Italia, Francia, Germania, Belgio e
Svezia, lo scorso maggio hanno scritto un documento comune riservato
che per la prima volta mette sotto accusa in modo netto l’operato
dell’Alto rappresentante internazionale in Bosnia Erzegovina,
Valentin Inzko, accusato di essere parzialmente succube degli
interessi di Washington. Matteo Tacconi rivela i contenuti del testo
elaborato dal quintetto. Qui di seguito l'articolo pubblicato oggi
sul quotidiano Europa e su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Valentin Inzko, Alto rappresentante internazionale in Bosnia Erzegovina |
«Fuori gli americani da Sarajevo»
In un documento riservato l’Europa
chiede più potere in Bosnia
Recessione nel 2013, grave siccità a
causa dell’estate più calda degli ultimi centoventi anni e
riapertura di vecchie vertenze di confine con la Croazia (due
isolotti l’oggetto del contendere). Già così, le ultime dalla
Bosnia sono quello che sono. Se aggiungiamo la possibile caduta del
governo presieduto da Vjekoslav Bevanda, entrato in carica a gennaio
dopo sedici mesi di vacuum, con tanto di primato belga sfiorato (540
giorni senza esecutivo), il quadro si complica assai. Per la cronaca,
senza entrare nei dettagli: la causa del possibile tonfo è la solita
e proverbiale litigiosità tra i partiti etnici rappresentativi dei
tre principali gruppi del paese. Non stupisce, francamente.
Musulmani, serbi e croati, belligeranti al tempo del conflitto
civile, vivono adesso da separati in casa e negli ultimi anni il
clima da “pace fredda” s’è persino approfondito. Il confronto
è arenato, non si fanno neanche le più timide riforme e si bada
esclusivamente a custodire il proprio, piccolo cortile.
Spetterebbe alla comunità
internazionale dare la scossa, suggerire, scuotere. Già. Ma anche su
questo fronte siamo al fermo immagine. Il fatto è che l’Alto
rappresentante della comunità internazionale (Ohr) e il
Rappresentante speciale dell’Unione europea (Eusr), i due soggetti
che cogestiscono la transizione bosniaca verso la prospettiva
euro-atlantica, vanno sempre meno d’accordo e ci si sta avvicinando
a una possibile resa dei conti. Almeno a giudicare dai contenuti di
un documento riservato che le diplomazie di Francia, Germania,
Belgio, Svezia e Italia hanno elaborato lo scorso maggio e che hanno
fatto circolare informalmente tra gli addetti ai lavori. La richiesta
di questo non paper (in gergo diplomatico è il modo in cui si indica
una bozza di proposta in vista di futuri accordi) è esplicita: dare
ampi margini di manovra al rappresentante europeo e al soft power
comunitario. In altri termini, si pretende che sia soprattutto
l’Europa a farsi carico della Bosnia e che l’Ohr si faccia un po’
da parte. Non ci sarebbe nulla di nuovo, visto che si parla da tempo
di tale evoluzione e s’avverte il bisogno di metterla al più
presto in pratica. Se non che il non paper, di cui Europa è venuta
in possesso, ha evidenziato per la prima volta tutta l’insofferenza
europea – meglio, di una parte di Europa – nei confronti del
cosiddetto “proconsole”, reputato come un fastidioso intralcio,
che limita l’azione dell’Eusr e che risulta per giunta mantenuto
in larga parte con i soldi europei.
Il testo è molto chiaro. Prima si
menzionano i fallimenti dell’Ohr, «che non è stato capace di
gestire con successo questioni chiave quali la formazione del governo
o l’adozione del budget (si intende il bilancio dello stato
bosniaco)». Poi si denuncia l’inefficienza di uno staff pesante,
da 160 persone, sottolineando a seguire l’invasione di campo «in
aree di chiara responsabilità europea» come giustizia, bilancio
statale, acquis communautaire. Successivamente si denuncia che
«nonostante tutto questo i paesi europei continuano a finanziare
oltre il 53 per cento del budget dell’Ohr», sebbene quest’ultimo,
accusato in sostanza di ostacolare gli europei, «non dà accesso
alle strutture e alle attività necessarie per esercitare
un’effettiva supervisione» sul suo funzionamento.
La conclusione, si deduce dal non
paper, è che l’ufficio andrebbe chiuso o fortissimamente limitato
nelle sue funzioni, con conseguente ampliamento dei poteri della
missione europea. Tutto legittimo. Poco o nulla da dire sulla
sostanza. Il problema, come rilevato da una fonte interpellata da
Europa, è la forma. «Il documento è troppo emozionale. Sembra a
tratti di sentire uno scolaro che si lamenta e questo non è molto
serio, vista la situazione fragile della Bosnia. Il tema dei rapporti
tra Ohr e Eusr, la responsabilità dell’Ue nel paese balcanico e la
questione economica – alla fine è anche giusto che chi mette più
risorse abbia più voce in capitolo – vanno discusse e anche in
tempi brevi. Però in maniera seria e razionale», spiega la fonte.
Non sarà facile. Ci sono in ballo gelosie, frustrazioni, equilibri
delicati e competizione politica tra Europa e Stati Uniti, nonché
tra gli stessi paesi comunitari.
Washington, che vuole comunque
mantenere una sua influenza in Bosnia, è contraria alla chiusura
dell’Ohr, il cui numero due è sempre di nazionalità americana (al
momento è Frederick Moore). Londra appoggia questo approccio,
opponendosi al resto della pattuglia Ue e determinando così una
spaccatura intra-comunitaria. Potrebbe essercene un’altra. Tra gli
estensori del non paper, infatti, non figura l’Austria, uno dei
paesi europei che in questo lungo dopoguerra hanno più investito,
politicamente e finanziariamente, in Bosnia e in tutta l’area
balcanica. L’attuale Alto rappresentante, tra l’altro, è
l’austriaco Valentin Inzko. C’è da pensare che a Vienna non
abbiano apprezzato del tutto il non paper. La cosa certa, comunque, è
che mentre le diplomazia si danno battaglia la Bosnia scivola sempre
più giù. L’ultimo esempio dell’immobilismo cronico del paese è
la riforma “etnica” della Costituzione, che va fatta – ma ormai
è chiaro non si farà – entro venerdì prossimo, il 31 agosto,
secondo i termini stabiliti dall’Ue. Andrea Rossini,
sull’Osservatorio Balcani e Caucaso, ha ricordato che la revisione
della carta fondamentale si rende necessaria sulla base della
sentenza con cui, nel 2009, la Corte europea dei diritti dell’uomo
ha accolto il ricorso presentato da Jakob Finci e Dervo Sejdic,
rispettivamente esponenti delle comunità ebraica e rom della Bosnia.
I due si rivolsero ai togati comunitari
allo scopo di denunciare come l’attuale assetto istituzionale,
sancito dalla pace di Dayton del 1995, permetta soltanto ai membri
dei “tre popoli costituenti” di candidarsi a cariche elettive,
ponendo in essere una situazione di evidente apartheid. I partiti e i
politici musulmani, serbi e croati non sono riusciti a sanarla. Quasi
che c’era da aspettarselo, «considerato che la comunità
internazionale – riflette la fonte – non offre il migliore degli
esempi, divisa com’è al suo interno». D’altronde il non paper
dello scorso maggio, vergato anche dai nostri diplomatici, l’ha
ampiamente dimostrato.
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