Continua il viaggio di Riccardo De
Mutiis nella storia recente di Belgrado, dall’epoca della
Jugoslavia del Maresciallo Tito ai giorni nostri: un viaggio alla scoperta della
“città bianca” nelle cui strade vibra il “srpsko srce”, il
cuore serbo. In questa terza parte continua il racconto della
capitale serba durante il periodo di Milosevic, sotto i bombardamenti
della Nato, nei giorni duri del dopoguerra e fino alla caduta del
"vodz".
Secondo Le Corbusier “di tutte le
capitali situate in una posizione splendida, Belgrado è la più
brutta”. L’affermazione dell’architetto svizzero è troppo
drastica, ma ha un fondo di verità. In effetti la posizione
geografica della capitale serba è invidiabile: il nucleo originario
della città venne realizzato su una collina ai cui piedi la Sava
affluisce nel Danubio e da cui, in particolare dalla fortezza di
Kalemegdan, si gode il panorama di una pianura che si estende a
perdita d’occhio. Non sono altrettanto apprezzabili, purtroppo, né
l impianto urbanistico, né lo stile architettonico della città.
Infatti alla impostazione urbanistica degli Ottomani si sovrappose
quella dei Karadjordjevic ed a questa quella di stampo comunista del
periodo titino: alla disorganicità derivante dalla sovrapposizione
di tali idee urbanistiche profondamente diverse l’una dall'altra si
aggiunsero, nel momento in cui la città si estese oltre la Sava ed
il Danubio, i problemi di una rete viaria che si intasava spesso e
volentieri in prossimità dei pochi ponti che collegavano il centro
con Zemun, Novi Beograd e le altre nuove zone costruite oltre i
fiumi. Ma se la struttura urbanistica di Belgrado non è
entusiasmante, è altrettanto vero che il viaggiatore che arriva
nella capitale balcanica è colpito dall’atmosfera tutta
particolare che vi si vive: nelle strade di Belgrado vibra l’anima
del popolo serbo, batte il “srpsko srce”, il cuore serbo. La
città ha sempre vissuto con grande partecipazione le vicende
nazionali, senza mai appiattirsi sui mantra dettati dal potere
costituito, ma tenendo invece spesso un atteggiamento critico e
disincantato nei confronti dei vari regimi che dal dopoguerra ad oggi
si sono avvicendati alla guida del paese. In questo scritto il
rapporto tra la città di Belgrado e la politica prima jugoslava e
poi serba viene analizzato con riferimento diversi periodi storici,
dal dopoguerra fino alla morte del Maresciallo Tito, dal periodo del
regime di Slobodan Milosevic alla sua caduta, fino ai nostri giorni.
Riccardo De Mutiis [*]
La Belgrado di Milosevic / 2
Gli anni a cavallo tra la fine del
passato millennio e l’inizio di quello attuale sono i più tragici
vissuti dalla Serbia e da Belgrado: in questi anni la città vive il
suo momento più tragico, appare sospesa in una sorta di microcosmo
del tutto indipendente e svincolato dal contesto esterno, in cui le
regole di natura legale, sociale o morale sembrano non avere alcun
valore. All’inizio del periodo in questione, siamo nel 1998, il
regime comincia a mostrare le prime crepe: si è visto che i
belgradesi alle elezioni comunali hanno sfiduciato il vozd [duce, n.d.r.], criticato
anche, adesso, dalla stampa della capitale. Ed un personaggio
popolarissimo come il cantautore Djordje Balasevic, da sempre
impegnato politicamente (uno dei suoi hits è Tri put sam video Tita,
cioè “Ho visto tre volte Tito”), esprime pubblicamente il suo
dissenso nei confronti di Milosevic. Slobo conserva il potere, ma è
in crescente difficoltà, anche a causa della crisi economica e della
situazione di illegalità, percepibili soprattutto a Belgrado. La
svalutazione del dinaro, a cui non è estranea l’emissione illegale
di moneta ordinata in diversi casi dallo stesso Milosevic, ha
raggiunto livelli da repubblica di Weimar. La capitale, poi, in particolare
risente dell'arrivo dei profughi serbi provenienti dalle Kraijne
croate e dalla Bosnia: costoro non trovano né lavoro, né alloggi
disponibili e creano delle baraccopoli, anche nelle zone centrali.
Il
fallimento dell’economia jugoslava genera una folla di disoccupati
che affolla le arterie centrali in cerca di un impiego, di una
abitazione, di un pasto. Ma la misura del degrado in cui versa la
capitale è data soprattutto dalla situazione dell’ordine pubblico:
la legalità, nella Belgrado di fine millennio, è una parola senza
significato. I personaggi della malavita locale si comportano come
padroni della città, sfrecciano per le strade del centro su Suv di
colore scuro e con i vetri oscurati ed hanno i loro santuari: il
famoso, Zeljko Raznatovic, alias Arkan, viaggia su un Pajero nero,
poi abbandonato per una Chevrolet blu marine, gioca a baccarat al
casino dello Slavija, beve, è astemio, succo di pompelmo all’hotel
Intercontinental o allo Hyatt e di notte è rintracciabile in centro,
da Amadeus, oppure all'hotel Jugoslavija. Un giornalista che conosce
molto bene Belgrado, Marko Lopusina, dice che in questi anni la città
bianca “è come la Chicago degli anni '20 e '30, come la Berlino
della crisi economica degli anni '30, come la Casablanca degli
intrighi spionistici della seconda guerra mondiale e come il Vietnam
degli anni 60”. Come si è arrivati a tanto? Perché il
crimine impera? Perché lo Stato abdica ad uno dei suoi compiti
fondamentali, quello di garantire il rispetto della legge e la
sicurezza dei cittadini?
La risposta è che il sistema è allo
sfascio, le istituzioni che dovrebbero intervenire non lo fanno,
perché non vogliono o perché non possono. Il controllo della
polizia è scarso: per un poliziotto capacissimo ed onesto come il
capo della sezione di Belgrado, Marko Nicovic, l’unico che a
Belgrado riesce ad arrestare Arkan, ci sono molti funzionari che si
accordano con i criminali: non è un caso che proprio Arkan verrà
giustiziato da un poliziotto colluso con la malavita belgradese,
Dobrosav Gavric. Il sistema giudiziario è del tutto inefficace,
anche perché lo stipendio dei giudici, che non arriva ai 40 dollari
mensili, non funziona sicuramente da incentivo. Ma le responsabilità
della drammatica situazione della capitale è anche delle istituzioni
internazionali: la Jugoslavia viene espulsa dall’Interpol e
Belgrado diventa una zona franca in cui, proprio perché non vi
trovano esecuzione i mandati di cattura emessi da altri paesi, si
trasferiscono criminali provenienti da diversi paesi europei. E’ questo il contesto in cui inizia,
nel marzo 1999, la guerra del Kosovo, del tutto diversa da quelle
precedenti, perché questa volta la capitale vivrà l’evento
bellico in prima persona per effetto dei bombardamenti a cui verrà
sottoposta.
La reazione di Belgrado ai bombardamenti Nato è tutta
particolare ed è indotta dalla propaganda di Milosevic, che, per una
volta, riesce a portare la città dalla parte del regime. Slobo crea
un clima di unione sacra, chiama tutti i serbi a difendere la patria
in pericolo: lo slogan del momento è Samo sloga srbina spavala,
ovvero “Solo l’unità può salvare i serbi”. Una delle prime decisioni è quella di
chiudere la principale voce di dissenso, la stazione radiotelevisiva
B92, a cui segue l’espulsione di alcuni giornalisti occidentali ed
il sequestro degli strumenti delle televisioni straniere, per
impedire loro di inviare immagini via satellite all’estero non
controllate dalle autorità locali e costringerli quindi a servirsi
delle sole installazioni tecniche della televisione jugoslava, che in
tal modo riesce ad esercitare una specie di censura preventiva
(l’episodio è sottolineato da Joze Pirievec nel suo “Le guerre
jugoslave”). La stampa, ma soprattutto la tv pubblica, insiste
sulla demonizzazione dell’avversario, prefigura una congiura
internazionale finalizzata alla distruzione dell’etnia serba ed in
tal modo esalta la tendenza del popolo a considerarsi predestinato
alla guerra ed ad essere santificato nella sconfitta. Il richiamo
all’epopea medievale, al mito di Kosovo Polje e quindi del popolo
serbo che si è sacrificato per salvare la cristianità
dall’invasione musulmana, è martellante. E’ un messaggio che
parla alla pancia più che al cervello, basato sull’emotività, che
la colta borghesia belgradese non condivide, ma che non può neppure
contestare, altrimenti verrebbe accusata di disfattismo, di dividere
il paese in un momento in cui è in gioco la sua stessa
sopravvivenza.
La manipolazione si rivela efficace nei
confronti delle classi meno scolarizzate, in particolare colpisce i
seljaci, quelli che si sono trasferiti nella capitale dalle zone
rurali della profonda Serbia, sono legati ai miti del passato e non
si sono mai amalgamati con la borghesia cittadina. Lo straniero che
si trova a Belgrado nei giorni delle bombe assiste a scene che non
riesce a comprendere: ricompaiono i simboli monarchici, abbondano i
ritratti di Draza Mihajlovic, il capo dei cetnici giustiziato da
Tito, la gente si riunisce intorno a fuochi e si dà a canti e balli
antichi, si mobilita, insomma, nei confronti dell’aggressore. Il
tutto organizzato da una regia che richiama incessantemente il
passato per cementare il popolo contro il pericolo presente. La scena
che forse rende in pieno il livello di manipolazione è quella che si
vede al ponte Brankov, il più importante collegamento tra Novi
Beograd ed il centro: la Nato ha comunicato in anticipo che
bombarderà il ponte, su cui arrivano, formando una catena umana,
centinaia di serbi che si appuntano sul petto un cartello a mo' di
bersaglio, a sfidare le bombe occidentali. La guerra finisce nel
giugno 1999 e riduce il paese e la sua capitale in ginocchio: sono
state distrutte le strutture produttive, le vie di comunicazione, le
fonti di approvvigionamento energetico.
La città, secondo Cristopher S.
Stewart, il biografo di Arkan, in quel periodo assomiglia a Mordor,
il nome che J.R.R. Tolkien dà alla sua depravata "terra d’ombra".
Ed il caos è l’humus ideale per regolare una serie di conti che
adesso hanno natura politica: nell’aprile 1999 viene assassinato il
giornalista Slavko Curuvija, direttore del Dnevni Telegraf, da
qualche tempo inviso al regime, nel gennaio 2000 viene ucciso Arkan,
di cui erano noti i legami con il potere e nell’agosto dello stesso
anno viene assassinato addirittura Ivan Stambolic, ex presidente
della federazione serba e mentore di Milosevic. L’embargo decretato
dalle istituzioni internazionali priva la popolazione dei generi di
prima necessità: prospera di conseguenza il mercato nero, gestito
ovviamente dalle organizzazioni criminali, che erano già attive nel
settore del controllo del transito degli stupefacenti e della
protezione. Benzina, sigarette, alcoolici ed auto rubate sono i
generi più redditizi: un litro di benzina costa pochi centesimi di
dollaro e viene rivenduto a 4 dollari, un pacchetto di Marlboro viene
venduto a 30 dollari ed un litro di whisky anche a 100. Le bande di
malavitosi si contendono il territorio: gli scontri a fuoco sono
all’ordine del giorno, fa epoca quello tra due boss come Goran
Vukovic e Ljuba Zemunac, in cui il secondo trova la morte.
Ma il fattore critico che porta
finalmente alla caduta di Milosevic è quello economico: la
disoccupazione dilaga ed i generi alimentari, visti i prezzi
proibitivi della borsa nera, sono inaccessibili per la maggior parte
della popolazione e di fronte alla fame non c’è propaganda che
tenga: anche la Chiesa ortodossa, tradizionale sostenitrice del
regime spinge per un cambiamento ed alle elezioni parlamentari del
settembre 2000, Milosevic, l’ex funzionario della Beobanka che ama
le cravatte regimental, viene finalmente sconfitto e qualche mese
dopo viene trasferito a L’Aja per rispondere alle accuse che gli
vengono mosse dal Tribunale Penale Internazionale.
[3. continua]
[*] Riccardo De Mutiis, esperto di
relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche
per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni
internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi
pezzi: per ritrovarli clicca qui.
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