Vent'anni fa cominciava l'assedio di Sarajevo, il più lungo della storia europea moderna. 1427 giorni, quattro inverni, più di 11.500 morti in città (la stragrande maggioranza civili tra cui 1600 bambini). Il conflitto, costato 100.000 morti, ha lasciato una Bosnia e la sua capitale divise su base etnica.
In questi giorni si ricordano le vittime, si guardare al passato per non dimenticare le responsabilità di quel massacro. E' giusto. Però non si deve alimentare i luoghi comuni e rischiare di dare un'immagine distorta del presente. Come è scritto nella newsletter di Osservatorio Balcani e Caucaso inviata proprio in questi giorni, non c'è bisogno della nostalgia degli ex inviati di guerra o dell'ipocrisia dei rappresentanti della comunità internazionale che agiscono solo dove c'è piena emergenza, fingendo di non sapere che la risoluzione dei conflitti implica politiche coerenti di lungo periodo.
E' necessario guardare al presente, alla Sarajevo di oggi, alla Bosnia di oggi, con tutti i loro problemi, che sono tanti e non semplici, ma anche con tutte le loro risorse e le loro energie. "Don't Let Them Kill Us", era scritto sullo striscione delle "Miss Sarajevo" nel 1993: Non lasciate che ci uccidano.
Non lasciamo che uccidano Sarajevo e la Bosnia.
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