La vicenda del compromesso tra Unione Europea e Turchia sulla crisi dei profughi porta al pettine tutti i nodi del controverso processo di integrazione della Mezzaluna e la mancanza di un pensiero strategico, di una visione e medio-lungo termine che ha caratterizzato le leadership di entrambe le parti in causa e che sarebbero invece stati necessari in una trattativa così importante quanto delicata.
L'UE, dopo aver deciso di dare via libera formalmente al negoziato con la Turchia per l'adesione nel 2005, lo ha di fatto bloccato. Protagoniste di questo evidente voltafaccia sono state la Francia del presidente Sarkozy e la Germania della cancelliera Merkel. La stessa che, dopo aver proposto un “partenariato rafforzato” con Ankara, ora, pressata dalle circostanze, sembra sostenere una “partnership privilegiata” che fa della Turchia una sorta di 29° stato membro dell'Unione.
In tempi di Brexit e di messa in discussione degli accordi di Schengen, se non della stessa Unione, è chiaro che è meglio avere una Germania che chiede maggiore integrazione anziché accodarsi ai governi euroscettici. Però in questa situazione di crisi e di divisione tra i 28, l'UE, se non proprio sotto ricatto, si trova comunque in una situazione di debolezza di fronte al presidente Erdogan proprio nel momento in cui il governo di Ankara appare più lontano dagli standard comunitari.
Senza almanaccare sull'esistenza o meno di una “agenda segreta”, c'è da domandarsi se l'uomo forte di Ankara sia mai stato davvero interessato all'adesione all'UE o se non abbia solo usato opportunisticamente questa prospettiva. C'è da chiedersi, anche, se in tutti questi anni ci siamo un po' illusi sulla Turchia di Erdogan, vedendo solo ciò che ci piaceva credere di vedere (quasi l'Akp fosse una sorte di “Democrazia islamica” simile ai partiti democristiani europei), invece dei segnali preoccupanti che pure arrivavano dal Bosforo.
La svolta autoritaria che abbiamo visto concretizzarsi con la brutale repressione delle proteste di Gezi Park e la furiosa reazione allo scandalo del 2013 era stata preceduta da segnali preoccupanti. C'erano state però, insieme, aperture impensate come quella sulla “questione curda”, diventata appunto questione politica dopo decenni di conflitto e decine di migliaia di morti. Anche l'uso opportunistico dell'Islam (perché di questo si tratta) che Erdogan ha fatto fin dal suo arrivo al potere avrebbe dovuto suonare un altro campanello d'allarme.
Se l'UE avesse aperto da subito i capitoli negoziali su diritti umani e libertà fondamentali, forse oggi la situazione ad Ankara sarebbe diversa, ma del senno di poi, come si sa, son pieni i fossi (e gli editoriali). Ma questa è la Turchia e questo il governo con cui dobbiamo trattare oggi (facendo finta di non vedere la guerra in corso nel sud-est curdo, la repressione della libertà di stampa e le relazioni pericolose con l'Isis). Anche perché Erdogan prima o poi passerà, mentre la Turchia sarà sempre lì, in posizione strategica in uno degli scenari geopolitici più complicati e instabili del globo.
Avremmo bisogno di classi politiche lungimiranti e invece ci dobbiamo affidare a politici di piccolo cabotaggio il cui orizzonte non va al di là delle prime elezioni utili. Per cui una leader di medio livello come Angela Merkel emerge come una statista. E per fortuna c'è almeno la cancelliera a chiedere più Europa per rispondere alla crisi dell'Unione. Perché se non si rilancia la costruzione di una “patria europea”, federalista e democratica, il destino sarà quello del ritorno all'Europa delle patrie. Sempre più piccole, sempre più divise, sempre più ininfluenti.
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