Il premier turco Recep Tayyip Erdogan |
Ieri, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan aveva duramente criticato i bombardamenti compiuti dagli aerei delle potenze occidentali sulla Libia affermando che la Turchia “non punterà mai le proprie armi contro il popolo libico”. Parlando poi in serata al telefono con Barack Obama, Erdogan si è però detto d'accordo con il presidente Usa che i “contributi nazionali” per l'attuazione della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza “sono resi possibili dalle capacità di controllo e dal comando unico e multinazionale della Nato”. E a proposito del modo in cui l'Alleanza atlantica dovrebbe agire nella crisi libica, secondo Erdogan l'Onu dovrebbe guidare soltanto un'operazione umanitaria e non militare.
In precedenza lo stesso premier turco aveva affermato che il suo governo appoggerà un'operazione a guida Nato a condizione che venga condotta per garantire che la Libia appartenga al suo popolo, che le ricche risorse petrolifere del paese non vengano spartite fra altre nazioni e che l'intervento della Nato non si trasformi in un'occupazione militare della Libia. Erdogan ha aggiunto che la Turchia è pronta ad interventi umanitari in soccorso della popolazione libica, nella gestione dell'aeroporto di Bengasi e nel dispiegamento di una forza navale per monitorare il tratto di mare fra Bengasi e l'isola greca di Creta.
Le ultime dichiarazioni mostrerebbero, dunque, che, pur badando a non mettere in difficoltà la Nato (di cui rappresenta il secondo esercito dopo quello Usa), Erdogan voglia giocare una sua personale partita, alla ricerca di un ruolo regionale com'è stato quello dell'Egitto e con un occhio attento ai suoi fatti interni, ovvero le elezioni del 12 giugno e soprattutto il giro di affari da miliardi di dollari con la Libia. Il problema, come già scrivevo ieri, è che quando si tengono troppe carte in mano, si finisce per “incartarsi”. Anche perché la situazione in Medio Oriente sembra sull'orlo di una nuova crisi e la politica estera di Ankara, ispirata alla dottrina della “profondità strategica” del ministro Ahmet Davutoglu, non ha prodotto fino ad ora grandi risultati: ovvero, è stata un mezzo fallimento.
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