chiesa ortodossa.
La presenza della Del Ponte in questo
deja vu ha un significato del tutto diverso rispetto al passato. Il magistrato, per il fatto di avere
perseguito diversi personaggi serbi e soprattutto per il fatto di
avere incriminato ed ottenuto la consegna di Milosevic, era forse, un
decennio fa, la figura più invisa ai serbi. Prova di tale avversione
erano le frasi sui muri di Belgrado, ostili al giudice svizzero
scritte, curiosamente, in italiano: in Serbia infatti molti erano
convinti che la Del Ponte, a causa del suo cognome, fosse di
nazionalità italiana. E d’altronde anche chi scrive è stato
testimone diretto di tale avversione: nel 2008 infatti mi trovavo in
un locale pubblico a Belgrado ed alcuni avventori ritennero di dovere
criticare il libro che stavo leggendo, o meglio l’autrice dello
stesso, appunto la Del Ponte (il libro era “La caccia” ed ha per
oggetto le indagini svolte dal giudice quale procuratore dell’ICTY:
solo nel 2012 il libro è stato tradotto in serbo con il titolo Gospodja Tuziteljka, ossia “Signora Procuratrice”).
Nonostante tali precedenti frizioni, la posizione dei serbi e quella
del Del Ponte, una volta nemici irriducibili, vengono a coincidere in
occasione dell'assoluzione in appello di Gotovina. La Del Ponte, che
aveva sostenuto l’accusa nei confronti del generale croato nel
processo di primo grado ottenendone la condanna ad una lunga pena
detentiva, viene chiamata in causa dai media serbi, che le chiedono
di commentare la sentenza d’appello. Ed il magistrato si dichiara
sorpreso dell'esito del giudizio di secondo grado, di cui tuttavia si
riserva di esaminare le carte per esprimere un giudizio più
approfondito, e conferma comunque la propria convinzione circa la
colpevolezza del generale croato.
La teoria vichiana dei corsi e ricorsi
storici, come si vede, trova applicazione anche nel contesto serbo,
ma quello che sorprende, e che conferma in un certo senso il
carattere assolutamente particolare delle vicende dell'ex Jugoslavia,
è la ciclicità con cui da quelle parti gli eventi si ripetono e
condizionano, si potrebbe dire forse ossessionano visto il richiamo
sistematico delle vicende del passato al tempo delle guerre civili,
il presente.
[*] Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi pezzi: per ritrovarli clicca qui.
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