Quanto avvenuto di recente in Turchia, mostra una volta di più le profonde trasformazioni che il paese sta vivendo, da alcuni anni, sia sul piano interno che su quello internazionale, grazie (o, se preferite, a causa) della politica del governo dell'Akp, il "Partito per la Giustizia e lo Sviluppo" di cui il premier Recep Tayyip Erdogan è fondatore e leader.
Su questo segnalo un'intervista che ho realizzato qualche giorno fa con Giuseppe Mancini, giornalista e analista di politica internazionale, animatore del blog Istanbul Avrupa.
Sul piano interno, nello scorso mese di luglio, la vicenda delle nomine dei vertici militari ha segnato un'indubbia vittoria del potere politico nei confronti dell'establishment militare. Quest'ultimo, da sempre investito del compito di vigilare sul rispetto dell'ortodossia kemalista, fino al punto da compiere dei colpi di stato per riportare all'ordine governi e parlamenti, ha dovuto piegarsi al principio, normale nelle democrazie occidentali, che le forze armate sono sottoposte al potere politico, tanto che diversi osservatori, non senza ragioni secondo me, hanno parlato di inizio di una “seconda repubblica” turca.
Sul piano internazionale, le primavere arabe, la situazione in Siria e la crisi umanitaria in Somalia, hanno visto un ulteriore applicazione di quella dottrina della “profondità strategica” che, elaborata dall'attuale ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, da diversi anni ormai informa la politica estera del governo Erdogan. Una politica che, mantenendo le sue tradizionali alleanze internazionali e l'obiettivo strategico dell'adesione all'Unione Europea, punta però a conquistare alla Turchia un ruolo, non tanto di “ponte tra oriente e occidente”, quanto di paese chiave della vasta area sulla quale ha spinto la sua influenza nel corso dei secoli.
Tutto quanto è accaduto e accadrà ancora in Turchia – a partire dalla riforma della costituzione (imposta, non dimentichiamolo, dai militari dopo il golpe dell'80) che Erdogan promette di essere il più condivisa possibile – dovrebbe spingere tanti osservatori di casa nostra a guardare alle “cose turche” con meno pregiudizi e ad analizzare le trasformazioni in atto senza le lenti deformanti degli stereotipi che troppo spesso applichiamo quando guardiamo quello che accade a cavallo del Bosforo.
Questo in estrema sintesi il contenuto dell'intervista a Giuseppe Mancini che rappresenta una posizione un po' diversa da quella di altri commentatori italiani e no, con i quali, tra l'altro, Mancini non manca di polemizzare piuttosto vivacemente dalle pagine del suo blog. Ma al di là delle tesi espresse, ciò che mi interessa è fornire un ulteriore punto di vista, per contribuire a comprendere una realtà complessa e contraddittoria come quella turca, che richiede sempre molta attenzione e anche un sano esercizio del dubbio. Mi piacerebbe che si aprisse un confronto: ogni contributo è ben accetto.
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