La stretta di mano del 1999 tra Stankovic e Boban |
C'erano molti timori per la partita che ieri sera ha visto contrapposte a Zagabria la Croazia e la Serbia per la qualificazione ai mondiali del 2014 in Brasile. Vatreni e Beli Orlovi (Fiamme e Aquile Bianche) non si
erano mai incrociate in un match internazionale se si esclude il
confronto del 9 ottobre 1999 tra la Croazia e l’allora Jugoslavia formata da Serbia e Montenegro per l’accesso agli Europei in Olanda. Le profonde ferite lasciate dal conflitto degli anni '90 non sono ancora guarite e per questo, alla vigilia, la memoria non ha potuto non andare a quel 13 maggio 1990,
quando la partita tra la "Dinamo" di Zagabria e la "Stella Rossa" di
Belgrado trasformò lo stadio Maksimir della capitale croata in un campo di battaglia, sinistro presagio di quello che sarebbe successo di lì ad un anno.
Certi ricordi sono duri a morire ed è per questo che ieri per Zagabria è stata una giornata ad altissima tensione, con centinaia di poliziotti in assetto antisommossa a presidiare i “punti caldi”, pronti a reprimere ogni accenno di provocazione, come al mattino, in piazza Ban Jelacic, dove alcuni ragazzi che intonavano «Ajmo ustase» (Forza ustascia) e «Ubij srbina» (Ammazza il serbo) sono stati subito fermati. Decine di ultrà, già noti alla polizia, sono stati invece fermati in via preventiva, mentre per altri tifosi croati era già in vigore il divieto di partecipare a eventi sportivi. Ai tifosi serbi è stato vietato di seguire la loro squadra, così come accadrà a settembre per i supporter croati per la partita di ritorno a Belgrado. Le autorità avevano inoltre avvertito che alla minima espressione estremista o razzista la partita sarebbe stata interrotta.
L’evento, alla fine, è stato solo
sportivo e ha vinto la squadra migliore, sotto gli occhi del
presidente croato Ivo Josipovic e dell’ex collega serbo Boris Tadic
(l'incontro con l'attuale presidente, Tomislav Nikolic, visto il gelo
degli ultimi mesi ancora non è alle viste, ma le diplomazie sono al
lavoro da tempo). La Serbia dice praticamente addio al
mondiale in Brasile: il secco 2-0 ieri subito lascia ormai poche speranze ai ragazzi di Sinisa Mihajlovic. Ciò che
più conta, però, è che quella di ieri sera con la Croazia,
nonostante i fischi e alcuni cori nazionalisti di una parte del pubblico
di casa, sia stata solo una partita di calcio. I fantasmi del
passato, quelli che mutarono l'odio sportivo in odio etnico e che
trasformarono i gruppi di ultras nelle bande paramilitari che
imperversarono nella Jugoslavia in guerra, sono rimasti fuori dallo
stadio Maksimir.
Il giorno dopo è naturale, quindi, chiedersi se
non ci sia stato troppo clamore per un incontro di calcio, troppa
confusione tra calcio e politica. Ma il calcio, in Jugoslavia, èsempre stato usato come arma politica, fin dai tempi del Maresciallo
Tito e non solo quando, negli anni Novanta, nei gruppi ultrà della
Stella Rossa o del Partizan o della Dinamo furono arruolati molti
componenti delle bande paramilitari. Ma gli anni passano e da quella
che alcuni hanno chiamato “jugosfera” vengono da tempo segnali
positivi che andrebbero colti con intelligenza. Nei Paesi ex jugoslavi molti lo stanno facendo, nonostamte le tante difficoltà che incontrano: un po' meno avviene dalle nostre parti, dove ci si accorge dei Balcani solo quando confermano i luoghi comuni più deleteri. Quelli che ieri sera sono stati smentiti una volta di più allo stadio Maksimir.
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