In vista della visita della cancelliera
tedesca Angela Merkel in Turchia, la sezione serba della DeutscheWelle ha pubblicato un articolo in cui si dice che il cosiddetto
“malato d'Europa”, come per lungo tempo veniva definita la
Turchia, gia' da molto tempo non e' piu' un malato: “Per di piu',
rispetto ai risultati economici e a una crescente importanza
internazionale e diplomatica di questo paese, la cancelliera verra'
accolta dal premier turco Erdogan il quale ha una sempre maggiore
auto fiducia”, ha scritto Deutsche Welle. Questo, secondo
l'emittente tedesca dovrebbe confermare le affermazioni del
commissario europeo per l'Energia, il tedesco Guenter Etinger, che in
un'occasione aveva detto che la Germania e la Francia tra dieci anni
pregheranno la Turchia "in ginocchio" di entrare
nell'Unione Europea.
Alla fine dell'incontro tra Merkel e
Erdogan, sempre la sezione serba della Deutsche Welle ha scritto che
la cancelliera tedesca ed il premier turco non sono riusciti a
superare le divergenze nelle questioni chiave, che riguardano
maggiormente Cipro, ma hanno concordato che i colloqui devono
continuare, soprattutto quelli relativi al processo di integrazione
europea. Le critiche della cancelliera tedesca sono andate anche
contro gli arresti ed incarcerazioni di giornalisti e il loro troppo
lungo trattenimento nelle prigioni. Secondo i dati del Comitato
internazionale di giornalisti, 76 giornalisti turchi sono stati in
prigione in agosto 2012 di cui 61 a causa di "informazioni
problematiche".
I critici ritengono che i giornalisti
vengono arrestati esclusivamente per ragioni politiche. Secondo il
premier Erdogan invece, i giornalisti sono in prigioni non a causa
del loro lavoro giornalistico "bensi' a causa della loro
partecipazione nell'organizzazione del golpe, possesso illegale di
armi e collaborazione con le organizzazioni terroristiche".
Angela Merkel si e' appellata anche alla libera attivita' delle
organizzazioni religiose. Nessuna flessibilita' tedesca per quanto
riguarda la liberalizzazione dei visti, sottolinea la Deutsche Welle
nel suo commento a fine dell'incontro tra Merkel ed Erdogan.
Intanto, quasi due terzi dei tedeschi
restano contrari all'ingresso della Turchia nell'Ue. Sono i risultati
di un sondaggio pubblicato dalla Bild am Sonntag nella giornata in
cui la cancelliera ha iniziato la sua visita ufficiale di due giorni
in Turchia. Secondo questo sondaggio effettuato dall'istituto Emnid,
il 60 per cento degli intervistati e' contrario all'adesione della
Turchia all'Ue, il 30 per cento e' a favore, mentre il 10 per cento
non ha un'opinione. Il 57 per cento dei tedeschi intervistati ritiene
che la crescita economica e lo sviluppo militare della Turchia sia
preoccupante, mentre il 35 per cento guarda positivamente alla
crescente influenza di Ankara.
La Croazia tra 128 giorni aderirà
all'Unione Europea. Dopo la vittoria dei “sì” nekl referendum
tenuto all'inizio del 2012, se ci fosse per caso un referendum oggi,
per l'ingresso della Croazia nell'Ue voterebbe il 54 per cento di
cittadini, contrario sarebbe il 37 per cento, mentre il 10 per cento
sarebbe indeciso. Lo scrivono i media croati questa settimana citando
i risultati dell'ultimo sondaggio effettuato dall'agenzia Ipsos Puls.
Soltanto per l'uno per cento dei cittadini gli effetti dell'adesione
sono già visibili ancora prima del prossimo 1° luglio; nel primo
anno dopo l'adesione il 6 per cento degli intervistati dice di
aspettarsi gia' alcuni effetti positivi, mentre il 22 per cento spera
in questi effetti positivi nell'arco di 2-3 anni. A differenza di
loro, il 29 per cento ritiene che non ci sara' nessun effetto in
conseguenza dell'adesione.
Intanto, la settimana scorsa, la
vicepresidente del governo e ministro degli Esteri e degli Affari
europei, Vesna Pusić, ha presentato a Zagabria le attivita' del
Centro per l'eccellenza che riunisce gli esperti che hanno
partecipato ai negoziati con l'Ue, come anche quelli le cui
conoscenze ed esperienze, collegate con la preparazione dell'adesione
all'Ue e alla Nato, potrebbero essere trasmesse ai paesi della
regione, ma anche a quelli del Sud Mediterraneo. "Le conoscenze
e le esperienze acquisite durante i negoziati sono una specie di
patrimonio intellettuale croato che possiamo utilizzare nella
collaborazione con i paesi della regione", ha detto Pusić e ha
aggiunto che "non c'e' nulla di piu' pericoloso di uno stato mal
funzionante, sia che si tratti del proprio paese che di un paese
vicino". Pusić ha sottolineato che e' nell'interesse della
Croazia avere un vicinato stabile, che "la Croazia e' un fattore
importante in questa regione e questo potenziale bisogna
svilupparlo”. L'adattamento alle istituzioni europee e' un processo
permanente che non cessera' con l'ingresso nell'Ue, ha detto ancora
Pusić.
Va precisato che il Centro
dell'eccellenza e' un'iniziativa con cui la Croazia vuole lavorare
congiuntamente anche con gli altri paesi membri al fine di
trasmettere le proprie esperienze accumulate negli anni del
negoziato. Finora sono stati organizzati quattro seminari in Bosnia
Erzegovina, ai quali hanno partecipato circa 140 persone. Con il
Montenegro è in corso la preparazione di tre viaggi di studio,
mentre nei giorni scorsi a Zagabria c'erano i giornalisti dalla
Serbia che hanno seguito un seminario sulle questioni della giustizia
e dei diritti umani fondamentali. Si stanno progettando seminari
anche con la Macedonia, il Kosovo e l'Albania, nonche' con la
Moldavia e con la Tunisia, ha spiegato la direttrice del Centro di
eccellenza croato.
Possibile l'apertura subito prima
dell'ingresso della Croazia? Intanto l'ex presidente Boris Tadic va
“in missione” a Bruxelles.
Di Marina Szikora [*]
Nell'Ue si sta facendo molta pressione
affinche' la Serbia riceva una data di apertura dei negoziati di
adesione prima che la Croazia diventi membro a pieno titolo dell'Ue,
scrive il quotidiano croato 'Jutarnji list'. Secondo questo giornale
che fa riferimento a fonti diplomatiche si tenta di isolare al
massimo possibile la Germania che rappresenta il principale ostacolo
nell'attribuzione della data di inizio dei negoziati alla Serbia alla
prossima riunione del Consiglio europeo che si svolgera' il 28
giugno. Se questo accadra', soltanto due giorni prima dell'aspettato
ingresso della Croazia nell'Ue la Serbia potrebbe ottenere la tanto
attesa data di apertura dei negoziati.
Sempre secondo l'articolo di 'Jutarnji
list', all'interno dell'Unione circola da lungo tempo l'opinione che,
siccome qualcosa di importantissimo accadra' per la Croazia, allora
bisognerà dare qualcosa anche alla Serbia. Molti nell'Ue pensano
adesso che per il processo di allargamento sarebbe ideale se il
prossimo Consiglio europeo decidesse per la Serbia una data che fosse
due giorni prima dell'adesione della Croazia. Questo anno e' cruciale
per il processo di allargamento: l'ingresso della Croazia crea un
momentum che bisognerebbe sfruttare. Se la Serbia avra' una data per
l'inizio dei negoziati, e se addirittura si aprissero i negoziati
sull'Accordo di stabilizzazione ed associazione del Kosovo, allora si
avrebbe un pacchetto di eventi positivi nel momento in cui il
processo dell'allargamento non e' cosi' popolare, ha affermato un
interlocutore diplomatico anonimo a 'Jutarnji list'.
L'ex presidente Boris Tadić in
missione a Bruxelles: la Serbia è pronta per i negoziati
Il presidente onorario del Partito
Democratico in Serbia, ex leader di questo partito ed ex presidente
della Serbia, Boris Tadić ha dichiarato a Bruxelles di essere
convinto che tutti i politici in Serbia devono essere impegnati
affinche' il loro paese possa finalmente ottenere la data di inizio
dei negoziati di adesione. Alla 'Voice of America' di Bruxelles
Tadić ha detto di trovarsi in una tale missione nella capitale
europea e che nei prossimi giorni parlera' con i suoi interlocutori e
con tutti i capigruppo dei partiti politici del Parlamento Europeo e
terra' anche una lezione dando risposte relative alle riforme in
Serbia.
Tadić ha affermato che la Serbia da
oltre un anno e' pronta per l'inizio dei negoziati e che ha meritato
questi negoziati ancora nel passato. Ci sono state sempre nuove e
nuove condizioni o almeno le modifiche di diverse condizioni. Adesso,
afferma l'ex presidente serbo, non ci sono argomenti perche' la
Serbia non possa ricevere la data dopo tutto quello che e' successo
nel dialogo tecnico mentre il dialogo politico ha aperto una nuova
pagina. Per quanto riguarda i commenti che il nuovo esecutivo serbo
ha fatto in alcuni mesi molto di piu' rispetto all'intero mandato del
precedente governo, Tadić ha risposto che si tratta di commenti che
incoraggiano questo governo affinche' possa compiere ancora di piu'
nei colloqui con il Kosovo ma secondo lui si tratta di un approccio
tecnico.
Tadić ha rilevato che per quanto
riguarda lo status di candidato e la data dell'inizio dei negoziati
l'avvicinamento e' stato raggiunto durante il mandato del precedente
governo mentre questo esecutivo ha continuato il dialogo tecnico
progredendolo e si tratta quindi soltanto di un processo logico di
eventi e della continuita' delle riforme politiche iniziate ancora
dalla caduta del regime Milošević. Secondo l'ex presidente serbo il
prossimo rapporto della Commissione europea sulla Serbia dovrebbe
essere oggettivo ma lui e' convinto che ci saranno anche pressioni
politiche.
Gli argomenti della corrispondenza di
Artur Nura per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi
e che è possibile riascoltare sul sito di Radio Radicale.
ALBANIA: il nazionalismo di
Kreshnik Spahiu, leader dell'"Alleanza Rossonera" che aveva sostenuto
di avere la cittadinanza onoraria di Manhatan ma che è stato smentito; la visita del ministro degli Esteri tedesco, Giudo
Westerwelle, che ha auspicato che le prossime elezioni di giugno siano libere e ha fatto un appello a tenere sotto controllo la
retorica nazionalistica.
KOSOVO: i colloqui di Bruxelles tra Belgrado e Pristina, le speranze e le
prospettive dei serbi del Kosovo e dei nazionalisti
albanesi.
MACEDONIA: continua la preoccupante situazione di stallo politico, mentre l'opposizione ha dichiarato l'intenzione di boicottare le prossime elezioni locali.
Ascolta qui la puntata odierna di Passaggio a Sud Est con la corrispondenza di Artur Nura
La Slovenia ha un nuovo premier, si chiama Alenka Bratusek, ha 42 anni, due figli, è una specialista di questioni di bilancio ed è la prima donna chiamata a guidare il governo delle Slovenia da quando il Paese si è dichiarato indipendente dalla Jugoslavia nel 1991. Ieri sera, infatti, il Parlamento di Lubiana le ha affidato l'incarico di formare un nuovo esecutivo dopo aver sfiduciato il primo ministro Janez Jansa e il suo governo di centro-destra. Hanno votato a favore della Bratusek 55 deputati, 33 i contrari, 2 gli astenuti. Il governo di Jansa, formato un anno fa, dopo le elezioni anticipate della fine del 2011, ha cominciato ad andare in pezzi dopo che tre dei partiti che facevano parte della coalizione hanno ritirato i loro ministri a seguito del coinvolgimento del premier in un'inchiesta della commissione statale anticorruzione (Jansa primo ministro non avrebbe dichiarato beni personali per un valore di 210mila euro).
"Sono una donna che sa quello che vuole. Sono decisa, molto diretta, non so mentire, né fare
promesse vane", diceva Bratusek nel 2008, quando si candidò al parlamento non riuscendo però a farsi eleggere. Dopo aver cambiato casacca un paio di volte è approdata nelle file di “Slovenia Positiva”, il partito creato poche settimane prima delle elezioni di fine 2011 dall'attuale sindaco di Lubiana, il popolarissimo Zoran Jankovic (per altro finito anche lui nel mirino della Commissione per la lotta alla corruzione), riuscendo finalmente a ottenere un seggio. Ora la prima sfida è quella di trovare un accordo tra i partiti per formare un nuovo esecutivo che dovrà poi affrontare un compito proibitivo. La Slovenia,infatti, ex “success story” dell'allargamento Ue del 2004, si trova da ormai quattro anni in una crisi economica e sociale da cui non riesce a uscire.
I tre punti base del programma del nuovo governo, preannunciati da Bratusek, prevedono un'inversione di tendenza rispetto alla politica di austerita' e di tagli messa in atto da Jansa, la moralizzazione della scena politica sconvolta da accuse di corruzione e una iniezione di ottimismo per l'economia. ''Il mio governo vuole arrestare l'incremento della disoccupazione e dare una boccata d'aria al settore produttivo'', ha detto Bratusek in un discorso di 50 minuti, ricordando che Bruxelles prevede per il 2013 un'ulteriore contrazione del Pil sloveno del 2 per cento e un calo degli investimenti diretti del 5,5 per cento. Bratusek ha annunciato la formazione di un governo misto di tecnici e politici, ''un governo a tempo che al Paese porterebbe un po' di pace e ottimismo dopo i molti conflitti sociali degli ultimi mesi''.
"Penso che la Slovenia nel 2020 sarà sempre uno Stato sociale e sarà di nuovo un Paese economicamente prospero, dobbiamo solo trovare la buona strada". In attesa del 20202 Bratusek deve comunque trovare rapidamente una via per formare il governo. Secondo l'accordo tra i quattro partiti che dovrebbero sostenerla, il nuovo esecutivo avrebbe un incarico di un anno circa, per stabilizzare la situazione sociale e finanziaria, e poi andare alle elezioni anticipate. Se però entro due settimane il nuovo governo non vedrà la luce, alle elezioni si andrà il prossimo giugno con una campagna elettorale su cui peserà, prevedibilmente, il malcontento popolare che ha già riempito le piazze in queste settimane contro le misure d'austerità con la protesta contro la politica economica che si è saldata con quella contro la corruzione. Comunque vada non saranno mesi facili quelli che attendono gli sloveni.
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est trasmessa da Radio Radicale oggi 28febbraio. La trasmissione è ascoltabile nella sezione "In Onda" del blog oppure, insieme a quelle precedenti, sul sito di Radio Radicale.
Elezioni anticipate sempre più probabili in Bulgaria dopo le dimissioni del governo e dopo che il premier uscente, Bojko Borisov, si è detto indisponibile ad un governo di coalizione fino alla scadenza naturale della legislatura a luglio. La Bulgaria si trova dunque in una crisi politica nel pieno di una crisi economica che ha provocato una ondata di priteste popolari che hanno contribuito alla caduta del governo di centrodestra.
La situazione politica e sociale, la sua evoluzione, la figura di Borisov, l'opposizione e il possibile esito delle prossime elezioni nell'intervista a Francesco Martino, corrispondente da Sofia di Osservatorio Balcani e Caucaso
Il Tribunale ha fatto il tribunale, ma non è riuscito a raggiungere le società attraversate dai conflitti. Continua il dibattito on-line promosso da Osservatorio Balcani e Caucaso in occasione del prossimo ventennale della costituzione dell'ICTY.
Qui di seguito una prima sintesi della discussione di Andrea Rossini dal sito dell'Osservatorio.
“L'obiettivo principale del Tribunale dell'Aja non è la riconciliazione” (Lejla). “Il Tribunale deve portare di fronte alla giustizia presunti autori di gravi crimini e processarli in maniera equa” (Tolbert). “Un tribunale è un tribunale” (Vukušić).
Avendo riconosciuto tutto questo, è ancora possibile chiedersi se questo tribunale ha aiutato la riconciliazione o se i processi che vi si sono tenuti hanno aperto la strada ad un percorso di riconciliazione in ex Jugoslavia?
“Ovviamente nessun tribunale penale internazionale può portare la riconciliazione ad un'intera regione dopo anni di una guerra fratricida e violenta” (Irene). “Un numero limitato di processi penali, da soli, non possono avere come conseguenza la riconciliazione in una regione attraversata da profondi conflitti” (Tolbert). “Sarebbe troppo aspettarsi che il Tribunale dell'Aja possa anche portare la riconciliazione” (Moratti).
Tuttavia, “certamente questi procedimenti possono aiutare a creare un archivio per affrontare il passato” (Tolbert) e “dal momento che il Tribunale dell'Aja ha giudicato così tanti politici e militari di alto grado, ha certamente aiutato ad aprire la strada per la riconciliazione” (Lejla).
Nel nostro sondaggio, ad oggi il 57% ha dichiarato che il Tribunale non ha contribuito al processo di riconciliazione in ex Jugoslavia, mentre il 40% è di opinione contraria (3% indecisi). Nel dibattito, tuttavia, alcuni hanno escluso la possibilità di valutare il lavoro del Tribunale in termini di riconciliazione nel Sud Est Europa, pur ammettendo il ruolo di una corte penale all'interno di un processo di giustizia transizionale.
Una parte della confusione potrebbe derivare dal modo in cui il Tribunale dell'Aja è stato presentato alle società coinvolte nei conflitti, e alle aspettative che sono state create: “Naturalmente gli avvocati, i giudici e quanti altri abbiano lavorato per il Tribunale hanno fatto del loro meglio, comprendendo le aspettative limitate che si possono avere nei confronti di un sistema penale. Il Tribunale dell'Aja, però, non è stato venduto in questo modo al pubblico della ex Jugoslavia” (Donovan).
Anche il concetto di riconciliazione, del resto, è problematico.
“Come vogliamo definire la riconciliazione in società che devono affrontare un passato così problematico? Il fatto di cercare di avere gli stessi legami culturali, sociali e di amicizia come prima delle ostilità? Che ci chiediamo scusa gli uni gli altri e andiamo avanti? Come?” (Lejla).
Clark dà una definizione di riconciliazione nel suo testo di apertura del dibattito, come anche Hodžić, negando che un tale processo [di riconciliazione] si sia ancora manifestato in ex Jugoslavia. Alcuni nel dibattito hanno fatto riferimento a forme di “memorie condivise” (Eugenio). Altri hanno sottolineato le dinamiche esistenti tra processi individuali e collettivi. La giustizia penale si occupa di singoli individui, e anche la riconciliazione è considerata da molti come una questione puramente individuale. Entrambe queste categorie, tuttavia, in contesti di post conflitto trascendono la dimensione individuale per andare verso una collettiva, e possono aiutare a colmare la distanza esistente tra narrazioni del passato completamente divergenti. “Il corso della riconciliazione può andare dal livello individuale a quello collettivo. La differenza principale è che la giustizia produce una qualche forma di vittoria, la riconciliazione invece produce una narrazione, o una sequenza di verità esistenziali” (Miki).
La categoria della “narrazione” ci porta più vicini ad un'idea di riconciliazione come “confronto con il passato” (Jaspers, Arendt). Molti interventi in questo dibattito sembrano concordare con il fatto che il ruolo di una corte penale avrebbe dovuto essere complementare ad altre istanze, per consentire una partecipazione più ampia alle vittime e in generale alle società attraversate dai conflitti. Strumenti di questo tipo, tuttavia, quali ad esempio Commissioni per la Verità e la Riconciliazione, non si sono affacciati allo scenario del dopoguerra nei Balcani. Perché questo non è avvenuto in ex Jugoslavia e il Tribunale è rimasto solo nello sforzo di affrontare il passato?
Secondo alcuni “per un lungo periodo, in Bosnia c'era l'impressione che il Tribunale dell'Aja e le Commissioni per la Verità fossero in competizione”, e “il Tribunale si è presentato come l'unica organizzazione incaricata di affrontare il passato, frustrando de facto altri sforzi che avrebbero potuto essere complementari al suo lavoro aumentandone l'efficacia” (Moratti).
Tuttavia, quale dovrebbe essere il rapporto tra giustizia penale e altri strumenti di confronto con il passato? Il sopravvissuto di un campo di concentramento in Bosnia Erzegovina è intervenuto esprimendo un chiaro punto di vista contro eventuali strumenti extra giudiziali di confronto con il passato: “Se 15 anni fa avessimo avuto una Commissione per la Verità che avesse potuto anche solo discutere la possibilità di un'amnistia, credo che questo avrebbe minato alla base il lavoro del Tribunale e Milošević, Mladić e Karadžić molto probabilmente non sarebbero mai finiti all'Aja. La natura della guerra, inoltre, sarebbe ancora più contestata di quanto non lo sia oggi. La nostra arma più forte sono i fatti, non la giustizia. Nel nostro caso, la ex Jugoslavia, sembra che non siamo ancora pronti per una Commissione per la Verità e la Riconciliazione e nei momenti immediatamente successivi al conflitto non ci potevamo permettere nessun rischio” (Pervanić). Il sopravvissuto di un altro crimine di guerra in ex jugoslavia ha invece parlato dell'importanza del riconoscimento del crimine, e dei suoi autori, da parte di una corte, anche se si è trattato di una corte locale e non del Tribunale dell'Aja (Zanotti).
Ma il Tribunale dell'Aja è stato davvero “territoriale” nell'affrontare il passato della ex Jugoslavia? Venti anni dopo la sua creazione, se i fatti accertati nei processi che vi si sono tenuti hanno aperto la strada alla riconciliazione, quando dovrebbe cominciare questo processo? Potrebbe essere lo stesso Tribunale, alla fine del suo mandato, ad innescare questo processo di riconciliazione? Le iniziative della società civile dovrebbero avere maggiore spazio (e fondi)? Come la verità giudiziaria può diventare verità storica?
Alcuni partecipanti al dibattito hanno già cominciato a postare proposte, ad esempio quella del rafforzamento delle strutture regionali per la comunicazione tra il Tribunale e il pubblico (outreach, Lejla) o di sostenere processi di elaborazione del conflitto in spazi pubblici adeguati (Seka). Continuate a inviare le vostre proposte. C'è tempo fino al 5 marzo prima della pubblicazione dei rilievi conclusivi da parte di Clark e Hodžić. Osservatorio presenterà infine i risultati del dibattito al Tribunale dell'Aja.
Nel frattempo, ringraziamo tutti quelli che finora hanno condiviso le proprie opinioni, esperienze, memorie.
La Bulgaria è in piena crisi politica
e sociale, con le piazze piene di cittadini arrabbiati e il governo di centrodestra di Boiko
Borisov che ha finito anzitempo il suo mandato rassegnando le
dimissioni la scorsa settimana. Venerdì il presidente della
repubblica, Rosen Plevneliev, come stabilito dalla Costituzione, ha
consultato tutti i partiti rappresentati in Parlamento per costituire
un governo incaricato della normale amministrazione. Solo il
movimento di estrema destra Ataka ha boicottato l'incontro con il
capo dello Stato. La Costituzione obbliga il presidente a dare prima
il mandato al partito di maggioranza e, se questo rifiuta, al secondo
partito. Nel caso di ulteriore rifiuto, il presidente deve nominare
un governo tecnico, che non può durare più di due mesi, e fissare
la data delle elezioni anticipate. Il Gerb ha rifiutato di formare un
governo e Borisov ha invitato i due principali partiti
dell'opposizione, il Partito socialista e il Movimento turco per i
diritti e la libertà, a formare loro il governo.
Anche la Bulgaria risente della crisi
economica globale, con una crescita rallentata, stipendi e pensioni
basse, disoccupazione e nessuna soluzione concreta al problema della
diffusissima corruzione. Per questo le proteste di piazza, iniziate
per manifestare contro l'aumento della bolletta elettrica, si sono
quasi subito allargate alla politica economica del governo. Ieri per
le strade di Sofia, oltre 100mila persone hanno dato vita a una nuova
massiccia manifestazione. Lo stesso Plevneliev è sceso in piazza per
parlare ai dimostranti, ma le urla e la tensione che si è creata
nella folla lo hanno consigliato di non tentare oltre. Alcuni
osservatori fanno notare che per ora le varie anime dell'indignazione
popolare non sono però riuscite a trovare elementi comuni capaci di
dare unità al movimento di protesta.
Una situazione, dunque, niente affatto
semplice che non promette di chiarirsi nemmeno andando alle elezioni
anticipate che sembra ormai dovrebbero tenersi ad aprile. Il Paese
rischia quindi di avvicinarsi a questa scadenza senza una prospettiva
chiara e credibile per superare la crisi e mettere mano ai problemi
che l'ex premier Borisov si è dimostrato incapace di risolvere
nonostante le tante promesse che lo avevano fatto eleggere quasi “a
furor di popolo”. Oggi di quel furore, di segno opposto, è
diventato lui stesso un bersaglio.
Come da previsione, Nikos Anastasiades,
è il nuovo presidente della Repubblica di Cipro. Al termine dello
scrutinio ufficiale, l'avvocato 66enne, leader del partito Disy e
candidato conservatore, ha ottenuto il 57,4% dei voti sconfiggendo
in modo netto Stavros Malas, il candidato sostenuto dal partito
comunista Akel al governo, che si e' fermato al 42,5%. La notizia
della sua elezione è stata accolta da un concerto di clacson nelle
strade di Nicosia mentre una folla di suoi sostenitori si è
immediatamente radunata sotto la sede del partito del neo presidente.
Considerato un politico duro e determinato, Anastasiades si ha
condotto la campagna elettorale proponendosi come l'uomo più adatto
a negoziare con la "troika" il prestito internazionale di
cui Cipro ha urgente bisogno per evitare il tracollo della sua
economia sull'orlo della bancarotta. E' stato questo, infatti, più
che quello della riunificazione dell'isola, il tema centrale di
questa tornata di elezioni presidenziali nella parte greco-cipriota
dell'isola.
La crisi di Cipro è correlata a quella
greca e infatti, il giorno dopo le elezioni, Francia e Germania sono
tornate subito a chiedere a Nicosia di accelerare le riforme
necessarie per riequilibrare i conti pubblici e il sistema bancario
legato a quello ellenico. In un comunicato congiunto, il ministro
delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, ed il suo collega francese,
Pierre Moscovici, hanno salutato con favore l'elezione di
Anastasiades auspicando che "il nuovo governo acceleri in modo
significativo l'andamento delle riforme per raggiungere una crescita
sostenibile e una stabilita' di bilancio e finanziaria nell'interesse
di Cipro e dell'intera zona euro". I due ministri sottolineano
l'importanza che Cipro raggiunga un accordo con la troika Ue-FmiBce
entro la fine di marzo. In ballo ci sono aiuti per 17 miliardi e
mezzo di euro destinati in buona parte al salvataggio del sistema
bancario.
Riccardo De Mutiis, per Passaggio a Sud
Est, propone un viaggio nella storia recente di Belgrado, dall’epoca della Jugoslavia
del Maresciallo Tito ai giorni nostri, alla scoperta della
“città bianca” nelle cui strade vibra il “srpsko srce”, il
cuore serbo. In questa seconda parte si parla della città nel periodo del potere di Slobodan Milosevic, dalla morte di Tito alla guerra del Kosovo.
Secondo Le Corbusier “di tutte le
capitali situate in una posizione splendida, Belgrado è la più
brutta”. L’affermazione dell’architetto svizzero è troppo
drastica, ma ha un fondo di verità. In effetti la posizione
geografica della capitale serba è invidiabile: il nucleo originario
della città venne realizzato su una collina ai cui piedi la Sava
affluisce nel Danubio e da cui, in particolare dalla fortezza di
Kalemegdan, si gode il panorama di una pianura che si estende a
perdita d’occhio. Non sono altrettanto apprezzabili, purtroppo, né
l impianto urbanistico, né lo stile architettonico della città.
Infatti alla impostazione urbanistica degli Ottomani si sovrappose
quella dei Karadjordjevic ed a questa quella di stampo comunista del
periodo titino: alla disorganicità derivante dalla sovrapposizione
di tali idee urbanistiche profondamente diverse l’una dall'altra si
aggiunsero, nel momento in cui la città si estese oltre la Sava ed
il Danubio, i problemi di una rete viaria che si intasava spesso e
volentieri in prossimità dei pochi ponti che collegavano il centro
con Zemun, Novi Beograd e le altre nuove zone costruite oltre i
fiumi. Ma se la struttura urbanistica di Belgrado non è
entusiasmante, è altrettanto vero che il viaggiatore che arriva
nella capitale balcanica è colpito dalla atmosfera tutta
particolare che vi si vive: nelle strade di Belgrado vibra l’anima
del popolo serbo, batte il “srpsko srce”, il cuore serbo. La
città ha sempre vissuto con grande partecipazione le vicende
nazionali, senza mai appiattirsi sui mantra dettati dal potere
costituito, ma tenendo invece spesso un atteggiamento critico e
disincantato nei confronti dei vari regimi che dal dopoguerra ad oggi
si sono avvicendati alla guida del paese. In questo scritto il
rapporto tra la città di Belgrado e la politica prima jugoslava e
poi serba viene analizzato con riferimento a tre diversi periodi
storici: quello che va dal dopoguerra fino alla morte del MarescialloTito, quello che termina con la caduta di Slobodan Milosevic, e
quello che arriva fino ai nostri giorni.
Riccardo De Mutiis [*]
La Belgrado di Milosevic / 1
Dalla morte di Tito inizia la lenta
agonia della nazione, durata oltre un ventennio: questo periodo
storico è dominato dalla figura di Slobodan Milosevic e segnato
dalle guerre civili in Croazia e Bosnia. Il rapporto tra la città ed
il potere, in quegli anni, diventa più intenso: i belgradesi non
sono spettatori passivi della disgregazione dello Stato, ma
partecipano con passione alle vicende politiche. Nella prima metà
degli anni ottanta nella ex Jugoslavia si continua a vivere
discretamente: i nazionalismi che Tito aveva soffocato in nome del
superiore principio dell’unità comunista del Paese sembrano
sopiti, la disoccupazione non esiste e lo Stato continua a garantire
le vacanze al mare. Ed anche a Belgrado, in quegli anni, la vita
scorre tranquilla: la città continua a gravitare sulla lunghissima
arteria che dal Kalemegdan, attraverso la pedonale Knez Mihailov,
Terazje e Ulica Tita conduce a Trg Slavija, gli intellettuali
continuano ad essere impegnati in lunghissime conversazioni all’HotelMoskva e nelle tante kafane cittadine, sorseggiando l’immancabile
caffè turco servito in tazze da mezzo litro, i derby calcistici tra
Partizan e Crvena Zvezda [Stella Rossa, n.d.r.] rimangono l’appuntamento sportivo
dell’anno. Ma nella la seconda metà degli Ottanta appaiono i germi
della crisi che condurrà alle guerre che dureranno ininterrottamente
dal 1991 (anno della secessione slovena) al 1999 (anno della guerra
del Kosovo): in quel periodo infatti conquista il potere Slobodan
Milosevic, riemergono i nazionalisti locali, compare la
disoccupazione, il debito pubblico e l’inflazione raggiungono
livelli preoccupanti, il sistema dell’autogestione si rivela un
fallimento e, last but not least, con la disgregazione dell’Urss e
del blocco comunista dell’Europa orientale, la Jugoslavia cessa di
essere strategicamente importante per l’Occidente che di
conseguenza riduce drasticamente le sovvenzioni al Paese balcanico.
Belgrado non coglie immediatamente i
sintomi della crisi: assiste distratta alla presa del potere da parte
di Milosevic e, d’altronde, il fatto che stampa e televisione siano
in larga parte controllati dallo stesso vozd [duce, n.d.r.] non aiuta la gente a
rendersi conto dell’uragano che si sta preparando. Ma nei primi
anni Novanta il degrado morale, sociale ed economico della vita
cittadina diventa così evidente, visibile e palpabile da non potere
essere occultato nemmeno dai media asserviti al regime. E sono i numeri a dare l’idea della
criticità della situazione: la città passa da una media di pochi
omicidi all’anno alla cifra di ben 72 nel 1992; nel 1990 le
armerie erano 10, ma nel 1992 diventano 72; le agenzie di escort
passano dalle 11 del 1990 alle 93 del 1992. La capitale finalmente
comincia ad interrogarsi su quanto sta succedendo. Ed infatti è
belgradese il primo media che sottopone a critica la politica di
Milosevic: la stazione radiotelevisiva B92. Ed infatti è a Belgrado
che parte la contestazione alla politica di Milosevic, precisamente
il 9 marzo 1991, quando decine di migliaia di persone scendono in
piazza per esprimere la propria rabbia nei confronti del dittatore.
Gli effetti della guerre in Croazia ed in Bosnia si fanno sentire:
nel 1993 le istituzioni internazionali
applicano sanzioni di tipo economico
nei confronti della Jugoslavia e qualche tempo dopo iniziano ad
arrivare a Belgrado i profughi serbi provenienti dalla Kraijna croata
e dalla Bosnia (150-200 mila persone), e la città è del tutto
impreparata ad accoglierli. Queste ulteriori conseguenze negative
della politica di Milosevic sono vissute dai belgradesi sulla loro
pelle e contribuiscono ad acuire il loro distacco dal regime. Ed è
un distacco che adesso trova spazio anche sulla stampa cittadina, che
da sempre dà voce agli umori dei belgradesi.
Il solco aperto da B92 si allarga:
anche il quotidiano Republika ed il settimanale Vreme, entrambi
belgradesi, escono dal coro degli incensatori del vodz, iniziano ad
esaminarne criticamente la politica e puntualizzano come la stessa
abbia séguito soprattutto nelle zone rurali e tra gli individui meno
acculturati e molto meno nella capitale. Infatti Vreme afferma, verso
la fine del 1993, che le vittorie elettorali di Milosevic sono le
vittorie “del Nord sul Sud, dei sottosviluppati sugli sviluppati,
del paese sulla città, della provincia sulla metropoli”, mentre
Republika sostiene nel 1996 che le guerre combattute in Croazia ed in
Bosnia sono “le guerre dei contadini contro i cittadini, sono la
guerra per la distruzione della classe media”. Ed il 17 novembre
1997 il dissenso dei belgradesi nei confronti di Milosevic si
concretizza anche politicamente: alle elezioni comunali la coalizione
dei partiti d’opposizione Zajedno [Insieme, n.d.r.] sconfigge sonoramente il duce
serbo, il quale inizialmente rifiuta di riconoscere la sconfitta e lo
farà solo dopo 3 mesi perché migliaia di belgradesi sono scesi in
piazza ogni giorno per protestare contro i soliti brogli elettorali.
In quella tornata elettorale l’opposizione conquista non solo
Belgrado, ma anche la terza città della Serbia, Nis ed addirittura
40 circoscrizioni in cui si trovano ben 14 città chiave: sembra che
stia tramontando l’epopea di Milosevic, ma questi, con un colpo di
coda, riesce ad approfittare dei contrasti fra le componenti di
Zajedno, riconquista il potere e finisce con il portare di nuovo il
Paese alla guerra, questa volta per il Kosovo, evento che vedrà come
protagonista per l'ennesima volta la capitale su cui la Nato
concentrerà la maggior parte dei bombardamenti.
[2. Continua]
Belgrado colpita dai bombardamento Nato nel 1999
[*] Riccardo De Mutiis, esperto di
relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche
per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni
internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi
pezzi: per ritrovarli clicca qui.
I tre candidati alla presidenza durante un confronto tv
Domani la Repubblica di Cipro sceglierà
al ballottaggio il suo nuovo presidente che succederà a Dimitris
Christofias, tra il favorito Nicos Anastasiades, candidato della
destra che pur avendo vinto con ampio margine il primo turno,
ottenendo il 45,4% dei voti, non è riuscito ad evitare il
ballottaggio, e il candidato indipendente, sostenuto dai comunisti al
governo, Stavros Malas che ha raccolto il 26,9% delle preferenze.
L'ex premier Giorgos Lillikas, anche lui indipendente ma sostenuto dai socialisti, con il suo
24,9% di voti, sarà dunque l'ago della bilancia.
Anastasiades, leader del partito Disy, è considerato un duro e si è presentato agli
elettori come l'uomo più adatto a negoziare il prestito
internazionale di cui Cipro ha urgente bisogno per garantire la
sopravvivenza della sua economia arrivata sull'orlo della bancarotta.
Perché è stata la crisi economica, più che il negoziato con Cipro
Nord per la riunificazione dell'isola, il tema al centro della
campagna elettorale: la priorità del nuovo capo dello Stato sarà
infatti quella di ottenere il più rapidamente possibile gli aiuti
internazionali necessari per evitare il default. Come i negoziati sulla riunificazione,
anche le trattative con la "troika" Ue, Bce e Fmi non hanno
portato finora ad alcun risultato concreto e il tempo stringe.
In ballo ci sono circa 17 miliardi di
euro, di cui 10 destinati al settore bancario messo in ginocchio
dalla crisi della Grecia con le cui banche gli istituti di credito
ciprioti hanno stretti legami. Il governo di Nicosia ha accettato un
aumento dell'Iva, ma non il programma di privatizzazioni proposto dai
creditori e considera troppo stringenti le condizioni poste per lo
sblocco dei prestiti. Fra i tre candidati alla presidenza solo
Lillikas si è opposto al piano di aiuti, proponendo in alternativa
di puntare sullo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale scoperti
al largo delle coste dell'isola per il cui
pieno sviluppo tuttavia occorreranno ancora molti anni.
Quanto alla questione della
riunificazione dell'isola [*], il cui negoziato e da tempo bloccato in
una impasse di cui non si vedono vie d'uscita, Anastasiades si era
detto a suo tempo favorevole al piano proposto dieci anni fa dalle Nazioni
Unite. Il piano, approvato dai turco-ciprioti con un referendum, fu invece respinto clamorosamente dai greco-ciprioti con un'analoga consultazione popolare. Oggi il leader
del Dysi e probabile nuovo presidente viene considerato dalla
comunità internazionale il candidato più credibile per ottenere una
soluzione della questione che pesa in maniera determinante anche sul
negoziato di adesione all'Ue della Turchia.
[*] Si tratta, come si sa, di una vicenda storica molto complessa.
Per limitarci ai tempi più recenti, possiamo dire in estrema sintesi che
nel 1974 un tentativo di golpe che avrebbe portato all'annessione
dell'isola alla Grecia provocò l'intervento militare di Ankara a
difesa dei turco-ciprioti. Da allora Cipro è divisa in due Stati:
nella parte settentrionale la Repubblica di Cipro Nord
(turco-cipriota), che vive in una situazione di sostanziale
isolamento politico, economico e commerciale in quanto riconosciuta e
sostenuta solo dalla Turchia, in quella meridionale la Repubblica di
Cipro (greco-cipriota), unica entità internazionalmente
riconosciuta. Il piano elaborato dall'Onu, la cui approvazione da entrambe le parti era la condizione da cui avrebbe dovuto dipendere l'ingresso nell'Unione Europea, fu approvato dai turco-ciprioti che vennero poi beffati da Bruxelles che con un clamoroso voltafaccia, nonostante i greco-ciprioti lo avessero respinto, diede ugualmente via libera all'adesione.
Quarta puntata del ciclo di Speciali di Passaggio a Sud Est che fa parte del progetto europeo promosso da
Osservatorio Balcani e Caucaso
Si può parlare di pacificazione e
riconciliazione nell'ex Jugoslavia dopo i conflitti, le tragedie e i
crimini degli anni '90? Il Tribunale internazionale dell'Aja è servito
alla riconciliazione? Qual è la realtà che si vive nei territori teatro
delle guerre di vent'anni fa? La prospettiva dell'adesione all'Unione Europea è
ancora proponibile?
Queste e altri aspetti di un tema delicato e complesso, che pesa sul futuro della regione e sulle prosettive di integrazione nell'Ue, sono affrontate nella quarta puntata degli Speciali di Passaggio a Sud Est "Racconta l'Europa all'Europa", con gli interventi di Massimo
Moratti, esperto indipendente di diritti umani con una lunga esperienza di vita e di lavoro nei Balcani e di collaborazione con organizzazioni internazionali e Ong, Michele Nardelli,
presidente del Forum trentino per la pace, organizzatore di progetti di cooperazione e conoscitore della realtà ex jugoslava, e Andrea Rossini, giornalista
e dcumentarista di Osservatorio Balcani e Caucaso, esperto delle questioni inerenti il Tribunale internazionale dell'Aja.
In apertura di trasmissione alcuni passaggi di una
lezione pubblica tenuta all'università di Pisa nel 1997 dal professor Antonio Cassese, grande esperto e studioso di Diritto internazionale, sulle
ragioni etiche, pratiche e giuridiche che portarono alla costituzione
del Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia di cui fu il primo presidente.
Ascolta qui il quarto Speciale "Racconta l'Europa all'Europa"
Con una sfilata delle forze di
sicurezza, davanti ad alcune migliaia di cittadini in piazza Madre
Teresa a Priština, il Kosovo ha celebrato i cinque anni della
proclamazione dell'indipendenza. I piu' importanti messaggi dei
leader kosovari sono stati l'adesione del Kosovo all'Ue e alla Nato.
Alla cerimonia, la presidente del Kosovo, Atifete Jahjaga ha rilevato
che il Kosovo ha iniziato un nuovo capitolo, un capitolo di pace e
che il Kosovo sta costruendo una nuova visione: "Il Kosovo
rispetta la politica di buon vicinato, rispettiamo l'integrita' e la
sovranita' di tutti gli altri Stati", ha detto la presidente
kosovara. "Liberta' ed indipendenza del Kosovo sono stati i
sogni dei nostri padri e di tutte le precedenti generazioni, un sogno
che insieme abbiamo trasformato in realta'. E' un sogno per il quale
si e' sacrificato per secoli e oggi questa e' la realta'. Oggi, nella
giornata dell'indipendenza, esprimiamo il massimo rispetto alla lotta
dell'Uck e a tutti i combattenti caduti", ha detto alla
cerimonia il premier Hashim Thaqi. Ma mentre in Kosovo si e'
festeggiato alla grande, tutt'altro e' stato l'umore in Serbia.
Dall'Ufficio del governo serbo per il
Kosovo, lo stesso giorno e' stato rilasciato un comunicato in cui si
dice che la Serbia non riconoscera' mai l'indipendenza e si invita la
comunita' internazionale ad accettare la realta': senza l'accordo
della Serbia e dei serbi in Kosovo, non ci puo' essere una soluzione
giusta e permanente. Senza la condanna di tutti i crimini e dei loro
autori non ci puo' essere riconciliazione e progresso. Il comunicato
del governo serbo aggiunge che dal 17 febbraio 2008, quando
contrariamente alla volonta' del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite e nonostante il pieno rifiuto dei serbi in Kosovo, e' stata
proclamata la “cosiddetta indipendenza”, fino ad oggi ci sono
stati 1015 attacchi contro i serbi: in 51 casi sono state usate armi
di fuoco, in 11 esplosivi, in 15 bombe a mano; ci sono stati 25
attacchi contro edifici religiosi serbi, 10 contro edifici culturali
e storici; sono state lanciate pietre contro 135 case abitate da
serbi e 48 sono stati gli incendi di proprieta' serbe. Si indica
inoltre che e' stato attaccato il monastero di Visoki Dečani, che fa
parte del patrimonio dell'umanità dell'Unesco, e che nessuno sa il
numero esatto dei capi di bestiame, delle automobili e delle macchine
agricole sottratti ai loro legittimi proprietari serbi. Nel
“cosiddetto Kosovo indipendente”, si legge ancora nel comunicato
del governo serbo, per i serbi non ci sono standard europei, la
privatizzazione e' stata attuata o viene attuata esclusivamente per
gli albanesi, mentre 40.000 richieste serbe per la restituzione dei
beni e per il recupero dei danni aspettano invano una risposta. In
conclusione, Belgrado afferma che in Kosovo non e' stato istituito
uno Stato, bensi' un regime di apartheid in cui per le 1004 vittime
serbe sono stati condannati soltanto due responsabili.
Tuttavia, e' la posizione serba, il
dialogo con Priština deve continuare e il premier Ivica Dačić ha
dichiarato che adesso davanti alla Serbia vi e' la parte piu'
difficile del dialogo poiche' deve essere risolta la questione delle
istituzioni parallele create dai serbi nel nord del Kosovo. Questo
problema puo' essere risolto soltanto con un accordo relativo al modo
del funzionamento dei comuni serbi in Kosovo. "Senza questo
accordo la Serbia non avra' l'obbligo morale, ne' quello politico di
abolire nessuna delle sue istituzioni in Kosovo che comunque sono
molto poche", ha detto Dačić ai giornalisti. Qui non si tratta
del riconoscimento del Kosovo, come emerge chiaramente dalla
“piattaforma” e dalla risoluzione adottate dal Parlamento serbo.
L'interesse della Serbia è che il territorio definito dalla
Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza come unitario funzioni in
maniera sostenibile, vale a dire che i serbi possano realizzare tutti
i loro diritti e questo non e' possibile senza le istituzioni e i
propri autogoverni, ha detto Dačić.
Il prossimo round di dialogo tra
Belgrado e Priština e' prevvisto per domani (venerdi' 22 febbraio) e
questo sara' il quinto incontro tra Dačić e Thaqi. Il premier serbo
e capo negoziatore a tal proposito ha dichiarato alla televisione
serba che Belgrado non abolira' le sue istituzioni in Kosovo senza un
accordo garantito internazionalmente su quello che sostituira' queste
istituzioni. Dačić ha precisato che nei colloqui si cerca di
definire l'autonomia dei serbi in Kosovo che per Belgrado significa
una autonomia nell'autonomia. Si chiede la formazione di un insieme
di comuni serbi con competenze chiare: educazione, giustizia di primo
e secondo grado, polizia locale che avra' relazioni con le autorita'
di Priština ma anche con Belgrado. Dačić ha ammesso che c'e' da
chiedersi se Priština accettera' tali richieste.
Lunedi' la presidente della Commissione
per gli affari europei del Parlamento francese, Daniel Oroa ha
valutato che la Serbia alla fine del suo cammino europeo dovra'
comunque riconoscere il Kosovo e che senza questo riconoscimento non
potra', nella fase finale, contare con l'adesione all'Ue. In una
intervista al quotidiano di Belgrado 'Večernje novosti" la
deputata francese ha sottolineato che la Francia in quanto amico
tradizionale cerca di aiutare la Serbia nel processo di
eurointegrazioni ma per Parigi il riconoscimento reciproco da parte
di Belgrado e Priština e' una condizione "sine qua non".
"Quello che posso dire e' che appoggiamo molto l'ingresso della
Serbia nell'Ue ma per noi francesi, se non ci sara' il
riconoscimento, la risposta sara' – no". La parlamentare
francese ha rilevato che non ci sara' l'ingresso della Serbia come
nemmeno quello del Kosovo finche' non ci sara' una piena
riconciliazione e finche' i due paesi non si riconosceranno
reciprocamente. Secondo lei, la Serbia in questo momento a tal
proposito sta compiendo diversi passi positivi.
Dopo la riunione con il presidente
Pahor, nonostante la crisi del governo Janša,
i partiti disponibili a sbloccare la ratifica del trattato
di adesione della Croazia
Di Marina Szikora [*]
Settimana scorsa a Ljubljana si e'
svolta una riunione straordinaria di tutti i partiti politici
parlamentari sloveni con il presidente Borut Pahor. Il risultato di
questa riunione, secondo il presidente Pahor, e' molto importante
poiche' tutti partiti si sono detti pronti ad appoggiare la ratifica
dell'accordo di adesione all'Ue della Croazia ma a patto pero' che
sia raggiunto l'accordo sulla Ljubljanska banka. Cio' si
significherebbe che il parlamento sloveno con una maggioranza
necessaria di due terzi ratificherebbe l'accordo croato nonostante la
crisi politica che minaccia con la caduta del governo di Janez Janša.
Per quanto riguarda l'esito della crisi
politica slovena continua ad essere un grande punto interrogativo se
questa crisi alla fine dovra' concludersi con le elezioni anticipate.
Prima della riunione con il presidente Pahor, il premier Janša ha
detto che il suo partito ancora tre mesi fa aveva proposto il modo
per uscire dai blocchi politici come questo e che la proposta include
anche delle modifiche costituzionali nonche' la possibilita' delle
elezioni anticipate. Si tratta della proposta secondo la quale il
neoeletto parlamento confermerebbe il presidente del governo e il
nuovo governo in una sola fase che, secondo Janša, significherebbe
che il nuovo esecutivo potrebbe essere formato nell'arco di alcune
settimane e in tal modo si eviterebbe una fase vuota. Secondo
l'attuale Costituzione, dopo le elezioni, il Parlamento prima vota
sulla candidatura del nuovo premier il quale poi nel caso della sua
conferma sceglie i partiti con i quali entrerebbe in coalizione ed i
candidati a ministro che poi devono essere nuovamente confermati in
parlamento. In questo modo i tempi della formazione dell'esecutivo di
solito si allungano a due-tre mesi dopo le elezioni. Come esito della riunione dei leader
politici sloveni con il presidente Pahor vi e' stata anche una
dichiarazione congiunta secondo la quale tutti si asterrebbero d'ora
in poi da ogni aspra retorica politica e si impegnano quindi per il
rispetto internazionale e per la cultura politica.
Intanto i due premier, lo sloveno Janez
Janša e quello croato Zoran Milanović hanno concordato il loro
incontro per il prossimo 10 marzo quando dovrebbero parlare sulla
questione contestata della Ljubljanska banka. Fino a questo incontro,
i rappresentanti dei due governi dovrebbero elaborare e concordare la
proposta dell'accordo sulla questione. All'incontro dei due premier
si dovrebbero valutare anche i pregi e le possibilita' che il vicino
ingresso della Croazia nell'Ue dovrebbe portare alla collaborazione
economica e di confine tra i due paesi. Un elemento nuovo ma
comprensibile, vista la situazione interna slovena in cui i partner
di coalizione stanno lasciando l'esecutivo ed il premier, e' che
Janša ha ritirato dai futuri colloqui il ministro degli esteri Karl
Erjavec. Il capo della diplomazia slovena verra' sostituito dal
segretario di stato nell'Ufficio del premier, l'ambasciatore Tone
Kajzer. L'interpretazione e' che Erjavec, cosi' anche un comunicato,
con le sue apparizioni esagerate in pubblico, collegate con l'uscita
del suo partito dal governo, potrebbe mettere a repentaglio la
credibilita' dei negoziati sulla questione della Ljubljanska banka.
La decisione del premier Janša ad allontanare Erjavec dai negoziati
nonostante lui sia nominalmente ancora ministro degli esteri sloveno,
e' stato accolto in Slovenia con diversi commenti. Cosi' l'ex
diplomatico sloveno Peter Toš ha detto che questa decisione e' stata
inaspettata e che non capisce il castigo ad Erjavec inflittogli da
parte del premier anche se Erjavec aveva, secondo Toš, condotto bene
i negoziati sulla Ljubljanska banka insistendo che si tratti di una
parte della secessione dell'ex Jugoslavia. Il quotidiano di Maribor Večer in un commento ha affermato invece che la mossa di Janša
non e' stata inaspettata e che accordando la riunione con il premier
croato Zoran Milanović, Janša si inserisce nella soluzione della
disputa che Erjavec con la sua collega croata, Vesna Pusić ha gia'
avviato quasi verso una conclusione felice. E' problematico, pero',
prosegue il giornale di Maribor, che Janša ha concordato l'incontro
con Milanović solo per il prossimo 10 marzo che significa perdere
tempo prezioso vista l'urgenza della soluzione del problema che
blocca l'ingresso croato nell'Ue. Questo fatto pero', secondo un
commento del giornalista sloveno Dejan Steibuch del giornale Finance (e si tratta dell'editorialista del portale sloveno Telekom
vicino al governo) potrebbe essere un tenativo di guadagnare tempo
per consolidare e rafforzare la posizione negoziale slovena.
Steinbuch afferma che la Slovenia nell'Ue ha poco peso per poter
frenare da sola l'adesione della Croazia all'Ue. Ma questo potrebbe
accadere, conclude il giornalista, se l'ultimo rapporto sul
monitoring, vale a dire sulla prontezza della Croazia all'adesione
non sara' positivo o se questa sarebbe la conclusione di qualche
grande stato membro dell'Unione.
Gli argomenti della corrispondenza di
Artur Nura per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi
e che è possibile riascoltare sul sito di Radio Radicale.
ALBANIA: secondo un memo riservato del
Dipartimento di Stato trapelato in questi giorni, gli Stati Uniti
avrebbero criticato fortemente la retorica nazionalista del premier
Sali Berisha, giudicando le sue recenti affermazioni un pericolo per
la stabilità regionale. La nota sarebbe stata inviata a Berisha in
seguito a quanto da lui dichiarato dopo che le autorità serbe, lo
scorso gennaio, hanno rimosso il memoriale eretto a Presevo, località
del sud della Serbia a maggioranza albanese, per commemorare i
combattenti indipendentisti albanesi. Secondo questa nota del
Dipartimento di Stato, Washington ritiene che i leader albanesi
stiano deviando dal loro tradizionale ruolo costruttivo e moderato
nella regione.
MACEDONIA: il boicottaggio
dell'opposizione rischia di complicare la crisi politica e di mettere
in discussione la legittimità delle elezioni locali. Alcuni temono
che l'attuale crisi potrebbe far deragliare del tutto l’agenda di
adesione del paese all'UE. Bruxelles, d'altra parte è preoccupata
per la situazione politica. Il relatore del Parlamento europeo sulla
Macedonia, Richard Howitt, lasciando il Paese dopo la sua visita nei
giorni scorsi, ha detto che se la crisi continuerà non avrà altra
scelta che quella di chiedere al Parlamento europeo di rinviare il
voto sulla Macedonia per il timore di una relazione negativa nel
Paese.
KOSOVO: il nuovo incontro a Bruxelles
tra il premier serbo Ivica Dacic e quello kosovaro Hashim Thaci con
la mediazione dell’Alto rappresentante per la politica estera
dell’UE, Catherine Ashton, che ha definito questo round negoziale
come “il più impegnativo per le parti”. All’ordine del giorno,
infatti, c'era la spinosa questione delle istituzioni parallele
costituite nel nord del Kosovo dai serbi che non riconoscono
l’autorità di Pristina e che si autogovernano grazie al sostegno
politico e finanziario di Belgrado.
Puoi ascoltare qui la puntata odierna di Passaggio a Sud Est con la corrispindenza di Artur Nura
E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est trasmessa da Radio Radicale oggi 21 febbraio. La trasmissione è ascoltabile nella sezione "In Onda" del blog oppure, insieme a quelle precedenti, sul sito di Radio Radicale.
Manifestazione a Sofia (Foto AP / Valentina Petrova)
Il premier bulgaro Boyko Borisov,
leader del partito di centrodestra Gerb, ha annunciato le dimissioni
del suo governo travolto da tre giorni di proteste di piazza in tutto
il paese. "Abbiamo dignità e onore. Il popolo ci ha dato il
mandato di governare e oggi glielo restituiamo", ha detto
Borisov in parlamento, aggiungendo di non voler partecipare ad un
governo ad interim"in cui la polizia picchia la gente o le
minacce di proteste sostituiscono il dibattito politico".
L'esecutivo di centro-destra guida il paese dal luglio 2009, ma il
largo consenso di cui godeva il partito di Borisov è sceso
notevolmente ed è ora attorno al 22 per cento, secondo un recente
sondaggio Gallup. Ad alimentare il malcontento la situazione
economica: il salario medio è di circa 400 euro, mentre la pensione
sociale non raggiunge i 140 e la disoccupazione è attorno all'11,5
per cento. Le elezioni generali erano previste per il prossimo mese
di luglio ma le dimissioni potrebbero anticipare la data del voto di
qualche settimana, ha detto Borisov in aula (si parla del mese di
aprile). Nel frattempo il presidente Rosen Plevneliev dovrebbe
affidare il governo ad un premier tecnico pro tempore. Precedenti
analoghi si sono avuti tra ottobre 1994 e gennaio 1995 e tra il 1996
e il 1997.
Negli ultimi giorni la Bulgaria è
stata scossa da imponenti manifestazioni contro l'aumento del prezzo
dell'energia elettrica. Con un'economia che risente della crisi
mentre non si vede alcuna soluzione al problema dell'endemica
corruzione (un punto sul quale insiste particolarmente l'Unione
europea), le proteste si sono rapidamente rivolte contro le politiche
del governo di centrodestra. Lunedì Borisov ha cercato di rispondere
al crescente malcontento silurando l'impopolare ministro delle
Finanze, Simeon Djankov, e ieri ha anche annunciato un taglio delle
bollette e minacciato la revoca della licenza per la società di
distribuzione elettrica ceca Cez nel tentativo di arginare la crisi.
Nonostante ciò la situazione è precipitata e le dimissioni del
premier hanno portato alla caduta dell'intero governo. Tra lunedì e
ieri la capitale Sofia è stata teatro di violenti scontri che hanno
causato 28 feriti (tra cui cinque poliziotti). Ieri mattina un uomo
di 36 anni si è dato fuoco davanti al municipio di Varna ed è ora
ricoverato in ospedale in gravissime condizioni. Un'altra persona si
è data fuoco a Veliko Tarnovo ed è morta in seguito alle ustioni
(secondo la polizia però l'uomo soffriva di turbe psichiche e la
politica non c'entra).
Chi è Boyko Borisov?
Personaggio singolare dal passato non privo di ombre, dopo essere stato eletto sindaco di Sofia, alla testa del partito di centro-destra Gerb nel luglio 2009 vinse le elezioni promettendo di fare piazza pulita di criminalità e corruzione e
di ristabilire buone relazioni con l'Unione Europea. In un intervista realizzata all'indomani della vittoria elettorale, Francesco Martino,
corrispondente da Sofia per Osservatorio Balcani e Caucaso, spiegava a Radio Radicale chi è Borisov e
il perché del suo grande seguito popolare.
Artur Nura per Radio Radicale intervista Edi Rama, già sindaco di
Tirana, leader del Partito socialista, la maggiore forza di opposizione
all'attuale governo di centrodestra. La situazione politica interna
albanese, il quadro internazionale, sia regionale che europeo, e le
prossime elezioni politiche di giugno considerate da Bruxelles un test
cruciale per valutare l'affidabilità dell'Albania che ancora non ha
ottenuto lo status di Paese candidato all'adesione all'Ue.
Il dibattito on-line di Osservatorio Balcani e Caucaso
Nel
1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha creato il
Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia, nella
convinzione che questa istituzione avrebbe “contribuito al
ristabilimento e al mantenimento della pace” nella regione. Dopo 20
anni, il Tribunale si avvia a concludere la propria attività. Entro la
fine dell'anno prossimo, il TPI cesserà di esistere. Il bilancio del
Tribunale fatto dal suo presidente, Theodor Meron, nell'ultimo rapporto
presentato all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è oltremodo
positivo: “I successi [del Tribunale] – ha dichiarato Meron - hanno
contribuito [...] a portare la pace e la riconciliazione nei Paesi
dell'ex Jugoslavia [...] forgiando una nuova cultura internazionale di
responsabilità”.
È davvero così?
Dal 20 febbraio al 5 marzo risponderanno al quesito posto da Osservatorio Balcani e Caucaso: Refik Hodžić, giornalista, documentarista, esperto di comunicazione e giustizia transizionale e Janine Natalya Clark,
analista e ricercatrice universitaria con al suo attivo numerose
pubblicazioni dedicate al Tribunale dell'Aja e alla giustizia penale
internazionale.
Chiunque può partecipare al dibattito
commentando le posizioni dei due ospiti oppure prendendo parte al sondaggio. La pagina del dibattito andrà on-line il 20 febbraio sul
sito di Osservatorio Balcani e Caucaso
Riccardo De Mutiis, per Passaggio a Sud Est, propone un viaggio nella storia recente di Belgrado, dall’epoca della Jugoslavia del Maresciallo Tito ai giorni nostri, alla scoperta della “città bianca” nelle cui strade vibra il “srpsko srce”, il cuore serbo. In questa prima parte si parla della città nel periodo della Jugoslavia socialista che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla morte del Maresciallo Tito.
Foto Danimir / Wikimedia Commons
Secondo Le Corbusier “di tutte le capitali situate in una posizione splendida, Belgrado è la più brutta”. L’affermazione dell’architetto svizzero è troppo drastica, ma ha un fondo di verità. In effetti la posizione geografica della capitale serba è invidiabile: il nucleo originario della città venne realizzato su una collina ai cui piedi la Sava affluisce nel Danubio e da cui, in particolare dalla fortezza di Kalemegdan, si gode il panorama di una pianura che si estende a perdita d’occhio. Non sono altrettanto apprezzabili, purtroppo, né l impianto urbanistico, né lo stile architettonico della città. Infatti alla impostazione urbanistica degli Ottomani si sovrappose quella dei Karadjordjevic ed a questa quella di stampo comunista del periodo titino: alla disorganicità derivante dalla sovrapposizione di tali idee urbanistiche profondamente diverse l’una dall'altra si aggiunsero, nel momento in cui la città si estese oltre la Sava ed il Danubio, i problemi di una rete viaria che si intasava spesso e volentieri in prossimità dei pochi ponti che collegavano il centro con Zemun, Novi Beograd e le altre nuove zone costruite oltre i fiumi. Ma se la struttura urbanistica di Belgrado non è entusiasmante, è altrettanto vero che il viaggiatore che arriva nella capitale balcanica è colpito dall’atmosfera tutta particolare che vi si vive: nelle strade di Belgrado vibra l’anima del popolo serbo, batte il “srpsko srce”, il cuore serbo. La città ha sempre vissuto con grande partecipazione le vicende nazionali, senza mai appiattirsi sui mantra dettati dal potere costituito, ma tenendo invece spesso un atteggiamento critico e disincantato nei confronti dei vari regimi che dal dopoguerra ad oggi si sono avvicendati alla guida del paese. In questo scritto il rapporto tra la città di Belgrado e la politica prima jugoslava e poi serba viene analizzato con riferimento diversi periodi storici, dal dopoguerra fino alla morte del Maresciallo Tito, dal periodo del regime di Slobodan Milosevic alla sua caduta, fino ai nostri giorni. Riccardo De Mutiis [*]
La Belgrado di Tito
Alla fine della seconda guerra mondiale, quando Tito, leader incontrastato del partito comunista jugoslavo, assume il potere, Belgrado è una città parzialmente distrutta dai bombardamenti tedeschi. Il nuovo disegno urbanistico della “città bianca” [questa la traduzione di Beograd, n.d.r.] è una diretta conseguenza della linea economica adottata dal regime. In sintonia con il programma adottato dagli altri Paesi del blocco comunista, la Jugoslavia imbocca decisamente la strada della industrializzazione: di qui l’emigrazione di masse contadine nelle città, soprattutto a Belgrado, per essere avviate al lavoro nelle fabbriche. Lo spostamento delle masse rurali nei centri urbani e la loro concentrazione nelle industrie risponde anche ad una logica di natura politica: i contadini, una volta sradicati dal loro tradizionale ambiente patriarcale ed inurbati, diventano facilmente controllabili e manovrabili a livello politico. Belgrado quadruplica i suoi abitanti: il quartiere di Novi Beograd [Nuova Belgrado], con i suoi palazzoni di dieci e più piani, viene costruito a nord della Sava nel dopoguerra proprio per ospitare i tanti serbi del sud ed i tanti montenegrini che si trasferiscono nella capitale. Ecco quindi che dall'immediato dopoguerra si assiste, a Belgrado, ma anche in altre città serbe, proprio per effetto dell'inurbazione di tantissimi contadini, ad una contrapposizione tra gli abitanti originari, gradjani, ossia cittadini (da grad, città) e quelli immigrati dalle zone rurali, seljiaci (da selo, villaggio). E proprio la contrapposizione tra gradjani e seljaci viene evidenziata da Paolo Rumiz nel suo bel libro sulle guerre jugoslave “Maschere per un massacro” e viene considerata, perché mai risolta, una della cause del conflitto (infatti l’autore fa dire ad uno dei protagonisti, a proposito del bombardamento di Sarajevo: “Guai se credete che qui c’ entrino serbi e musulmani , chi ci bombarda sono i primitivi, quelli che ignorano il gusto del vivere e non sanno il sapore celestiale dello zucchero in cristalli”).
La Belgrado del dopoguerra è tuttavia profondamente diversa dalle altre capitali dei paesi del blocco comunista. La Jugoslavia, infatti, a partire dal 1948 e cioè a partire dal momento in cui Tito rompe con Stalin, si apre alle relazioni con il mondo occidentale: gli Usa infatti vogliono approfittare della crepa che si è aperta nel sistema del “Patto di Varsavia” con la secessione del paese balcanico, a cui forniscono generosi aiuti economici che nel solo periodo 1962-67 raggiungono la considerevole somma di 536 milioni di dollari. Ecco quindi che a Belgrado ed in tutta la Jugoslavia compaiono beni di consumo assolutamente introvabili negli altri paesi comunisti. Ed alla apertura economica segue quella culturale: arrivano e vengono tradotti i best sellers della narrativa occidentale, i teatri ed i cinema ospitano opere straniere, si tengono festival culturali internazionali ed anche gli jugoslavi, unici tra gli europei dell’est, hanno la possibilità di viaggiare all'estero. In quegli anni Belgrado è l’unico luogo in Europa in cui mondo occidentale ed Europa orientale si incontrano: la città si afferma come centro cosmopolita, pieno di vita, mondano. Gli aiuti economici, che adesso arrivano non solo dagli Usa, ma anche dall'Urss (con cui i rapporti erano tornati buoni dopo il 1961, anno in cui avvenne la riconciliazione tra Tito ed il successore di Stalin, Nikita Kruscev), garantiscono agli jugoslavi una rendita di posizione che maschera, in un certo senso, il colossale fallimento del modello economico autoctono dell’autogestione.
Il 4 maggio 1980 la Jugoslavia è scossa, violentemente, dalla morte del suo leader Tito. L’evento, la lettura degli storici è concorde sul punto, segna l’inizio della lunga agonia dello stato jugoslavo. Ma la dipartita dello statista croato coinvolge anche Belgrado, che ne ospita i funerali, a cui prendono parte i più importanti uomini del mondo: sono presenti, come ricorda Enzo Bettiza nella sua “Cavalcata del secolo”, 128 delegazioni straniere, 31 capi di Stato, 22 primi ministri, 4 re e 6 principi. Nell'occasione Belgrado tocca l’acme della sua notorietà internazionale: mai una città, in precedenza, aveva ospitato contemporaneamente tante personalità. Dalla morte di Tito, lo si è detto, inizia il declino dello Stato degli slavi del sud a cui non può rimanere estranea la sua anima, ossia la sua capitale, che da quel momento perde progressivamente importanza non solo nel panorama internazionale, ma anche in quello interno, in cui finirà con l’abbandonare il ruolo di capitale della nazione jugoslava per ritornare a quello, più modesto, di capitale dello stato serbo.
[1. Continua]
Belgrade, Yugoslavia, 1960s
[*] Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi pezzi: per ritrovarli clicca qui.