Ratko Mladic sul banco degli imputati |
E' ripreso ieri all'Aja, al Tribunale
internazionale per l'ex Jugoslavia, il processo a carico all'ex capo
militare dei serbi di Bosnia Erzegovina, Ratko Mladic, arrestato nel
maggio 2011 in Serbia, dopo quasi sedici anni di latitanza, chiamato
a rispondere dell'accusa di genocidio e crimini guerra, il più grave
dei quali è il massacro di Srebrenica, compiuto nel luglio 1995 e
qualificato come “genocidio” dalla Corte internazionale di
giustizia dell'Onu. Mladic, che oggi ha 70 anni, è malato e si
dichiara non colpevole, deve rispondere di 11 capi d'accusa e
rischia l'ergastolo.
La procura ha annunciato che intende
presentare 400 testimoni a carico dell'imputato. Il primo di questi è
Elvedin Pasic, oggi 34enne, sopravvissuto al massacro di Grabovica,
nella Bosnia settentrionale, dove circa 150 persone furono eliminate
dai militari serbo-bosniaci al comando di Mladic nel novembre 1992,
poco dopo lo scoppio del conflitto. Pasic aveva solo 14 anni quando
kle truppe serbo-bosniache fecero irruzione nel suo villaggio
imprigionando uomini, donne e bambini e istituendo un campo di
detenzione in una scuola vicina. Le audizioni dei testimoni
dell'Accusa dovrebbero proseguire fino al 20 luglio, prima della
pausa estiva dei lavori del Tpi.
Il processo era iniziato il 16 maggio,
ma era stato quasi subito sospeso dopo che la procura aveva ammesso
un errore nella consegna di migliaia di pagine di documenti alla
difesa dell’ex generale. Ieri c'è stato un nuovo colpo di scena: i
difensori dell'imputato hanno infatti chiesto ai giudici di rinviare
il caso di sei mesi a causa delle recenti modifiche delle regole di
presentazione delle prove introdotte dalla Corte. Secondo i legali
con la nuova procedura i giudici hanno permesso ai procuratori di
presentare un numero maggiore di prove documentali rispetto a prima,
dunque “urge un’azione da parte della Corte per evitare un
potenziale e probabile errore giudiziario”. Da qui la richiesta di
sospensione per sei mesi.
La questione sollevata dai legali di Mladic non è la prima a cui il Tribunale ha dovuto far fronte negli ormai non pochi anni della sua esistenza. Qui di seguito vi propongo un report
sul Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia: la sua particolare natura e alcuni
problemi organizzativi e procedurali sorti in questi anni di
attività. L'autore è Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni
internazionali, particolarmente sotto il profilo giuridico, e
conoscitore e analista della realtà serba, e di quella balcanica più
in generale, anche per aver partecipato a diverse missioni
patrocinate da istituzioni internazionali.
Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia
di Riccardo de Mutiis
L’ Aja può essere considerata la
capitale mondiale della giustizia: infatti hanno sede nella città
olandese sia la Corte di Giustizia internazionale, competente a
giudicare le controversie tra Stati, sia la Corte Penale
Internazionale, istituita nel 2002 per perseguire singoli individui
accusati di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, sia il Tribunale Penale Internazionale per l‘ex Jugoslavia,
denominazione ufficiale ICTY (International Criminal Tribunal for
the former Yugoslavia), istituito nel 1993 dall’ONU (con la
risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza) per giudicare i crimini
commessi nell’ex Jugoslavia durante i conflitti che hanno
infiammato il paese balcanico nell’ultimo decennio del secolo
scorso. E proprio la natura affatto particolare del Tribunale Penale
per l’ex Jugoslavia, organo giurisdizionale di creazione politica,
ha in un certo qual modo originato la crisi intervenuta nelle
relazioni tra l’ONU ed il Tribunale stesso nel periodo in cui alla
guida della procura dell’Aja vi era un personaggio deciso e
carismatico come Carla Del Ponte.
La Del Ponte, che ha guidato la procura
dal 1999 al 2007, lamentava che il suo lavoro era di fatto ostacolato
dall’ostruzionismo del governo jugoslavo, guidato all’epoca da
Vojislav Kostunica: in particolare rimproverava alle autorità di
Belgrado di non consegnare i documenti relativi alle indagini svolte
dalla procura, di non ricercare attivamente gli imputati, di non
contattare i testimoni ed in qualche caso di scoraggiarli dal deporre
dinanzi al Tribunale, di rinviare sine die l’approvazione della
legge sulla cooperazione con il Tribunale. A fronte di questo
atteggiamento non collaborativo la procuratrice svizzera chiedeva
agli organismi internazionali ed agli USA di non erogare
finanziamenti alla Jugoslavia fino a quando questa non avesse
iniziato a cooperare concretamente con il Tribunale. L’ iniziativa
della Del Ponte, che racconta l’episodio nel suo libro “La
caccia”, veniva stigmatizzato dal segretario generale delle Nazioni
Unite, Kofi Annan, il quale la invitava a non intromettersi in
questioni, quali quella relativa agli aiuti economici da concedere a
Belgrado, di natura politica e quindi non di competenza del Tribunale
(in una missiva Kofi Annan invitava espressamente la procuratrice “a
limitare i suoi interventi a questioni che più direttamente
rientrino nella sfera delle sue competenze legittime”).
Appare davvero difficile indicare quale
dei due protagonisti della vicenda sia nel giusto: ha ragione la Del
Ponte quando, trovatasi nella impossibilità di portare a termine le
indagini a causa della mancata collaborazione delle autorità
jugoslave, chiede alla comunità internazionale di subordinare la
concessione di aiuti allo stato balcanico alla cooperazione con il
Tribunale, oppure ha ragione Kofi Annan quando afferma che
l’atteggiamento della Del Ponte sconfinava nell’ambito politico
e quindi esorbitava dalle competenze del Tribunale, che avevano
natura esclusivamente giuridica? Probabilmente il motivo dell’impasse
risiede nel fatto che il Tribunale, ed in special modo la procura,
non possiede, diversamente dalle istituzioni giudiziarie nazionali,
strutture in grado di assicurare in via coercitiva l’esecuzione
dei propri provvedimenti. Infatti la procura dell’Aja non ha alla
proprie dipendenze una struttura operativa che abbia competenza sul
territorio serbo, vi si possa recare per acquisire documenti, sentire
testimoni, arrestare imputati: di qui la necessità per gli
inquirenti di ricorrere alla collaborazione con le autorità di
Belgrado e di qui la necessità di chiedere un intervento politico
nel caso in cui quella collaborazione non venga offerta. In altre
parole il Tribunale, pur essendo indipendente dal punto di vista
giudiziario, non dispone dei poteri di cui gode una corte di
giustizia in uno stato sovrano.
Come le corti nazionali il Tribunale ha
il potere di emettere intimazioni nei confronti di individui ed
istituzioni affinché forniscano documenti ed altro materiale
probatorio e di spiccare mandati di arresto internazionali; ma a
differenza delle corti nazionali non dispone di una polizia
giudiziaria che svolga ricerche ed arresti, per tali attività deve
ricorrere necessariamente alla collaborazione dello stato
interessato. E la mancanza di tale potere spinge necessariamente il
Tribunale nel regno della politica. Ma, oltre a quello appena
esaminato, il Tribunale soffre anche di altre disfunzioni. E’ il caso della norma secondo cui i
giudizi dinanzi al Tribunale per l‘ex Jugoslavia non possono
svolgersi in assenza dell’imputato, contrariamente a quanto accade
nella maggior parte dei Paesi, in cui l‘imputato può essere
giudicato in contumacia. E la necessità della presenza
dell’imputato, che abbiamo visto dipendere dalla esecuzione del
mandato di cattura internazionale, e quindi in ultima analisi da
quella collaborazione dell’ex Stato jugoslavo che spesso è
mancata, ha ritardato l’inizio di alcuni importanti procedimenti
per diversi anni. In alcuni casi tra il periodo in cui vennero
commessi i crimini e l’inizio dei relativi procedimenti sono
trascorsi più di dieci anni, è il caso dei giudizi contro Karadzic,
Mladic e Hadzic. E’ evidente come in tali casi non sia agevole
istruire il giudizio, soprattutto perché i testimoni potrebbero non
ricordare fatti avvenuti in un’epoca così lontana. Per ovviare ad
un simile inconveniente sarebbe sufficiente modificare la regola del
Tribunale che prevede la presenza obbligatoria dell’imputato con
quella, in vigore in quasi tutti i Paesi europei , secondo cui il
procedimento può svolgersi anche in assenza dell’imputato, a
condizione che gli venga notificato l’atto di accusa.
Un altro problema è quello
rappresentato dallo schema operativo della procura dell’ICTY,
creato dal viceprocuratore Graham Blewitt sulla falsariga del modello
utilizzato dalla unità della procura australiana che lui dirigeva, e
che si occupava di perseguire ex nazisti sospettati di crimini di
guerra durante la seconda guerra mondiale: di conseguenza vennero
assunti dalla procura degli investigatori con esperienza in indagini
relative a quel genere di reati. Ma gli indiziati dalla procura
australiana erano principalmente guardie dei campi di concentramento
ed altre figure di basso livello, ragion per cui è del tutto
evidente che un sistema operativo finalizzato a perseguire persone
che in sostanza hanno solo eseguito ordini criminali altrui non è
assolutamente adatto a perseguire soggetti, quali quelli incriminati
dall’ICTY , che ricoprivano i vertici politici e militari di uno
stato. Quello che si vuole dire è che per incriminare un ministro,
un capo di stato, un generale di stato maggiore è necessaria
sensibilità politica, conoscenza del contesto storico in cui sono
avvenuti i fatti, capacità di individuare profili di responsabilità
penale in atti di natura politica: è necessaria, in altre parole,
una preparazione tecnica, un back ground professionale che colui che
indaga il guardiano di un lager non ha.
Un caso emblematico della
impreparazione degli investigatori della procura è stato quello in
cui alcuni di essi interrogarono l’ ex
capo dei servizi segreti croati, Josip Manolic: costui, nel corso
della sua dichiarazione, fece riferimento al servizio di informazioni
dell’esercito jugoslavo, indicandolo con il suo acronimo KOS
(Kontrabavestaina sluzba) e con somma sorpresa realizzò che i suoi
intervistatori non conoscevano quella sigla, e quindi , ritenendoli
non affidabili, decise di non proseguire una collaborazione che
avrebbe potuto fornito un notevole aiuto, in termine di acquisizione
di informazioni assolutamente riservate, alla procura. L’impreparazione dimostrata dagli investigatori della procura nel caso
Manolic può essere equiparata a quella di un investigatore russo che
non conosce il significato della sigla CIA o, al contrario, a quella
di un investigatore americano al quale rimanga oscuro il significato
dell’acronimo KGB. Il problema rappresentato dalla impreparazione
degli investigatori venne risolto dalla Del Ponte, la quale, una
volta nominata al vertice della procura, modificò il modello
operativo di Brewitt ed assunse procuratori ed analisti che
conoscevano lo scenario storico e politico in cui si erano verificati
i crimini oggetto di indagine: non a caso nel 2005 Manolic venne
nuovamente contattato e questa volta convinto a collaborare da uno
staff investigativo che parlava la sua lingua e conosceva la storia
del suo paese. Ma il modello operativo australiano presentava una
ulteriore caratteristica che di fatto ostacolava il lavoro della procura dell’Aja: la rigida ripartizione delle competenze tra
investigatori e procuratori.
Nel sistema australiano la polizia
svolge , in esclusiva, la funzione inquirente ed al termine delle
indagini rimette gli atti al procuratore il quale decide se formulare
o meno l’ atto di accusa. Non vi è, per la procura , nessuna
possibilità di incidere sulle indagini svolte dalla polizia ed è
evidente come questo schema operativo non poteva che rivelarsi
inadeguato per indagini complesse come quelle relative ai criminali
di guerra. Il procuratore si trovava infatti a dovere costruire
l’incriminazione sulla base di elementi raccolti secondo una
impostazione alla cui formulazione era rimasto estraneo e che nella
maggior parte dei casi non condivideva. Anche in questo caso il
sistema operativo della procura venne riformato dopo l’
insediamento al vertice della procura della Del Ponte, ed un
contributo decisivo in tal senso venne dal sostituto procuratore
Clint Williamson. La direzione delle indagini di polizia
venne infatti affidata ai procuratori, e ciò sulla base dell’ovvia
constatazione per cui è colui che costruisce l’ incriminazione,
appunto il procuratore, che deve decidere su quali aspetti si deve
indagare .La squadra operativa della procura venne poi potenziata
attraverso l’assunzione di investigatori e procuratori di diversa
provenienza, dotati delle conoscenze specifiche necessarie per
affrontare i diversi casi: quindi analisti politici particolarmente
esperti del contesto della ex Jugoslavia, conoscitori del diritto
della nazione balcanica, professionisti in gradi di esprimersi anche
in lingua serbo-croata.
Questa breve analisi dei problemi che
hanno caratterizzato la vita del Tribunale per l’ex Jugoslavia si
chiude con un accenno a quello che è stato l’ aspetto che ha
colpito in modo particolare i mass media. Il riferimento è a quella
norma che prevede la possibilità, per l‘imputato, di rinunciare ad
essere difeso da un legale e quindi di difendersi da solo. Della
norma, tipica di un sistema giuridico di common law, ed in quanto
tale non prevista in ordinamenti di civil law quali quello italiano,
si sono serviti i più importanti imputati del Tribunale, Milosevic e
Seselji, per trasformare il processo in arena politica, per
effettuare una serie di contestazioni che nulla avevano di giuridico
e che hanno avuto il solo effetto di prolungare in modo eccessivo i
tempi del processo. Sarebbe auspicabile, in futuro, che tale norma
venisse abolita e, più in generale che venisse adottata tout
court, per la regolamentazione del processo, il sistema in vigore
presso i Paesi di civil law: tale sistema, infatti , per il fatto di
prevedere in modo rigoroso e tassativo, anche sotto il profilo
temporale, le attività che possono essere svolte durante il
procedimento, e per il fatto di prevedere obbligatoriamente
l’assistenza tecnica per l'imputato, ben difficilmente può
originare inconvenienti e lungaggini procedurali.
In conclusione non si può negare che
il Tribunale per l'ex Jugoslavia, nonostante le disfunzioni su cui ci
si è soffermati, abbia ottenuto risultati importanti: ha processato,
per la prima volta nella storia, un capo di Stato, Slobodan Milosevic, ed ha
incriminato, dalla sua fondazione fino alla fine del 2007, ben 161
persone. Ma la creazione del Tribunale Penale per l’ex Jugoslavia
ha anche un altro significato, ed è forse il più importante:
dimostra la volontà della comunità internazionale di perseguire gli
autori di crimini spaventosi ovunque essi si trovino ed in questo
senso rappresenta anche un deterrente non trascurabile per militari e
politici, ormai consapevoli che i loro atti criminosi vengono puniti
senza limiti di spazio e di tempo da una autorità internazionale.
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