Scende il livello della protesta in Bosnia dopo i tre giorni di violente manifestazioni dello scorso fine settimana. Ma la tensione resta elevata perché le richieste dei dimostranti rimangono tutte lì, pronte a far da combustibile al malcontento. Forse si è parlato un po' troppo presto di “primavera bosniaca”, ma i movimenti nel paese e nella regione potrebbero anche trovare un minimo comun denominatore su cui costruire un fronte comune. Sui muri di Tuzla i dimostranti hanno scritto: “Morte al nazionalismo”. Solidarietà è arrivata loro anche da Belgrado. Forse, per la prima volta, si profila un possibile superamento delle divisioni etniche e nazionaliste che le classi politiche oggi sotto accusa hanno sfruttato per ingabbiare la società e guadagnare consenso. Un consenso ormai in caduta libera. E mentre spunta l'ipotesi dell'invio di nuovi rinforzi militari internazionali, l'Europa si trova di fronte alla crisi del sistema bosniaco costruito sugli accordi di pace di Dayton: una crisi non solo economica, ma, appunto, di sistema.
Qui di seguito l'articolo di Andrea Rossini pubblicato oggi su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Bosnia Erzegovina, il giorno dopo
Andrea Rossini – Osservatorio Balcani e Caucaso, 11 febbraio 2014
In Bosnia Erzegovina (BiH) le mobilitazioni sono continuate in tutto il fine settimana e nella giornata di ieri, nonostante le dimissioni dei primi ministri dei cantoni di Tuzla, Sarajevo, Mostar e Bihać, del responsabile della sicurezza nella capitale, Himzo Selimović, e il rilascio della maggior parte dei dimostranti arrestati nei giorni scorsi. La rivolta innescata dai lavoratori di alcune fabbriche privatizzate di Tuzla, che venerdì è culminata in una giornata di scontri con la polizia e nella distruzione di edifici governativi in alcune delle maggiori città del paese, si è però trasformata nei giorni scorsi in una serie di sit-in e di presìdi pacifici di fronte alle principali sedi delle istituzioni. L'atmosfera sembra essere quella di una calma densa di aspettative. Nessuno azzarda previsioni su quali sviluppi potrebbe avere l'esplosione di rabbia manifestatasi la scorsa settimana.
Le proteste, con la parziale eccezione di Tuzla, appaiono ancora disorganizzate o organizzate in maniera del tutto informale, tramite i social media o il passaparola. Le mobilitazioni principali continuano a riguardare le città della Federazione di Bosnia Erzegovina, una delle due entità in cui è diviso il paese, e non la Republika Srpska. Le richieste dei dimostranti, nonostante alcune differenze legate alle situazioni locali, sono quelle di un ricambio della classe politica (dimissioni), costituzione di un governo tecnico, e rilascio degli arrestati. Il manifesto degli operai e cittadini del cantone di Tuzla chiede ai dimostranti di non abbandonare le strade ma di mantenere l'ordine pubblico, collaborando con polizia e protezione civile (la polizia a Tuzla in alcuni casi si è schierata con i dimostranti), di annullare i contratti di privatizzazione delle 5 ditte la cui situazione ha dato origine alle proteste (Dita, Polihem, Poliolhem, Gumara e Konjuh) e di “restituire le fabbriche ai lavoratori riavviando la produzione dove possibile”.
Mondo hooligan
Il presidente della Federazione di Bosnia Erzergovina, Živko Budimir, ha detto che “i politici hanno inteso la voce della gente forte e chiaro”, ma ha respinto la richiesta di dimettersi e dichiarato che la violenza deve cessare. Sulla stessa linea le dichiarazioni di Bakir Izetbegović, uno dei tre presidenti della BiH, e di Zlatko Lagumdžija, ministro degli Esteri. Secondo quest'ultimo, leader del Partito socialdemocratico, “il comprensibile malessere della popolazione è stato manipolato da gruppi che hanno l'obiettivo di distruggere [il paese].”
La maggior parte della classe politica sembra in generale concorde nell'indicare gruppi di hooligan come responsabili di quanto avvenuto nei giorni scorsi e nel tentare di unire la popolazione nella condanna della violenza, e quindi delle proteste. Alcuni hanno persino paragonato i manifestanti di venerdì a Sarajevo con gli aggressori della città negli anni della guerra. La distruzione dell'archivio storico conservato nell'edificio della Presidenza, in particolare, raggiunto dalle fiamme durante gli incidenti di venerdì, ha creato sgomento in una città che ha subito la distruzione della Biblioteca durante la guerra degli anni '90. In una situazione ancora torbida, segnata dalla frenetica ricerca di un capro espiatorio, sui social media si è però affacciata la notizia secondo cui in realtà l'archivio sarebbe intatto. Lo sostengono diversi rappresentanti della società civile sarajevese tra cui Damir Imamović, amatissimo interprete di sevdah, e la regista Jasmila Žbanić, che hanno riportato le dichiarazioni dei lavoratori dell'archivio che contrastano con la versione ufficiale.
Aldin Arnautović, sul portale di informazione BIRN, ha messo in rilievo come il paragone con gli anni '90 equivalga di fatto a preparare il terreno per il linciaggio dei dimostranti. Allo stesso modo ha commentato su Radio Sarajevo anche Mile Stoijć, noto giornalista locale, sostenendo che “gli hooligan si trovano nelle strutture del potere”, mentre coloro che hanno partecipato agli scontri rappresentano la generazione “di quelli che sono nati durante la guerra, in povertà e senza speranza, cresciuti in un ambiente sciovinista, di odio, xenofobia e di miseria materiale e spirituale, e che oggi cercano di portare l’attenzione sulla propria esistenza in questo modo, perché non hanno altri mezzi.”
La regione
Le dichiarazioni dell'Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina Valentin Inzko, secondo cui “se la situazione peggiorasse dovremmo ricorrere all'invio di truppe dell'Unione europea”, non hanno certamente contribuito a disinnescare la tensione. Anche perché il quadro regionale è – se possibile – ancora più torbido di quello interno.
Domenica il vice premier serbo, Aleksandar Vučić, si è incontrato con i leader serbo bosniaci Milorad Dodik e Mladen Bosić, per discutere gli sviluppi della crisi in Bosnia Erzegovina. Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (RS), l'entità bosniaca a maggioranza serba, ha dichiarato che l'obiettivo delle proteste è “destabilizzare la RS per provocare l'intervento della comunità internazionale nelle vicende del paese”, e che “il caos nella Federazione […] mostra che la BiH non può sopravvivere alle sfide interne e che non funziona.”
Il primo ministro della Croazia, Zoran Milanović, si è invece recato a Mostar, dichiarando di voler “calmare la situazione”. La visita è stata criticata da Željko Komšić, uno dei tre presidenti della Bosnia Erzegovina, secondo cui il premier croato sarebbe dovuto andare a Sarajevo. Interrogato sul perché non si fosse recato nella capitale, Milanović ha risposto ai giornalisti che “Mostar è più vicina” alla Croazia.
Nella cittadina dell'Erzegovina oggi a maggioranza croata, le sirene della divisione etnica non sembrano per il momento attecchire. Nei giorni scorsi i dimostranti, oltre all'edificio del governo, hanno attaccato in maniera bipartisan sia la sede del partito croato HDZ che del bosniaco musulmano SDA. Un giovane mostarino, Teo Grančić, ha scritto un articolo che sta avendo molto successo in rete spiegando che le proteste di Mostar “non le hanno fatte i musulmani, né gli hooligan, né gli anarchici, né gente pagata per farlo. Le ha fatte il popolo.”
Morte al nazionalismo
Sui muri di Tuzla, nei primi giorni delle proteste, gli operai hanno scritto “Dimissioni! Morte al nazionalismo!” Per il momento, nessuno è riuscito a mettere il cappello etnico ai dimostranti. Al contrario, solidarietà ai manifestanti bosniaci è arrivata anche da Belgrado, dove ieri si è svolta una manifestazione cui hanno partecipato alcune centinaia di persone, convocate semplicemente su Facebook da un gruppo denominato “Sostegno dalla Serbia alla gente di Tuzla”. Nella convocazione si scrive che “la migliore solidarietà che possiamo mostrare è organizzarci anche noi contro il saccheggio delle risorse della gente che continua da ormai 20 anni, attraverso guerre e privatizzazioni.”
Il sindacato di polizia serbo ha preso sul serio l'iniziativa, dichiarando di temere che simili dimostrazioni possano verificarsi anche lì. “E' logico che uno scenario simile si possa verificare anche in Serbia, dove [come in BiH] c'è una massa di disoccupati, di occupati senza salario, la corruzione ad ogni livello e cittadini manipolati politicamente”, hanno scritto domenica i poliziotti in una dichiarazione riportata dal portale BIRN.
Crisi di sistema
Quella della Bosnia Erzegovina, però, non è solamente la versione balcanica della crisi che da anni stiamo vivendo in tutta Europa. Quella bosniaca è una crisi di sistema. Il sistema di Dayton, che è servito a fermare la guerra, non funziona più. Lo stesso Richard Holbrooke, suo artefice, nel primo decennale degli accordi confidò che non avrebbe mai pensato sarebbero durati così a lungo. Una costituzione che è in contrasto con la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo, che antepone i diritti dei gruppi etnici a quelli dei singoli cittadini, non può funzionare per un paese europeo. Per questo lo stesso percorso di integrazione europea della Bosnia Erzegovina è divenuto un labirinto.
L'Unione europea lo ha di fatto sospeso congelando 47 milioni di euro di fondi di pre adesione (IPA) nel 2013, e rimandando indefinitamente i preparativi per la concessione di un nuovo pacchetto di fondi. Le élite politiche bosniaco erzegovesi, tuttavia, non hanno alcun incentivo per cambiare un sistema che garantisce la loro sopravvivenza. Lo stesso meccanismo elettorale è articolato in modo da perpetuare la divisione ad ogni livello delle istituzioni. Nell'indifferenza europea e internazionale, ai bosniaci non resta che l'espressione dello sdegno, e della rabbia.
Lo scrittore di Sarajevo Aleksandar Hemon, da anni residente a Chicago, ha però messo in guardia sui rischi dell'attuale situazione. Intervenendo sul portale Radiosarajevo, ha scritto che “la rabbia è ormai in metastasi, ed è difficile pensare a come tutto questo si potrà riportare alla calma. In Bosnia Erzegovina non ci sono strutture per trasformare questa rabbia in forza politica o in una qualche forma positiva. Si diffonde come il fuoco nel bosco. Se cade una goccia di sangue, non c'è ritorno.”
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