Illusioni: da una parte o dall'altra sempre al macello finisci |
Cercando quante più informazioni possibili in merito alle prossime elezioni del 6 maggio, due cose balzano velocemente all’occhio:
- La campagna elettorale per le prossime legislative è molto tesa e combattuta;
- C’è una sostanziale mancanza programmatica che accomuna la maggior parte dei partiti, rendendo difficile stabilire delle rilevanti differenze d’intenti, almeno tra i candidati principali.
Due dei maggiori contendenti, il Partito Democratico (DS) di Boris Tadić e il Partito Socialista di Serbia (SPS) di Ivica Dačić, addirittura non hanno un programma ad hoc per le elezioni del 2012, rifacendosi semplicemente ai generali programmi di partito. Il Partito Progressista Serbo (SNS) di Toma Nikolić spicca in questo vuoto abissale, forte di un Libro bianco (Bela knjiga), sottotitolo “Con un programma verso i cambiamenti”, che sviscera in 20 punti i progetti per il paese (economia, investimenti, politica estera, Kosovo, UE, decentramento, politiche energetiche, agricole, sociali, della cultura e dello sport, e così via). Allo stesso modo, la coalizione Preokret! (Capovolgimento!) del Partito Liberal Democratico (LDP) e Movimento Serbo di Rinnovamento (SPO), parla di decentramento e autonomia della Vojvodina, azionariato delle grandi imprese pubbliche, rafforzamento del settore privato, e – unica tra i partiti in corsa – di un radicale mutamento della politica serba nei confronti del Kosovo, con il definitivo sganciamento e accettazione dell’indipendenza dell’ex provincia.
Il “capovolgimento!”, così come i “cambiamenti!” (Promene!), slogan favorito dal Partito Progressista, si riferiscono apertamente a un vulnus fondamentale della Serbia di Tadić: la dilagante corruzione e opacità delle istituzioni pubbliche, e l’importanza degli agganci di partito per trovare un posto di lavoro. Mentre la disoccupazione serba, complice la crisi globale, lievitava da un già sostanziale 16% al 23% nell’arco dell’ultimo triennio, la spesa pubblica (e l’indebitamento del paese), crescevano di pari passo per creare nuovi posti di lavoro nel settore pubblico, come miope ammortizzatore e creatore di consenso sociale. Allo stesso tempo, tali incarichi, dalle poltrone più pagate agli uffici, così come gli appalti ai privati, venivano conferiti perlopiù secondo gli appoggi politici di cui disponevano i singoli cittadini. In uno spot televisivo del Partito Progressista, una giovane ragazza si chiede: “Perché ho finito l’università se oggi si trova lavoro solo tramite il partito? Ciò deve finire!“
Il Partito Socialista di Dačić, che dopo la svolta del 2008 presiede il ministero dell’interno, nel governo di coalizione postelettorale col Partito Democratico, punta ha costruirsi l’immagine di un partito europeo e di una sinistra moderna, improntata alla giustizia sociale senza rinunciare ad un’economia di mercato, e all’integrazione della Serbia nell’Unione Europea. Recentemente Dačić ha dichiarato che il voto all’SPS è un voto sicuro, in quanto sia che vincano i democratici, sia che vincano i progressisti, per formare una maggioranza di governo sarà necessario passare proprio da loro, dai socialisti. Una dichiarazione che dimostra spudoratamente il machiavellismo dei partiti, facilitato sia dalla genericità degli impegni programmatici, che dalla disponibilità dei principali leader a scendere a qualsiasi compromesso pur di ottenere il potere. Lo stesso machiavellismo che ha fatto sì che Boris Tadić per primo, come presidente della Serbia e del suo Partito democratico, si riappacificasse nel 2008, senza rendere conto né al paese né al suo elettorato, con il Partito socialista, colpevole e criminale protagonista dei più cupi anni della storia serba e regionale recente, il decennio 1990.
Il Partito Democratico, nonostante la indiscutibile prevalenza mediatica – innanzitutto televisiva – sugli avversari, dovrà affrontare una durissima prova. Al centro della sua campagna, “Lavoro. Investimenti. Sicurezza.” (Posao. Investicije. Sigurnost.), stanno la democratizzazione delle istituzioni, la volontà di risolvere pacificamente qualsiasi problema (chiaro il riferimento al Kosovo), l’accostamento all’Unione Europea. Purtroppo, Tadić ha già ampiamente dimostrato di aver fallito su tutti questi fronti, e la fiducia degli elettori, già estremamente bassa verso la classe politica nell’insieme, è naturalmente più consumata proprio nei confronti di chi ha detenuto il potere fino a oggi. La tattica del “sia Europa che Kosovo”, sbandierata a ogni passo dai democratici, è venuta a costare alla Serbia entrambe: la candidatura all’UE, agognata, rimandata e a stento ottenuta questa primavera, senza alcuna idea su quando partiranno realmente le negoziazioni per l’ingresso, e i continui, protratti scontri al confine kosovaro hanno fatto perdere ulteriori preziosi anni al paese, mentre la crisi economica dava il colpo di grazia ai progressi già conseguiti.
Più che gli esiti, perciò, ancora vaghi, è difficile prevedere anche solo le strade possibili che potrebbe imboccare la Serbia dopo le urne. Il rischio concreto, in realtà, è che nulla cambi, se non le sigle di governo.
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