Il 30 marzo si vota in Turchia per il rinnovo delle amministrazioni locali e in vista di questo importante appuntamento elettorale, il clima politico si fa piuttosto rovente. Dopo l'estate di proteste per Gezi Park a metà dicembre è scoppiato lo scandalo di corrusione che ha provocato un terremoto nel quadro politico e che avviene nell'ambito del durissimo scontro in atto tra Recep Tayyip Erdogan e Fetullah Gülen, il potente capo del movimento cultural-religioso Hizmet che accusa il premier di stare minando il "modello turco" con le sue scelte politiche, sia sul piano interno che su quello internazionale. Ora c'è un ulteriore fattore che potrebbe rimescolare ulteriormente le carte: la possibile fine del miracolo economico vissto dalla Turchia nell'ultimo decennio, che è stato il maggiore successo di Erdogan e che ha consolidato l'ascesa della nuova classe dirigente espressa dall'Akp.
Di tutto questo ho parlato con Matteo Tacconi in un'intervista per Radio Radicale a partire dal suo pezzo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Ascolta qui l'intervista a Matteo Tacconi
Crisi turca, il fattore economico
di Matteo Tacconi – pubblicato il 30
gennaio 2014 su Osservatorio Balcani e Caucaso
Lo scontro tra il primo ministro turco
Recep Tayyip Erdoğan e Fethullah Gülen, capo di Hizmet, potente
movimento culturale e religioso, con forti ramificazioni
nell’educazione e nei media, continua a tenere la Turchia su una
corda, tesissima, di violino.
La storia ormai è nota. Tutto è
cominciato a dicembre, quando è scattata un’inchiesta giudiziaria,
su corruzione e dintorni, che ha portato all’arresto di diverse
persone. Tra queste i figli di tre ministri. Che si sono dimessi.
Erdoğan, oltre a loro, ha cambiato altri sette membri della sua
squadra, cercando di allontanare dall’esecutivo l’ombra insidiosa
della maxi-inchiesta.
Erdoğan vs Gülen
Questo è stato solo l’inizio. Nei
giorni e nelle settimane seguenti il capo del governo ha dato il via
a due purghe. L’una tra i quadri della polizia, con centinaia di
ufficiali, tra Istanbul e la capitale Ankara, spostati da funzioni
inquirenti a mansioni inferiori. L’altra nella magistratura, dove
una raffica di nuove nomine ai vertici delle procure ha ridisegnato
gli equilibri del potere giudiziario, in senso favorevole
all’esecutivo.
Ma perché tutto questo? Qui sta il
punto. Secondo Erdoğan l’inchiesta sulla corruzione, che ha
lambito anche uno dei suoi figli, Bilal, è un attacco inaudito al
suo governo, costruito artificiosamente da Fethullah Gülen grazie
alle sponde importanti che può vantare nei ranghi di polizia e
magistratura. Ne è scaturito il contrattacco, durissimo. Gülen
respinge le accuse.
In ogni caso è innegabile che i
rapporti tra i due si sono incrinati. Prima erano molto buoni.
L’ascesa al potere di Erdoğan, avvenuta ormai più di dieci anni
fa, è legata tra le altre cose alla mobilitazione elettorale dei
seguaci di Hizmet e all’assorbimento di alcune delle idee del
gülenismo – molti lo dipingono come la versione islamica del
calvinismo – nella piattaforma dell’Akp, il partito del primo
ministro.
Molte cose sono cambiate negli ultimi
tempi. A Gülen non è piaciuta la sterzata di Erdoğan sui rapporti
con Israele, piombati verso il basso, né la gestione dei fatti di
Gezi Park. Il suo timore è che il cosiddetto modello turco, sintesi
tra democrazia e islam, evolva in qualcosa di più autoritario. In
questa cornice si iscrive la “tangentopoli”, legata a doppio filo
alle imminenti scadenze elettorali. A marzo ci sono le
amministrative, in agosto le presidenziali, le prime con voto
diretto. Non è escluso che Erdoğan voglia salire sul gradino più
alto delle istituzioni, facendone il perno del sistema. Si dice che a
Gülen questa ipotesi non piaccia affatto.
Arriva lo “sboom”
C’è comunque un altro fattore che
potrebbe ripercuotersi sulla scacchiera politica condizionando le
mosse dei giocatori, specialmente quelle di Erdoğan. È l’economia.
Molti analisti sono dell’avviso che la stagione d’oro della
Turchia, esplosa proprio nel momento in cui l’Akp prese il potere,
nel 2002, sta volgendo al termine. In questo arco di tempo il paese
ha compiuto un balzo in avanti eccezionale, che tra il 2002 e il 2012
ha visto i redditi individuali passare da 3.676 a 10.666 dollari
l’anno. La crescita è stata accompagnata dalla riduzione vistosa
del debito pubblico (da circa il 70% a circa il 40%) e dalla
contrazione di inflazione e deficit.
Adesso la curva potrebbe flettersi. Uno
dei motivi è l’effetto che, sui paesi emergenti, Turchia inclusa,
potrebbe avere il tapering in America, ossia la fine della politica
di acquisto di titoli pubblici, che ha viaggiato in parallelo con una
strategia di forte riduzione dei tassi. Questo ha spinto gli
investitori a muoversi sui mercati emergenti, dove tassi più alti
hanno garantito ritorni maggiori. Turchia, Brasile, India, Cina e
altri paesi ne hanno beneficiato fortemente. Tuttavia gli stimoli
della Federal Reserve vanno verso l’esaurimento e la tendenza dei
capitali, già visibile, è quella di uscire da questi mercati, dove
i rischi sono maggiori, riconcentrandosi su quelli occidentali, più
sicuri e sulla strada della ripresa.
Le conseguenze, in Turchia, sono già
tangibili. La Lira turca s’è deprezzata rapidamente, arrivando ai
minimi sul Dollaro e schizzando giù notevolmente proprio a ridosso
dei fatti di Gezi Park e delle recenti vicissitudini tra Erdoğan e
Gülen. Segno che tra quadro economico e scenario politico potrebbe
innescarsi o già si è innescato un intreccio pericoloso.
Ai problemi della Lira, che la Banca
centrale turca ha cercato di risollevare con una manovra pesante sui
tassi, appena portati dal 7,75 al 12%, anche allo scopo di contenere
l’inflazione, va aggiunto il fatto che in Turchia il deficit delle
partite correnti, ovvero lo scarto tra quanto si esporta e quanto si
importa, è molto alto, come spesso capita in economie in espansione:
si hanno risorse, dunque si compra. Attualmente il valore di questo
parametro s’aggira sul 7-8% del Pil. Ankara lo copre appoggiandosi
sui capitali stranieri in entrata. Il rischio di una loro
fuoriuscita, stimolato dall’effetto tapering, può avere
conseguenze rilevanti. Senza contare che l’economia, in generale,
sta rallentando. Da qui al 2018 la crescita media dovrebbe attestarsi
sul 4% (stime Fmi), ma in virtù dei tassi “cinesi” degli anni
passati (9,2% nel 2010; 8,8% nel 2011), questo stesso rallentamento
potrebbe essere avvertito addirittura come una recessione, sostiene
qualche analista.
Insomma, Erdoğan, che ha sempre usato
crescita e progresso come leve elettorali, potrebbe ritrovarsi con le
armi un po’ spuntate. Lo scontro aperto con Gülen e l’esibizione
dei muscoli sembrano rientrare in un gioco di polarizzazione
dell’elettorato che depotenzi, facendola scivolare in secondo
piano, la questione economica.
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