mercoledì 29 agosto 2012

YANKEE GO HOME! EUROPA CONTRO USA IN BOSNIA

Italia, Francia, Germania, Belgio e Svezia, lo scorso maggio hanno scritto un documento comune riservato che per la prima volta mette sotto accusa in modo netto l’operato dell’Alto rappresentante internazionale in Bosnia Erzegovina, Valentin Inzko, accusato di essere parzialmente succube degli interessi di Washington. Matteo Tacconi rivela i contenuti del testo elaborato dal quintetto. Qui di seguito l'articolo pubblicato oggi sul quotidiano Europa e su Osservatorio Balcani e Caucaso.

Valentin Inzko, Alto rappresentante internazionale in Bosnia Erzegovina

«Fuori gli americani da Sarajevo»
In un documento riservato l’Europa chiede più potere in Bosnia

Recessione nel 2013, grave siccità a causa dell’estate più calda degli ultimi centoventi anni e riapertura di vecchie vertenze di confine con la Croazia (due isolotti l’oggetto del contendere). Già così, le ultime dalla Bosnia sono quello che sono. Se aggiungiamo la possibile caduta del governo presieduto da Vjekoslav Bevanda, entrato in carica a gennaio dopo sedici mesi di vacuum, con tanto di primato belga sfiorato (540 giorni senza esecutivo), il quadro si complica assai. Per la cronaca, senza entrare nei dettagli: la causa del possibile tonfo è la solita e proverbiale litigiosità tra i partiti etnici rappresentativi dei tre principali gruppi del paese. Non stupisce, francamente. Musulmani, serbi e croati, belligeranti al tempo del conflitto civile, vivono adesso da separati in casa e negli ultimi anni il clima da “pace fredda” s’è persino approfondito. Il confronto è arenato, non si fanno neanche le più timide riforme e si bada esclusivamente a custodire il proprio, piccolo cortile.

Spetterebbe alla comunità internazionale dare la scossa, suggerire, scuotere. Già. Ma anche su questo fronte siamo al fermo immagine. Il fatto è che l’Alto rappresentante della comunità internazionale (Ohr) e il Rappresentante speciale dell’Unione europea (Eusr), i due soggetti che cogestiscono la transizione bosniaca verso la prospettiva euro-atlantica, vanno sempre meno d’accordo e ci si sta avvicinando a una possibile resa dei conti. Almeno a giudicare dai contenuti di un documento riservato che le diplomazie di Francia, Germania, Belgio, Svezia e Italia hanno elaborato lo scorso maggio e che hanno fatto circolare informalmente tra gli addetti ai lavori. La richiesta di questo non paper (in gergo diplomatico è il modo in cui si indica una bozza di proposta in vista di futuri accordi) è esplicita: dare ampi margini di manovra al rappresentante europeo e al soft power comunitario. In altri termini, si pretende che sia soprattutto l’Europa a farsi carico della Bosnia e che l’Ohr si faccia un po’ da parte. Non ci sarebbe nulla di nuovo, visto che si parla da tempo di tale evoluzione e s’avverte il bisogno di metterla al più presto in pratica. Se non che il non paper, di cui Europa è venuta in possesso, ha evidenziato per la prima volta tutta l’insofferenza europea – meglio, di una parte di Europa – nei confronti del cosiddetto “proconsole”, reputato come un fastidioso intralcio, che limita l’azione dell’Eusr e che risulta per giunta mantenuto in larga parte con i soldi europei.

Il testo è molto chiaro. Prima si menzionano i fallimenti dell’Ohr, «che non è stato capace di gestire con successo questioni chiave quali la formazione del governo o l’adozione del budget (si intende il bilancio dello stato bosniaco)». Poi si denuncia l’inefficienza di uno staff pesante, da 160 persone, sottolineando a seguire l’invasione di campo «in aree di chiara responsabilità europea» come giustizia, bilancio statale, acquis communautaire. Successivamente si denuncia che «nonostante tutto questo i paesi europei continuano a finanziare oltre il 53 per cento del budget dell’Ohr», sebbene quest’ultimo, accusato in sostanza di ostacolare gli europei, «non dà accesso alle strutture e alle attività necessarie per esercitare un’effettiva supervisione» sul suo funzionamento.
La conclusione, si deduce dal non paper, è che l’ufficio andrebbe chiuso o fortissimamente limitato nelle sue funzioni, con conseguente ampliamento dei poteri della missione europea. Tutto legittimo. Poco o nulla da dire sulla sostanza. Il problema, come rilevato da una fonte interpellata da Europa, è la forma. «Il documento è troppo emozionale. Sembra a tratti di sentire uno scolaro che si lamenta e questo non è molto serio, vista la situazione fragile della Bosnia. Il tema dei rapporti tra Ohr e Eusr, la responsabilità dell’Ue nel paese balcanico e la questione economica – alla fine è anche giusto che chi mette più risorse abbia più voce in capitolo – vanno discusse e anche in tempi brevi. Però in maniera seria e razionale», spiega la fonte. Non sarà facile. Ci sono in ballo gelosie, frustrazioni, equilibri delicati e competizione politica tra Europa e Stati Uniti, nonché tra gli stessi paesi comunitari.

Washington, che vuole comunque mantenere una sua influenza in Bosnia, è contraria alla chiusura dell’Ohr, il cui numero due è sempre di nazionalità americana (al momento è Frederick Moore). Londra appoggia questo approccio, opponendosi al resto della pattuglia Ue e determinando così una spaccatura intra-comunitaria. Potrebbe essercene un’altra. Tra gli estensori del non paper, infatti, non figura l’Austria, uno dei paesi europei che in questo lungo dopoguerra hanno più investito, politicamente e finanziariamente, in Bosnia e in tutta l’area balcanica. L’attuale Alto rappresentante, tra l’altro, è l’austriaco Valentin Inzko. C’è da pensare che a Vienna non abbiano apprezzato del tutto il non paper. La cosa certa, comunque, è che mentre le diplomazia si danno battaglia la Bosnia scivola sempre più giù. L’ultimo esempio dell’immobilismo cronico del paese è la riforma “etnica” della Costituzione, che va fatta – ma ormai è chiaro non si farà – entro venerdì prossimo, il 31 agosto, secondo i termini stabiliti dall’Ue. Andrea Rossini, sull’Osservatorio Balcani e Caucaso, ha ricordato che la revisione della carta fondamentale si rende necessaria sulla base della sentenza con cui, nel 2009, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso presentato da Jakob Finci e Dervo Sejdic, rispettivamente esponenti delle comunità ebraica e rom della Bosnia.

I due si rivolsero ai togati comunitari allo scopo di denunciare come l’attuale assetto istituzionale, sancito dalla pace di Dayton del 1995, permetta soltanto ai membri dei “tre popoli costituenti” di candidarsi a cariche elettive, ponendo in essere una situazione di evidente apartheid. I partiti e i politici musulmani, serbi e croati non sono riusciti a sanarla. Quasi che c’era da aspettarselo, «considerato che la comunità internazionale – riflette la fonte – non offre il migliore degli esempi, divisa com’è al suo interno». D’altronde il non paper dello scorso maggio, vergato anche dai nostri diplomatici, l’ha ampiamente dimostrato.


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