“Siamo il futuro esercito della nuova Siria, non siamo in combutta con nessun partito politico, religione o gruppo. Crediamo nella difesa di tutta la società siriana nel suo insieme”. Lo ha detto il colonnello Riyad al-Asad, comandante dell'Esercito della Siria libera (Fsa), in un'intervista pubblicata nei giorni scorsi dal Daily Telegraph. L'organizzazione armata, “ala militare dell'opposizione popolare siriana al regime”, composta da disertori delle forze armate del regime di Damasco, conterebbe già 15 mila uomini e starebbe già conducendo “operazioni di alto livello contro soldati del governo e agenti di sicurezza”, come ha detto il suo comandante nei giorni scorsi al New York Times, assicurando la volontà di combattere il regime fino a quando non cadrà per poi creare “un nuovo periodo di stabilità e sicurezza per la Siria”. La scorsa settimana, l'Fsa ha rivendicato l'uccisione di nove soldati siriani in scontri avvenuti nel centro del Paese, mentre venerdì scorso, ricorda il Telegraph, altri 17 soldati sono stati uccisi in combattimenti a Homs. La cosa interessante – o inquietante a seconda di come la si veda – è che la formazione dell'esercito ribelle è stata sostenuta e coordinata dalla Turchia. Ankara, dunque, non solo vuole giocare un ruolo di primo piano nell'attuale crisi siriana, anche a costo di compromettere i tentativi di mediazione internazionale (in primis quello, per altro per ora fallimentare, della Lega araba) e di rompere in modo definitivo e irrimediabile con l'ex amico Bashar el Assad.
Nei mesi scorsi il governo di Erdogan aveva tentato di proporsi come mediatore facendo affidamento sugli ottimi rapporti con Assad costruiti negli ultimi anni dopo che in passato i due Paesi avevano rischiato più volte il conflitto armato. Era stato proprio Bashar al Assad a incoraggiare il dialogo con Ankara, in un processo che lo scorso anno aveva portato all'abolizione dei visti di ingresso fra i due Paesi. Lo stesso Erdogan aveva più volte definito Assad “un caro amico”. Quei tempi ora sembrano però molto lontani. Ankara ha mantenuto evidentemente la certezza di poter cambiare le situazione influendo positivamente su Damasco, ma di fronte all'inutilità di visite ufficiali e contatti ad alto livelli, conditi di inviti, appelli e ammonimenti, l'atteggiamento è andato progressivamente cambiando fino a diventare aperta opposizione e pur continuando ad auspicare una soluzione pacifica, la pazienza sembra essere arrivata al limite. A complicare ulteriormente la situazione ci sono anche le accuse della stampa turca alla Siria di fiancheggiare i guerriglieri curdi del Pkk. Nonostante le critiche dell'opposizione (il Chp, il Partito repubblicano del popolo, di orientamento laico e repubblicano, ha parlato di “spaventosa inversione a U nell'atteggiamento del governo verso Assad”), i rapporti con il leader siriano sembrano ormai definitivamente compromessi e a nulla sembra essere servito il riavvicinamento tentato da Assad con l'invio di aiuti nel sud-est turco colpito dal terremoto.
E' dal giugno scorso che la Turchia ha accolto migliaia di profughi in fuga dalle persecuzioni del regime siriano. In questi mesi il governo di Ankara ha cercato a più riprese di convincere Assad a introdurre le riforme più volte promesse, ma poi sempre regolarmente smentite da nuove sanguinose repressioni. Proprio alla luce della crescente violenta repressione, il governo turco ha deciso di favorire la formazione di un vero e proprio esercito di liberazione. Del resto, Ankara ha più volte manifestato il suo sostegno alle “primavere arabe”, anche con il recente, trionfale viaggio del premier Erdogan in Egitto e in altri Paesi dell'area, evidentemente parte del disegno di fare della Turchia la nuova, vera potenza regionale. La Siria è un Paese chiave dell'area: la decisione di Ankara di addestrare una forza armata che possa condurre operazioni contro l'esercito governativo e le forze di sicurezza siriane e che possa diventare anche il braccio armato del Consiglio nazionale siriano, ovvero il coordinamento della resistenza che si è riunito per la prima volta proprio a Istanbul, mostra che Ankara vuole giocare un ruolo di primo piano nella crisi, prendendo la guida della regione e ponendosi come interlocutore ineludibile per qualunque eventuale intrvento internazionale, politico e/o militare, per cercare di risolvere la questione siriana. Resta da vedere se Ankara ha fatto bene i suoi conti, visto che aveva scommesso sulla caduta di Assad in poche settimane, ma ciò non è avvenuto.
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