Foto AP / Mohammed Ballas |
Il 29 novembre l'Assemblea generale
delle Nazioni Unite ha votato a larghissima maggioranza l'ammissione
dell'Autorità nazionale palestinese come “non membro osservatore”
al Palazzo di vetro. Credo sia stata una decisione giusta: certo
imperfetta e criticabile, come ogni cosa, ma opportuna e ormai
inevitabile. Sono convinto che Israele abbia il diritto di difendere
la propria esistenza e la propria sovranità, concetti che forse
nessuno metterebbe in discussione se si parlasse, che so, del
Venezuela, del Togo o della Turchia, ma che nel caso dello Stato ebraico divengono sempre oggetto di sottili distinguo, magari da parte di chi poi non
appare particolarmente scandalizzato dalle dichiarazioni di qualche
capo di Stato che ne invoca la distruzione o propone la deportazione
dei suoi abitanti in Alaska. Altro è, naturalmente, il
giudizio che di volta in volta si dà sull'operato del governo di Tel
Aviv.
Credo che quanto è successo al Palazzo
di vetro sia giusto e opportuno e che chi da noi ha criticato il voto
dell'Assemblea generale non capisca che il voto del 29 novembre offre
delle opportunità e toglie qualche alibi. Un alibi da smascherare è
certamente quello degli oltranzisti arabi e dei loro amici che
lamentavano, strumentalmente, la mancanza di riconoscimento internazionale per il popolo
palestinese. Un paravento dietro al quale sempre meno si possono nascondere anche i governanti palestinesi. Un'opportunità è quella di poter riprendere le trattative alla ricerca di un accordo di pace
(che notoriamente si fa con i nemici, cioè quelli che ti hanno
sparato addosso fino ad un momento prima). Per questo credo che sbagli chi sostiene, come per esempio Fiamma Nirenstein sul Giornale di ieri che Israele se ne
dovrebbe uscire dell'Onu. Per andare dove? Israele è abituata
all'isolamento e saprà resistere, ha scritto, ma è di questo che
hanno bisogno gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo? Segnalo, a questo
proposito, l'interessante intervento di ieri su Europa di Matteo Mecacci (deputato
radicale, presidente del Comitato Diritti umani
dell'Osce).
Non voglio insegnare niente a nessuno,
ma Nirenstein e gli altri che in questi giorni hanno scritto cose
simili, potrebbero ricordare, come ha fatto il grande direttore d'orchestra Daniel Barenboim, in un intervento sul Corriere della Sera, che (coincidenze della storia)
il 29 novembre del 1947, proprio l'Onu, con il “Piano di partizione
della Palestina”, stabilì la divisione del territorio in modo che
arabi ed ebrei potessero convivere in due Stati. La decisione fu
accolta con gioia dagli ebrei e respinta dagli arabi che diedero il
via all'interminabile serie di conflitti che ancora non si è
conclusa. Il voto del 29 novembre 2012 all'Onu è un'opportunità per la pace: non so se l'ultima, ma certo sarebbe un errore lasciarla cadere. Il governo israeliano può pure pensare di isolarsi
illudendosi che il Paese possa bastare a sé stesso, ma, a mio
modesto avviso, farebbe meglio a cogliere il momento e, invece di costruire nuovi
insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania (con quale
legittimità?), offrire di riprendere la
trattativa isolando e smascherando chi non propone altro che la
distruzione dello Stato ebraico.
Il riconoscimento dell'Anp all'Onu, però, non è una questione che possa essere circoscritta all'ambito mediorientale, ma finirà per avere conseguenze anche in altre
questioni molto delicate e complesse: per esempio in quella dei
curdi. Sempre ieri, Mimmo Candito su La Stampa faceva notare che “se
sono in 5 milioni i palestinesi che hanno ottenuto un primo
riconoscimento delle loro attese, i curdi – che sono 25 milioni –
trovano nel voto dell'Onu ragioni ancora più forti per rinnovare la
loro rivendicazione d'una patria che sia anche uno Stato”. La
questione curda, ricordava Candito, investe frontiere, vicende
nazionali e governi diversi dato che i curdi, infatti, sono divisi
tra Turchia, Siria, Iran e Iraq, ma il problema è che “frantumare
le storie politiche di questi paesi per ricompattarle in un unico
nuovo spazio omogeneo che dovrebbe avere il nome appunto di Kurdistan
sarebbe per la storia di quell'area più distruttivo di una
gigantesca bomba atomica […] un sisma che allargherebbe la sua
sconvolgente onda d'urto in ogni angolo del pianeta”.
L'indubbio successo colto dai
palestinesi alle Nazioni Unite è dunque destinato, secondo Candito, ad
avere delle ricadute “sull'intera cosmogonia dei
nazionalismi riaccesi nella crisi identitaria provocata dalle
fratture della mondializzazione”, dalla questione degli armeni al
Tibet, dal conflitto in Kashmir ai Paesi baschi, fino
all'indipendentismo catalano. Citando la “geostrategia delle
emozioni” di Moisi seguita allo “scontro delle civiltà” di
Huntigton, Candito ricorda che i processi della storia subiscono
spesso spinte che provocano conseguenze imprevedibili. Seguendo
questo ragionamento, la mia personale impressione è che il punto di
inizio possa esser ricercato in Kosovo e nell'indipendenza dichiarata
dai kosovari albanesi, sostenuti da Usa e da parte dell'Ue, poi
legittimata dalla Corte di giustizia dell'Onu. Ci hanno spiegato che
quello dell'indipendenza kosovara era un caso “sui generis”, ma
era evidente che non poteva essere così. Non ha provocato la serie di disastri geopolitici a catena che
molti autorevoli analisti avevano preconizzato con un po' troppa approssimazione, ma ha messo in moto trasformazioni le cui conseguenze
non sono state previste. E non avrebbero potuto esserlo, perché “i
processi della storia non sono segnati solo dalla razionalità”.
Sarà bene che non ce ne dimentichiamo.
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