Murale a Vukovar (Foto di Silvia Maraone) |
di Silvia Maraone
da Osservatorio Balcani e Caucaso
"A grad, za nj ne brinite, on je sve vrijeme bio u vama. Samo skriven. Da ga krvnik ne nađe. Grad - to ste vi”. E per la città, non vi preoccupate per lei, è stata tutto questo tempo insieme a voi. Soltanto nascosta. Così che l’uccisore non la potesse trovare. La città – quella siete voi.
("Priča o gradu" di Siniša Glavašević. Giornalista e conduttore radiofonico durante l’assedio di Vukovar, prelevato insieme ad altri 260 civili dall’ospedale e ucciso a Ovčara)
Hrabri Ljudi. Uomini coraggiosi. E’ questo il nome dato quest’anno alla tradizionale giornata del ricordo della caduta di Vukovar. E quest’anno assume un significato ancor più importante, venti anni dopo l’inizio di tutto, della Caduta. La Jugoslavia nel 1991 si distrusse in mille pezzi, e andò avanti a bruciare per anni, sino al 1999, con gli ultimi scontri in Kosovo, a decretare la fine (temporanea?) dell’agonia.
Il coraggio di morire, il coraggio di uccidere
Uomini coraggiosi. Perché ci vuole coraggio a morire. Come topi, nell’assedio. Il più lungo dopo quello di Leningrado, nella seconda guerra mondiale. Così mi ricordo i titoli dei giornali, in quelle giornate autunnali del ’91, quando ancora nessuno aveva capito cosa stava succedendo, a Vukovar, e in Jugoslavia. Prove in miniatura di massacri su larga scala.
Bombardamenti scellerati, giorni e giorni senza luce, cibo, acqua, telefono. Un unico suono, quello delle bombe. E i cecchini, le mine, i carri armati. Poi entrarono cantando, le forze paramilitari: Slobodan, mandaci l’insalata, ci sarà carne, macelleremo i croati. Ci vuole coraggio a morire con questa canzone nelle orecchie, ma è la Storia questa, che dà i brividi, ma nessuno la può cambiare.
Ci vuole coraggio a morire insieme ad altri civili, insieme ai feriti, innocenti. Prelevati di peso dall’ospedale cittadino che sino all’ultimo aveva cercato di prendersi cura dei propri pazienti, senza che avesse importanza che fossero croati o serbi, entrambi intrappolati in una città che un tempo veniva chiamata la Perla della Slavonia, sul bel Danubio non tanto blu. Legati ai polsi col fil di ferro, trasportati a Ovčara e uccisi lì, per finire in una fossa comune. Quando li tirarono fuori, alcuni avevano ancora infilato il catetere.
Si va in scena, a Vukovar, o Vukowar, come la chiamavano con grandi titoloni i soliti giornali, per le prove generali dei massacri più grandi che si compieranno non tanto tempo dopo, e non tanto lontano da lì.
Ci vuole coraggio, a morire così, per la Patria e per Dio. Questo il motto ripetuto come una litania, per farsi coraggio, un piccolissimo Davide contro un Golia stavolta invincibile, un esercito di straccioni contro i carri armati.
E ci vuole coraggio a uccidere, forse. Se sei un ragazzo di leva, con vent’anni e una fidanzata che ti aspetta. E ti danno questo fucile in mano e ti dicono: ammazza tuo fratello. Allora come si fa a trovare questo coraggio? Anfetamine, qualunque cosa, pur di trovare il coraggio di sparare. La prima volta, la seconda, la terza. Poi diventa una routine. Per alcuni, un piacere. I soldati che avevano combattuto a Vukovar erano stati drogati come dei cavalli. Ma non è una giustificazione. Piccole prove per mettere in piedi un esercito spietato, capace di ogni sadismo, ci vuole coraggio e follia.
Il coraggio di perdonare
Vukovar, oggi, ricorda, e non perdona. Nonostante la manifestazione sia incentrata per lo più su funzioni religiose, canti, rosari, vie crucis, Sante messe, il cristianesimo qui si è dimenticato il perdono.
Ci vuole coraggio a perdonare. Lo pensavo oggi al memoriale per i caduti, gli Hrvatski branitelj, difensori croati. E pensavo che non suona mica tanto esatta, questa frase, perché lì, se si leggono nomi e cognomi, sono sepolti uno di fianco all’altro serbi, croati, ungheresi. Morti perché amavano la loro bella città, piena di stucchi, putti e architetture austro-ungariche.
Pensavo che ci voleva coraggio per la madre che piangeva sulla tomba di suo figlio a condividere tutto questo strazio in una manifestazione così grande e così pubblica, con l’unico desiderio forse di stare da sola. Così come ci vuole coraggio andare a posare un fiore su una delle tante croci bianche, senza nome, a simboleggiare i caduti civili, decidendo che quella sia la tomba di tuo padre. E ci vuole coraggio, con queste fosse vuote, 500 tombe senza corpi, sparsi chissà dove in questa pianura nebbiosa.
Prove generali a Vukovar per stragi di portata immensa che sarebbero seguite da lì a poco. 50.000 persone di ogni età, sesso e provenienza sono qui, nonostante il maltempo e la nebbia che ha coperto tutta la Croazia. Si sono mossi da Spalato, da Zagabria, da Fiume, da ogni città della Croazia per venire oggi a Vukovar. C’è chi è venuto a piedi, chi ha organizzato una specie di raduno motociclistico. Veterani invalidi decorati che marciano di fianco a energumeni vestiti di pelle, giovani francescani con il saio, il bomber e le Dr Marten’s di fianco ad adolescenti che nascondono le bottiglie di Jägermeister quando vedono i poliziotti.
Un cero prima delle elezioni
Un appuntamento che cade giusto un mese prima delle elezioni, con la Presidentessa in pelliccia che recita il suo ruolo. Nonostante gli organizzatori abbiano espressamente richiesto che non compaiano simboli politici, è inevitabile notare i cartelloni elettorali dell’HDZ che promettono che difenderanno i diritti (e le pensioni) dei Branitelji, dei difensori della Patria.
Una manifestazione per lo più silenziosa, il cui obiettivo è raggiungere il cimitero, dove verrà celebrata la messa dal Cardinale Puljić. La gente è così tanta che non ci sta nella piccola area adibita alla cerimonia, ci si assiepa tra le tombe e le croci, ascoltando l’altoparlante e segnandosi all’unisono.
E poi, come ogni anno, la manifestazione finisce. Si torna indietro, si fa lo slalom tra i lumini sparsi lungo tutte le strade, oggi alle 18.00 in tutta la Croazia si accenderà un cero alla finestra per ricordare Vukovar. C’è chi attende la navetta per tornare verso il centro e chi si rifà a piedi i 4 Km di strada sino alla torre dell’acqua, nascosta dalla nebbia.
Sono le quattro di pomeriggio, la maggior parte delle persone parte, torna a casa. Altri si fermano per le parti minori della manifestazione, tra cui un’improbabile “mostra di piccoli animali”. Nei prossimi giorni si celebreranno altre manifestazioni nella zona, tra cui le messe e le cerimonie a Ovčara ed altri campi di concentramento sparsi nella regione. Probabilmente i numeri non saranno quelli di oggi, ma ricordare è un dovere.
Anche per questo, per non dimenticare, ci vuole coraggio.
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