|
Il logo ufficiale delle Olimpiadi di Sarajevo
|
Trent'anni fa, si svolse a Sarajevo la
XIV edizione dei Giochi Olimpici Invernali. C'era aria di festa quel
8 febbraio nella captale della Bosnia Erzegovina, quando la fiamma
olimpica fu accesa nello stadio Kosevo. E c'era anche tanta neve. Fu
la prima olimpiade invernale tenutasi in un paese comunista. Fu un
primato per numero di partecipanti con quasi 1300 atleti arrivati da
quarantanove paesi che furono visti da due miliardi di
telespettatori. Per la prima volta i disabili gareggiarono nello
slalom gigante, seppure come sport dimostrativo. E per la prima volta
la Jugoslavia conquistò una medaglia ai Giochi invernali. Quando nel
1977 Sarajevo si candidò a ospitare le Olimpiadi invernali, pochi
erano disposti a credere che il sogno si sarebbe trasformato in
realtà. Meno di dieci anni dopo quel sogno si trasformò in un
incubo: quello della guerra e del più lungo assedio della storia
bellica moderna. Le strutture olimpiche, simbolo della storia e della
vita in comune dei popoli jugoslavi, furono tra i primi bersagli dei
bombardamenti. Per molti, le Olimpiadi di Sarajevo furono l'ultimo
episodio di vita della Jugoslavia, forse l'ultima illusione: dietro
la facciata covavano le tensioni ed erano già all'opera le forze che
avrebbero condotto alle guerre degli anni '90. Forse anche per
questo, il ricordo di quei Giochi è rimasto nella memoria di tanti
nella ex Jugoslavia. A Sarajevo i simboli delle Olimpiadi sono ancora
tra i souvenir più venduti ai turisti e i segnali stradali indicano
ancora “la montagna olimpica”. Anche se oggi i serbi sciano sul
monte Jahorina e i bosniaci sul Bjelašnica.
Mentre a Sochi sono cominciate le
Olimpiadi invernali, riporto qui di seguito il pezzo molto bello
pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso in cui Azra Nuhefendic
racconta quei giorni di trent'anni fa quando Sarajevo, imbiancata
dalla neve, per un paio di settimane si sentì al centro del mondo e
non per le notizie di bombardamenti e massacri.
|
8 febbraio 1984: la fiamma olimpica brilla su Sarajevo |
Sarajevo 1984, i Giochi Olimpici della
Jugoslavia
Un metro di neve e venti gradi sotto
zero! Nessuno ci faceva caso in Bosnia. Si pulivano le strade
principali, si scavava un sentiero nella neve per collegare la casa o
il portone con la strada, e la nostra vita procedeva come al solito.
Talvolta già all’inizio di ottobre
nevicava. Si andava al ristorante per una cena e quando si usciva,
nelle ore piccole, ci aspettava la prima neve. Tap-tap, sulle punte
delle scarpe leggere ed eleganti, cercavi di passare per la strada
imbiancata, senza scivolare o cadere. La neve rimaneva fino ad
aprile, qualche volta anche di più. Capitava che sulle montagne
intorno a Sarajevo nevicasse in piena estate. I giornali locali
riportavano la notizia, ma nessuno si stupiva.
Poteva succedere che, in primavera, uno
se ne andasse tutto tranquillo per i boschi sul monte Bjelašnica, a
sud-ovest di Sarajevo, in un clima normale, e che dopo dieci minuti
si trovasse nel mezzo di una tormenta di neve. Anche quelli che
conoscevano la montagna, talvolta rischiavano di perdersi o rimanere
sotto la neve, come ad esempio era successo a undici giovani bravi
sciatori che, negli anni Sessanta, persero la vita durante una
tempesta imprevedibile sul monte Bjelašnica.
Nevica?
La neve da noi, insomma, non è mai
stata un problema. Ne avevamo sempre in abbondanza. Ma all’inizio
del febbraio 1984 la sua inspiegabile assenza ci tormentava. Circa
quattro milioni di bosniaci ed erzegovesi scrutavano il cielo
aspettando la neve, ci svegliavamo di notte per controllare se avesse
cominciato, la prima domanda di mattina al risveglio era: “Nevica?”
Accusavamo i meteorologi di aver sbagliato i calcoli e chi era
religioso pregava affinché nevicasse. Invano. Per ogni eventualità
erano pronti anche i cannoni per fare la neve artificiale, ma la
precauzione ci pareva esagerata. Nei cento anni precedenti ai XIV
Giochi Olimpici, a Sarajevo e dintorni era sempre caduta la neve.
Il giorno prima dell’inizio dei
Giochi a Sarajevo, il 7 febbraio 1984, il tempo era primaverile. Non
si vedeva neanche un fiocco di neve.
Mi veniva da piangere, mi sembrava una
vera e propria ingiustizia. Molti altri si sentivano come me.
Tutto era già pronto un anno prima che
cominciassero i Giochi: era stato costruito il nuovo villaggio
olimpico, nuovi alberghi erano stati aperti ed erano stati
ristrutturati i vecchi, era stata recuperata e sistemata la parte
antica ottomana della città, la Baščaršija, che era in rovina, e
rischiava di essere distrutta per costruirne una “più bella e più
antica”. Le principali strade della città erano state rifatte e
allargate, le facciate dei palazzi dipinte, le rotaie dei tram
elettrici cambiate, la stazione centrale restaurata, sui monti
intorno a Sarajevo: Jahorina, Bjelašnica, Igman, e Trebević, erano
state costruite tutte le strutture necessarie per i Giochi olimpici
invernali.
A Sarajevo sono tutti così
Alcune migliaia di giovani di tutta la
Bosnia ogni giorno si esercitavano nel provare la coreografia per la
cerimonia di apertura e di chiusura delle Olimpiadi. In merito a
questo, il principale quotidiano giapponese “Yomiuri Shimbun”
chiedeva con un titolo su tutta la prima pagina: “Dove hanno
trovato tutte quelle bellissime ragazze e quei ragazzi alti?”, e
poi con il sottotitolo ribatteva: “A Sarajevo sono tutti così”.
Per evitare il rischio che qualcuno mancasse a causa dell’influenza,
tutti si erano immunizzati con vaccini potenti “quelli per i
cavalli”, mi dice scherzando Vanja. Lei e Svjetlana, due bosniache,
triestine adottive, avevano partecipato ai Giochi. Oggi, trent’anni
dopo, ancora belle e alte, con nostalgia si ricordano dei tempi delle
Olimpiadi di Sarajevo.
Nella fase preparativa per le
Olimpiadi, più della neve ci preoccupava la nebbia. Anche quella, a
Sarajevo e dintorni, è sempre presente. Per far funzionare
l’aeroporto locale sotto la nebbia fitta, i nostri ingegneri
avevano preparato delle sostanze chimiche che, all’occorrenza,
potevano - proprio come diceva un’antica canzone bosniaca “duni
vjetre, malo sa Neretve, pa rastjeraj maglu po Mostaru” - far
sparire la nebbia. Tutto era pronto e perfetto, migliaia di sportivi,
giornalisti e decine di migliaia di ospiti erano già in città.
Mancava solo la neve.
Volevo partecipare in qualche modo a
quell’evento, rendermi utile… Sarei stata contenta se avessi
potuto spalare la neve, tenere un palo, indicare la via per il WC,
qualsiasi cosa. Mandai la richiesta per fare la volontaria a varie
commissioni, ma non mi presero. Ci lavoravano già trentamila
persone, di cui la metà erano volontari, da tutta la Jugoslavia.
Nella costruzione delle strutture olimpiche sui monti partecipavano i
giovani volontari organizzati nelle brigate di lavoro (radne
brigade). E nei giorni delle Olimpiadi quattrocento camerieri di
tutta la Jugoslavia erano a Sarajevo per servire gli ospiti.
Il centro del mondo
La sera prima dell’inizio dei giochi
non potevo starmene in casa mentre, pensavo, la storia raggiungeva la
mia città. Sarajevo splendeva, le strade erano affollate, i negozi,
i ristoranti e i bar erano aperti tutta la notte, pieni di gente.
Migliaia di persone giravano su e giù, si parlava ad alta voce,
quelli che non riuscivano a comunicare in una lingua straniera
facevano amicizia a gesti, si facevano le foto, si rideva, così,
senza motivo, solo perché noi sarajevesi eravamo raccolti là,
insieme agli ospiti, per un evento grande, bello, importante. Ci
pareva di essere nel centro del mondo.
In una tale atmosfera cominciò a
nevicare. Ancora oggi ricordo di preciso dov’ero: in via Vase
Miskina, oggi Ferhadija, là dove inizia la parte antica della città,
la Baščaršija. C’era gente che saltava dalla gioia, altri si
tenevano per mano e ballavano, qualcuno urlava. Io ridevo in modo
incontrollabile, tenevo le braccia aperte, giravo intorno a me stessa
con la faccia rivolta in alto. Volevo sentire i fiocchi di neve sul
mio viso.
Credo che quella volta, molti capi
comunisti (che da noi obbligatoriamente erano atei) avessero
ringraziato Dio.
Nevicava sul serio, tutta la notte.
Cadeva una neve bellissima, secca, quella che non si scioglie subito
ma rimane a terra. I fiocchi di neve erano grandi ed eleganti come
farfalle. All’inizio la neve scendeva piano e timidamente, poi
sempre più forte e fitta. Pareva che qualcuno lassù avesse aperto
un sacco e non riuscisse più a controllare la velocità con la quale
quel sacco si svuotava.
Prima eravamo preoccupati perché
mancava la neve, poi la situazione si invertì. In poche ore c’era
più di un metro di neve. Bisognava livellare con urgenza le piste
sciistiche. Il presidente della Federazione internazionale per lo
sci, Marc Hodler, preoccupato, aveva chiesto al presidente del
Comitato Olimpico bosniaco, Branko Mikulić, come pensava di
risolvere il problema. “Ci vogliono mille persone per spianare le
piste, dove le trovate a quest’ora?”, chiedeva Holder. Secondo i
testimoni, Branko Mikulić aveva risposto: “Potrebbero bastare,
secondo lei, cinquemila?”.
Una fiaba
Per radio i cittadini furono invitati a
correre in aiuto. In migliaia avevano risposto e avevano lavorato
tutta la notte, compresi i soldati dell’Armata Popolare Jugoslava.
La mattina dopo, le piste erano perfette e tutta la città pulita e
ordinata. “Eravamo così entusiasti, acchiappavamo i fiocchi di
neve ancora prima che cadessero per terra”, si ricorda trent’anni
dopo il signor Meho S., un tassista di Sarajevo.
Erano momenti magici, sembrava di
vivere in una fiaba. Infatti, i XIV Giochi Olimpici invernali di
Sarajevo, nel 1984, per molti aspetti potevano considerarsi un
miracolo.
Nel 1977 un tale era stato preso in
giro perché aveva proposto Sarajevo per ospitare i Giochi olimpici
invernali. Nessuno ci credeva. Una volta i giochi olimpici venivano
organizzati dai paesi ricchi e occidentali. Fu, e lo è ancora, un
evento di grande prestigio, costoso, una sorta di vetrina, dove
l’organizzatore fa vedere al mondo il meglio di sé, e nello stesso
tempo un biglietto da visita per la scena internazionale. Sarajevo,
per vincere, doveva prima convincere gli scettici a casa propria. La
candidatura doveva essere approvata dal partito comunista e dal
governo della repubblica di Bosnia Erzegovina, e poi approvata e
sostenuta dal governo Federale.
Altre repubbliche della Jugoslavia
consideravano la Bosnia un “tamni vilajet” (un mondo tenebroso,
retrogrado), una sorta di cugino povero che merita simpatia e aiuto,
ma niente di più. Di conseguenza, la prima reazione delle altre
repubbliche fu una forte incredulità. Infine, l’approvazione a
casa fu ottenuta. A livello internazionale, Sarajevo si trovò a
competere con Sapporo, in Giappone, e con la congiunta candidatura di
due città svedesi, Falun e Göteborg.
Dopo aver fatto l’ultima visita a
Sarajevo per verificare la sua capacità per un evento internazionale
di tale importanza, Marc Hodler, aveva riferito al Comitato olimpico:
“La Bosnia Erzegovina è un paese che si sta sviluppando in fretta,
la gente vive libera e felice”.
Prima della votazione, la giornalista
inglese Pet Bedford scrisse: “Se scegliete Sapporo, i giapponesi vi
organizzeranno un aereo per visitare Tokio; se optate per Falun e
Göteborg, gli svedesi vi faranno vedere i fiordi e gli iceberg. Ma
se la vostra scelta ricadrà sulla Jugoslavia e Sarajevo, troverete
gente amichevole, di gran cuore, e meravigliose montagne”.
L'Olimpiade comunista
I XIV Giochi Olimpici Invernali di
Sarajevo si tennero dall’8 al 19 febbraio del 1984. Fu un evento
con parecchi record e senza precedenti. Fu la prima olimpiade
invernale tenutasi in un paese comunista. Fu un primato per il numero
di partecipanti pervenuti da quarantanove paesi, con 1.272 atleti
(274 donne, 998 uomini), che competevano in trentanove discipline,
seguiti da 7.393 giornalisti e visti da due miliardi di
telespettatori. Gli organizzatori avevano venduto 250 mila biglietti,
complessivamente avevano guadagnato 47 milioni di dollari. Grazie ai
Giochi furono creati 9.500 nuovi posti di lavoro.
Per la prima volta, come sport
dimostrativo, alle Olimpiadi invernali i disabili gareggiarono nello
slalom gigante, e per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, la
coppia di pattinatori artistici sul giaccio, Jayne Torvill e
Christopher Dean, dall’Inghilterra, ricevette il massimo del
punteggio.
Le Olimpiadi invernali di Sarajevo
lanciarono inoltre una delle icone sportive più grandi del tardo
ventesimo secolo, la pattinatrice della Germania Est (che all’epoca
esisteva come paese indipendente) Katarina Witt, che vinse la
medaglia d'oro.
Per la prima volta la Jugoslavia
conquistò una medaglia nelle Olimpiadi invernali. Lo sciatore
sloveno Jure Franko, infatti, vinse l’argento nello slalom gigante,
portando l’intera nazione in trance. Durante la premiazione, di
fronte al centro sportivo-culturale “Skenderija”, decine di
migliaia di persone urlavano: “Volimo Jureka, više od bureka”
(Ci piace di più Jurek che il burek, cioè il piatto preferito
nazionale).
“Erano tempi diversi, e anche i
valori erano diversi. Ci avevano promesso, nel caso vincessimo, di
regalarci un videoregistratore. Ed io ragionavo: se corro bene nel
secondo turno, porterò a casa un videoregistratore”, ricorda Jure
Franko.
Juan Antonio Samaranch intervenne alle
Olimpiadi di Sarajevo per la prima volta in veste di presidente del
Comitato olimpico internazionale. Nel suo discorso in occasione della
chiusura dei Giochi, Samaranch disse: “Il movimento olimpico si è
arricchito. Per la prima volta i giochi olimpici sono stati
organizzati da un popolo”. Quella volta tra la città e il
dignitario nacque un’amicizia che durò vent’anni, fino alla
morte di Samaranch.
La fine della storia
Nei primi mesi della guerra, nel 1992,
molti edifici olimpici furono distrutti, bersagliati apposta, come
tutto quello che documentava la storia e la vita comune dei bosniaci
e degli erzegovesi. Il centro sportivo “Zetra”, con la magnifica
sala del ghiaccio, che era stata il palcoscenico del pattinaggio e
della cerimonia di chiusura delle Olimpiadi, fu bombardata e
incendiata, rimasero solo le sue fondamenta. Il centro “Skenderia”,
il museo olimpico, gli alberghi sulle montagne… tutto demolito.
Già nell’aprile 1992, sul monte
Jahorina, i serbi si erano appostati con i kalashnikov alla partenza
dello skilift, per farsi pagare il biglietto. Il monte Trebević,
così vicino, tanto che lo consideravamo la montagna del nostro
cortile, non è più lo stesso per i sarajevesi. Dopo la guerra,
molti non ci sono più tornati. Là era stata costruita la pista di
bob, minata durante la guerra. Oggi è abbandonata, vi si aggirano
solo alcuni coraggiosi per raccogliere le pallottole vuote e venderle
agli artigiani che le utilizzano per fare i souvenir.
I villaggi olimpici, Mojmilo e
Dobrinja, erano stati progettati per diventare i nuovi quartieri
della città. È una bella zona, larga, vicino all’aeroporto dove,
dopo i giochi, furono distribuiti 2.750 appartamenti moderni a chi
non li aveva.
All’inizio della guerra, nell’aprile
1992, il quartiere di Dobrinja fu pesantemente bombardato. I serbi
cercarono di occuparlo, invano. Rimase per tutta la durata della
guerra assediato e isolato dal resto di Sarajevo, subì una sorta di
assedio nell’assedio. Gli abitanti, gente mista di tutte le etnie e
religioni, hanno lottato, e la loro è una storia di coraggio e
resistenza esemplare. Oggi per Dobrinja passa la linea invisibile
della Sarajevo divisa.
Nel 1994 a Lillehammer, in Norvegia, si
tennero i XVII giochi invernali. Samaranch aveva interrotto la sua
presenza là ed era tornato a Sarajevo, per mostrare la sua
solidarietà verso la città e i cittadini. Con il suo arrivo nella
Sarajevo assediata, Samaranch aveva mostrato il coraggio e la grinta
che all’epoca mancava a tanti politici.
“Con aria di sfida, come se non vi
fosse alcun pericolo dalle colline, ma visibilmente scosso, Samaranch
stava fermo sulle rovine del centro sportivo “Zetra” dove, dieci
anni prima, aveva dichiarato chiuse le Olimpiadi invernali. Per noi
era il segnale che non saremmo morti, che non eravamo stati né
abbandonati né dimenticati. Gli eravamo così grati... La gente
veniva a salutarlo, a toccarlo”, si ricorda il direttore del Museo
Olimpico di Sarajevo, Edo Numankadić.
In quell’occasione Samaranch aveva
promesso che avrebbe fatto di tutto per ricostruire il centro
olimpico “Zetra”. La sua promessa fu mantenuta e, nel 1999, il
centro “Zetra” fu ricostruito e aperto.
Trent'anni dopo
In questi giorni a Sarajevo si stanno
preparando le celebrazioni per i trenta anni delle Olimpiadi
invernali (1984 – 2014). I festeggiamenti si organizzano anche nel
mondo, dove - dopo la guerra - sono finiti un milione di bosniaci. A
Melbourne, in Australia, gli organizzatori invitano i connazionali “a
rivivere i giochi invernali, per stare insieme e accendere, per un
attimo, la fiamma dentro di noi”.
I simboli delle Olimpiadi, trent’anni
dopo, sono ancora presenti a Sarajevo. La mascotte “vučko” (il
lupacchiotto) oggi è il souvenir più venduto ai turisti, e la sua
immagine scolorita si può vedere ancora sulle facciate di diversi
edifici. I segnali stradali indicano “la montagna olimpica”, la
gente ne parla volentieri e sospirando, molti si ricordano dei tempi
quando “eravamo felici e uniti”.
Ma oggi i serbi sciano sul monte
Jahorina, mentre i bosniaci su Bjelašnica.