Qui di seguito il testo del
discorso che il premier albanese Edi Rama ha pronunciato la scorsa
settimana ad una conferenza tenutasi presso l'Ambasciata italiana di Tirana. Si tratta di una serie di riflessioni sull'Europa di oggi, sui Balcani e
sull'integrazione europea, dopo la conquista dello status di Paese candidato all'adesione da parte dell'Albania e anche attraverso quanto accaduto recentemente
tra Serbia e Albania dopo la partita di calcio tra le due nazionali sospesa a causa degli incidenti scoppiati a causa del drone che ha portato in volo sullo stadio di Belgrado uno striscione nazionalista albanese.
Il testo è quello pubblicato sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso.
Voglio cominciare il mio discorso citando un
grande europeista e amico degli albanesi, nonché amico mio. Si chiama
Romano Prodi ed è un grande onore averlo qui con noi oggi: “Il
fondamento dell’Europa era mettere insieme diversi Paesi per costruire
qualcosa di nuovo, chiudere con la tragedia del passato, lavorare
insieme, mettere le risorse in comune per costruire un futuro prospero e
in pace. Oggi, il presente assorbe il senso del futuro e l’Europa della
speranza è diventata l’Europa della paura”.
Credo
che l’Europa della paura abbia molte sfaccettature e gran parte di
queste ho potuto osservarle in prima persona. Come albanese e come
balcanico mi sono sentito in dovere di difendere con grande vigore
europeista l’Europa della speranza, davanti ad europei olandesi,
inglesi, che l’Europa della paura faceva apparire scettici
sull’allargamento stesso.
Ovviamente non ho
niente contro olandesi e inglesi, perché di europei impauriti ve ne sono
fino ai vertici politici di molti altri paesi membri dell’Unione
europea. Invece, albanesi e balcanici disillusi dell’Europa unita,
difficilmente li trovi, anche a cercarli nei caffè delle provincie più
sperdute, dove bolle il caffè della politica albanese o balcanica,
simili tra di loro.
Caro Professor Prodi,
l’occasione di oggi mi è propizia per confessarle che l’ho citata
assiduamente, negli innumerevoli incontri che ho avuto prima del giorno
in cui finalmente ci hanno concesso il tanto atteso status di paese
candidato, dopo averlo negato per così tante volte che anche sul numero
effettivo di questi rifiuti abbiamo divergenze di vedute con
l’opposizione qui in Albania. Il vero numero però non ha molta
importanza, certo è che lo status di paese candidato ci è stato
rifiutato per più di due volte – e su questo concordiamo con
l'opposizione. Lo status per un paese come il nostro ha innanzitutto un
altissimo valore simbolico. L’ho citata spesso per alleviare in qualche
modo il fardello dell’Europa della paura, spiegando come, grazie a una
sua geniale soluzione, offrendo lo status di paese candidato senza
negoziati, siete riusciti a offrire a macedoni e albanesi la ragione per
abbassare le armi e sedersi insieme al tavolo dei negoziati, che
successivamente hanno portato ad uno storico accordo per una pace
stabile e duratura, nonostante i molti nodi che rimangono ancora
irrisolti.
Quell’accordo storico per i Balcani è
forse il più rilevante per spiegare il miracolo dell’Europa della
speranza alle persone che auspicano una pace stabile e una prospettiva
di benessere duraturo. Lo status di paese candidato ha un valore
altamente simbolico, ma nello stesso tempo è profondamente importante
per nutrire e avvolgere di spirito europeista i popoli ancora fuori
dalle alte mura dell’Unione europea. Ma così come a noi la concessione
dello status ha portato a generare una forza propulsiva positiva, allo
stesso modo, credetemi, ha generato i dubbi degli impauriti dell’Europa
della paura nel momento in cui dovevano concedercelo. Di quella serie
lunga di incontri e conversazioni che cominciavano a sembrarmi delle
sedute di psicanalisi, mi ricordo ancora - e penso me ne ricorderò a
lungo – la frase “Non è in discussione la concessione dello status, si
tratta solo del quando”. Una forma perfetta di agonia, per una decisione
che ha necessitato di anni per essere assunta. Naturalmente la colpa è
tutta nostra se l’Unione europea a cui aspiriamo è quella così come si
presenta oggi: una macchina la cui direzione viene decisa dalla tattica e
non dalla strategia, dove la velocità viene stabilita dalla paura di
non sfiorare niente, possibilmente nemmeno l'aria e non più dal
desiderio di toccare l’orizzonte che fin dal principio i padri fondatori
hanno disegnato per l’Europa Unita.
Sono molto
riconoscente agli organizzatori di questa conferenza, all’Ambasciata
italiana e sopratutto all’Ambasciatore Gaiani, sempre fedele alla sua
reputazione e a quella del suo paese di tenaci sostenitori del nostro
sforzo europeista; all’Università “Nostra Signora del Buon Consiglio” e
al professor Ornaghi personalmente, che non si sono mai risparmiati.
Nello stesso modo sono molto riconoscente al Presidente della
Commissione Affari Esteri del Senato Italiano, onorevole Pierferdinando
Casini, per la sua presenza qui oggi. Indubbiamente sono riconoscente
all’uomo che il nostro destino europeo ci ha fatto incontrare nei giorni
più difficili della transizione albanese, Romano Prodi, quando da
premier italiano – come ha anch'egli menzionato - è venuto in Albania in
un periodo di lutto con una missione chiamata Alba e da allora si è
sempre impegnato affinché l’alba lasciasse il posto ad un sole raggiante
sull’Albania. Il mio riconoscimento infine a tutti coloro che sono
venuti appositamente dall’Italia per questo evento.
Lasciatemi
però confessare che avrei desiderato molto che insieme a tutti noi -
che nel bene e nel male la pensiamo in modo simile - vi fossero anche
rappresentanti degli impauriti dell’Europa della paura. Non intendo
solamente gli impauriti tra gli italiani - che grazie a Dio, ma anche
grazie allo spirito europeista dei politici e dei cittadini italiani,
almeno della loro maggioranza, e sotto la leadership del nostro amico e
portavoce dell’Europa della speranza Matteo Renzi, hanno scelto la
speranza alle ultime elezioni europee - mi riferisco a tutti coloro che
hanno smarrito l’immenso senso di grandezza e ispirazione che ha il
progetto dell’Europa unita, il quale qui in Albania, ma anche nei
Balcani, rappresenta il collante determinante per individui, partiti,
pezzi di società civile e stati, che riescono a dividersi su quasi tutto
il resto.
Succede questo al punto che un
oggetto volante, del tutto innocuo, si rischia venga considerato dagli
uni alla stregua di un caccia militare che mette a repentaglio la
propria integrità territoriale e di conseguenza sembrano pronti a
dichiarare guerra agli altri; da questi ultimi invece si rischia venga
battezzato come un “animale mitico” che preanuncia l’ottava meraviglia
del mondo. E così si è pronti a dichiararsi guerra a vicenda in nome di
una verità che in realtà non è tale né dall’una né dall’altra parte.
Oltre
ad andare in una direzione strategica, il progetto dell’Europa della
speranza ha compiuto nei Balcani il miracolo di una pace, che solamente
qualche anno fa, nemmeno i migliori ottimisti prevedevano potesse essere
possibile in tempi brevi. Nel centenario della Prima guerra mondiale,
scoppiata proprio da queste parti, nei Balcani, dove per 100 anni
abbiamo avuto guerre, conflitti tra i più sanguinari, infinite avversità
e innumerevoli divisioni, questa penisola sta vivendo finalmente senza
conflitti e senza confini contesi. Per la prima volta, tutti i leader
balcanici si sono seduti intorno ad un tavolo, a Berlino, non per
continuare le dispute su confini che ci dividono, ma per unire le forze e
le energie, per scambiarsi idee, hanno discusso su principi comuni che
possano trasformare questa pace in una pace per la quale vale la pena
vivere, come diceva il presidente Kennedy. Una pace per cui valga la
pena vivere, per noi albanesi, proprio anche per gli enormi sacrifici ai
quali siamo stati sottoposti e i dolorosi compromessi che abbiamo
dovuto fare.
Senza l’Europa della speranza come
comune aspirazione, gli infiniti fiumi di sangue versati nei Balcani
non avrebbero portato alla pace tra tutti quelli che fino a ieri
vivevano separati dalla violenza tra di loro. Senza l’Europa della
speranza come progetto comune, nemmeno la scaramuccia di mercoledì allo
stadio di Belgrado, nata come esaltazione di tifosi di calcio e
proseguita a livello politico, si sarebbe potuta appianare con una
conversazione telefonica tra i due premier, che ha fissato nuovamente
una data per un loro incontro che manca da oltre 68 anni.
Senza
l’Europa della speranza, oggi e ogni giorno, questa penisola può
esplodere nuovamente, proprio come stereotipo vuole, “una polveriera”,
per un pallone da calcio e per le innumerevoli ferite che ancora
bruciano nel suo corpo stanco e sfinito dalle guerre e dall’isolamento.
Non servono spiccate doti di immaginazione per individuare le
conseguenze che avrebbe oggi se i Balcani non potessero guardare, anche
per poco tempo, all'Europa della speranza e avessero davanti solo
l'Europa della paura come traguardo del faticoso percorso di adesione
all'UE. Una penisola balcanica che si sentirebbe di troppo, disoccupata e
inoccupabile, nel cuore di un'Europa impaurita da se stessa e chiusa in
se stessa. Una penisola balcanica che si trova tra oriente e occidente,
mentre tenta di diventare parte dell’Europa unita, trasformando la sua
straordinaria diversità in forza e che da un lato si scontra con
l’agonia di una attesa decisione di allargamento dell'UE e dall’altro
con le forme aggressive dell’epidemia del terrorismo islamico o
dell’aggressione ai danni di paesi sovrani che avviene proprio ai
confini dei paesi NATO.
Tra meno di un mese
finalmente diverrà realtà anche un altro sogno antico degli albanesi.
Finalmente l’Albania giocherà una partita di calcio con l’Italia.
Sicuramente molti albanesi andranno allo stadio con le loro bandiere e
se vorranno anche con i loro droni, che oramai si possono trovare nei
supermercati tedeschi con il nome di “Albaniche Drone”. Costano, mi
sembra, circa 5 euro.
Nessuno sa chi ha
pilotato il drone ma sfortunatamente è toccato a mio fratello entrare,
senza aver fatto nulla, nella lunga lista dei finti eroi balcanici.
Quanti simili eroi, che non hanno fatto niente per essere tali, hanno
prodotto i Balcani! Quello che però so sicuramente è che, chi tra noi
albanesi, che si tratti di politici, opinionisti o sedicenti patrioti ha
voluto continuare il post-partita avviato da politici, opinionisti e
giornalisti serbi, facendo proclami partitici e augurandosi
l'annullamento della mia visita a Belgrado si sbaglia di grosso.
L’annullamento di questa visita in Serbia non sarebbe la risposta
adeguata a tutto ciò che ingiustamente è stato perpetrato ai danni
dell’Albania e degli albanesi nella capitale serba, bensì costituirebbe
l’abbassamento dell’Albania e degli albanesi al livello di una guerra di
dichiarazioni sterili, con per conseguenza niente meno che l’aborto del
processo storico che ha avuto inizio a Berlino; significherebbe la
rottura con le nostre mani, e non più serbe, degli esempi fonti di
ispirazione forniti dall’Albania e del ruolo pacifico ed emancipante che
gli albanesi hanno assunto nei Balcani; l’interruzione del dialogo e
della cooperazione nella regione, dove non la Serbia ma bensì l’Albania
ne risulterebbe la grande perdente dato che ne è la più grande
azionista. Un annullamento della visita d'altro canto avrebbe dato un
ulteriore pretesto all’Europa della paura che avrebbe potuto sostenere
che tanto rancore per una partita di calcio non è accettabile e avrebbe
fatto ritornare l'Europa ai tempi della Guerra Fredda. Ecco, tutto
questo non ci serve, ed è un bene che ne siamo impauriti.
Ho
sentito sostenere da alcuni contrari a queste visita a Belgrado che il
suo non annullamento sia stato imposto da Bruxelles. Devo dire che
Bruxelles ha imposto molte cose in Albania, ma questa proprio no! Non è
affatto vero. Così come non è stata Bruxelles a imporre lo slogan
“vogliamo l’Albania come l’Europa”! Così come non ci ha imposto
Bruxelles nemmeno la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e
Associazione. Così come, e lo sappiamo bene, non è stata Bruxelles,
anzi, a imporci lo status di paese candidato. Così come non ci ha
imposto l’aspirazione, il progetto, la strada verso l’Europa della
speranza. Non ci impone Bruxelles di essere europei e comportarci come
tali, anche quando gli altri – e qui non intendo solo i serbi – si
comportano come non europei con noi.
Anzi, che
europei potremmo essere noi se la strada dell’integrazione europea la
percepissimo come compito assegnato da altri e non come obbligo che
abbiamo con i nostri padri, con noi e sopratutto con i nostri figli; che
europei potremmo essere se ci comportiamo come tali solo quando gli
altri si comportano con noi da europei e non sempre, in modo che i
nostri principi europei possano determinare i nostri comportamenti e
rispecchiarsi nelle nostre decisioni; che europei potremmo essere se il
nostro essere europeo cambia pelle e il nostro essere politico cambia
visione e strategia a causa di una partita di calcio, di un pugno di
tifosi o di una classe politica dall’altra parte che ha perso la ragione
sotto la pressione degli ultrà. Nessuno mi ha chiamato per dirmi “Non
annullare l’incontro con il premier serbo”. Perché dico questo? Per una
ragione molto semplice: lo ritengo un grande complimento per la nuova
immagine che stiamo cercando di dare all’Albania e la fiducia che
abbiamo proiettato in questa immagine europea, dopo il grave oltraggio
che la politica ha fatto all’immagine del nostro paese con ammuffiti
proclami nazionalistici.
A renderci europei o
non europei non è nessun altro se non noi stessi. L’Albania europea non è
un filo d’erba in un campo da calcio che si spazza via con un calcio,
ma è un albero che ha radici profonde nella sua storia. I suoi rami più
giovani sono in ogni mente e cuore albanese ovunque viva e crescono
nell’Europa della speranza, nell’Europa del sapere, nell’Europa della
cultura, nell’Europa della pace e della prosperità, la quale deriva
dalla convivenza e dalla pacifica cooperazione.
L’Albania
europea non è il luogo dove facciamo a gara su chi la spara più grossa
del vicino, anche quando quest’ultimo non è in se stesso. L’Albania
europea è il posto scelto come prima stazione europea da Papa Francesco,
dove è stato accolto da europei, musulmani e cristiani, che hanno
riempito i viali prima ancora che sorgesse il sole. Sicuramente,
l’Albania europea non potrà mai essere il posto dove l’Europa unita sia
una foglia di fico per nascondere vecchie inclinazioni conflittuali,
ogni volta che viene a mancare la ragione.
Sicuramente
non mi sono dimenticato che siamo qui oggi per parlare del partenariato
strategico tra Italia e Albania. Vi assicuro che non ho esaurito qui il
mio discorso per sottolineare la nostra eccellente amicizia, che per
noi è imprescindibile.
L’Italia è stata senza
ombra di dubbio il partner più vicino e più naturale nella nostra strada
verso l’Europa, non fosse anche per la storia e il solito mare che
condividiamo. L’Italia è il principale partner commerciale dell’Albania
con quasi la metà delle nostre esportazioni e circa il 35% delle
importazioni. Per quanto siamo vicini in realtà, i volumi nominali che
stanno dietro queste percentuali sono però a mio avviso ancora bassi.
Molto bassi. In Albania operano circa 1460 imprese italiane, con
capitale italiano o misto, e con attività in settori diversi. Questo
numero lo cito per dire che sono tanti, 1460, ma nello stesso tempo per
dire che vi è spazio per molto di più. Indipendentemente dal fatto che
1460 imprese italiane siano sempre di più rispetto a quelle di altri
paesi, per quello che noi rappresentiamo per l’Italia e viceversa sono
molto poche. Il potenziale di cooperazione non sfruttato tra i nostri
due paesi è ancora enorme.
Io credo che siano 3
gli aspetti principali che sottolineano questo potenziale e che vanno
armonizzati, se vogliamo svilupparlo al massimo. Il primo sicuramente è
l’allargamento delle relazioni, economiche, culturali e
intergovernative; il secondo è lo sviluppo di cooperazioni innovative;
il terzo è una cooperazione più intensa per l’integrazione dei Balcani
al loro interno e poi nell’Europa unita.
Su
quest’ultimo punto vorrei porre un forte accento perché credo che
l’Italia abbia un ruolo molto attivo in questa direzione, considerando
non solo i contributi che l’Italia ha dato ai singoli stati balcanici ma
anche alle relazioni molto prossime che i singoli stati balcanici hanno
con l’Italia.
Concedetemi una piccola
digressione. Circa un anno fa mi sono incontrato, qui a Tirana, con
Gianni Amelio,a cui mi lega una lunga amicizia. Era la seconda volta che
lo incontravo in Albania. La prima volta l’ho incontrato nel 1991/92 se
non sbaglio, quando venne per girare L’America, il film che
raccontava gli albanesi che scappavano in Italia. L’anno scorso era
venuto per girare un film – non conosco il titolo – sugli italiani che
emigrano in Albania per trovare un lavoro. Questo non perché l’Albania
sia diventato il posto dove tutti gli italiani aspirino a trasferirsi
per trovare lavoro, ma sicuramente perché l’Albania è diventata un luogo
dove le imprese italiane possono trovare tutto quello che cercano e che
oggi non trovano nemmeno in Italia.
Credo che
anche in quest'ottica l’Ambasciatore Gaiani meriti un ringraziamento di
cuore e per niente formale, perché ha dato una spinta importante alle
relazioni tra i nostri due paesi, senza farsi condizionare dagli eventi
politici, che prevalentemente in Italia più che in Albania non hanno
concesso sempre l’attenzione dovuta a queste relazioni. La creazione
dell’Associazione parlamentare di amicizia Albania–Italia, ma anche il
gruppo di parlamentari appositamente creato per attrarre investimenti
italiani in Albania, credo che siano segnali incoraggianti. Sicuramente
Massimo Gaiani è agevolato nello svolgimento delle sue funzioni dal
fatto che oltre il 60% della popolazione albanese parla italiano. E' un
dato di fatto che agli ambasciatori dei paesi più euroscettici risulta
più difficile spiegare nella loro lingua agli albanesi il perché di
tanta paura per il processo di allargamento.
Oltre
a questo, credo che l’Italia sia molto importante oggi anche per
un’altra ragione. L’Italia oggi è il rappresentante più vicino e più
raggiante dell’Europa della speranza, e che rispecchia speranza anche in
noi, oltre ad essere piena di speranza anche per se stessa, grazie al
suo nuovo governo. Ci sentiamo molto vicini al nuovo governo, non solo
perché noi due premier ci assomigliamo, ma sopratutto perché abbiamo
scelto entrambi come ministro della Difesa una donna, capendo che non
esiste migliore difesa di questa. Credo che l’importante contributo che
l’Italia ha dato sia collegato strettamente al contributo che ognuno di
noi nei Balcani ha dato affinché le economie della regione si potessero
aprire ai grandi investitori e la penisola stessa diventasse più
attraente, utilizzando l’Albania stessa come punto di partenza.
Qui
vorrei chiudere cogliendo l’occasione per ripetere - e non è la prima
volta che lo faccio, e approfittando della presenza del Presidente della
Commissione esteri del Senato italiano e sicuramente anche della
presenza del Professor Prodi - che l’Italia non può rimanere fuori dal
processo che è cominciato a Berlino. E se aspettiamo un anno dalla
conferenza di Berlino per rivederci alla successiva conferenza a Vienna o
in qualche altra città in Austria, penso che nel mezzo non sia
opportuno lasciare vuoti di contenuti o persone. Chi meglio dell’Italia,
anche nel quadro della presidenza di turno dell’Unione, può essere
testimone e compagna di viaggio in questo processo, considerando il
fatto che tutti gli assi identificati come basilari all’inizio del
processo, in funzione dell’integrazione e della cooperazione regionale,
coincidono anche con gli interessi italiani in Albania e nei Balcani? Si
tratta del settore energetico, infrastrutturale per proseguire con il
turismo e arrivare fino alle sviluppo delle piccole e medie imprese.
Infine,
credo che l’Italia, come miglior rappresentante dell’Europa della
speranza, possa aiutarci a trasmettere a tutti gli impauriti dell’Europa
della paura, un messaggio: oggi l’Unione europea ha bisogno
dell’Albania, degli albanesi, così come anche del resto dei Balcani
nella stessa misura in cui i Balcani, l’Albania e gli albanesi hanno
bisogno dell’Unione europea. Se questo non è compreso bene oggi, domani
potrebbe essere troppo tardi. La storia dell’Europa ha dimostrato che
quando ha vinto la speranza, ha vinto il futuro. Quando ha vinto la
paura hanno vinto i peggiori istinti, che gli europei per bene, educati
ma tendenti all’isolamento dagli altri, non avevano immaginato nemmeno
nei loro peggiori incubi.
Grazie.
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