sabato 29 gennaio 2011

LA MEMORIA NON BASTA

E' accaduto...

In un'intercettazione telefonica la consigliera regionale della Lombardia Nicole Minetti, parlando con la sua assistente Clotilde, così come scriveva ieri La Repubblica, parlando di una presunta nuova fiamma del nostro presidente del consiglio, ad un certo punto dice: "Lui è presissimo da quella, è una montenegrina. Si vabbè, ma è una scappata di casa, io l'ho vista è una zingara, cioè hai presente una zingara?". La frase rivela quel solito razzismo spicciolo purtroppo assai diffuso e dal quale nessuno di noi è del tutto immune. Leggendo quelle parole mi è venuto di fare un collegamento con la "giornata della memoria" celebrata giovedì per ricordare la Shoah e lo sterminio di tutti coloro che finirono nei lager nazisti: ebrei, ma anche rom, slavi, testimoni di Geova, omosessuali, malati mentali, disabili, oppositori politici, appartenenti a minoranze etniche. Direte: cosa c'entra questo con la giornata della memoria della Shoah? Non molto, forse. O forse c'entrano più di quanto sembrerebbe in apparenza. Cerco di spiegarmi.

Primo Levi, in una vecchia intervista della Rai rintracciabile su You Tube, ad un certo punto dice: "Pochissimi oggi riescono a ricostruire, a ricollegare quel filo conduttore che lega le squadre di azione fasciste degli anni Venti in Italia [...] con i campi di concentramento in Germania - e in Italia, perché non sono mancati nemmeno in Italia, questo non molti lo sanno - e il fascismo di oggi, altrettanto violento, a cui manca soltanto il potere per ridiventare quello che era, cioè, la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza [...] Il lager, Auschwitz, era la realizzazione del fascismo, era il fascismo integrato, completato, aveva quello che in Italia mancava, cioè il suo coronamento [...] Io, purtroppo, devo dirlo, lo so questo, non è che lo pensi, lo so: so che si possono fare dapperttutto [...] Dove un fascismo - non è detto che sia identico a quello - cioè un nuovo verbo, come quello che amano i nuovi fascisti in Italia, cioè non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti, alcuni hanno diritti e altri no. Dove questo verbo attecchisce alla fine c'è il lager: questo io lo so con precisione".

Il professor Paolo Mantegazza, giovedì su Liberazione, ha scritto che "la Shoà parla di noi: di noi come esseri umani, di noi che alberghiamo nella nostra coscienza il mostro che è pronto a rinascere quando qualche manipolatore politico riesce a legittimarne gli impulsi, di noi che vediamo continuamente disegnarsi attorno a noi la zona grigia dei collaboratori del dominio, degli ottusi funzionari pronti ad obbedire ad ogni ordine, dei cortigiani proni a qualunque desiderio del Principe di turno e ciechi e sordi nei confronti di ogni pensiero critico. Ma la Shoà parla di noi anche e soprattutto perché le procedure e le strategie dello sterminio non sono state annientate dalla straordinaria forza di resistenza che spazzò via il nazifascismo. Posti a sedere differenziati per lombardi doc sulle metropolitane; maiali portati a urinare sul terreno sul quale deve sorgere una moschea; asili nido vietati ai figli degli immigrati clandestini; medici e dirigenti scolastici ridotti a spie per denunciare il clandestino che si fa curare o frequenta la scuola. Chi non vede in queste proposte, per ora semplicemente buttate lì "per vedere l'effetto che fa", disegnarsi un piano che ovviamente non porterà allo stesso risultato ottenuto dall'hitlerismo ma certamente va a pescare nella stessa zona torbida di emozioni, rabbie, irrazionalità?".

Ecco, qui sta il punto. La giornata della memoria è stata voluta per non dimenticare quel che è successo allora. Scrive Mantegazza che quello che accade oggi non porterà allo stesso risultato ottenuto dall'hitlerismo, ma crimini analoghi sono avvenuti anche dopo il 1945. Da Auschwitz ai gulag stalinisti, dai laogai cinesi al Ruanda, dalla Cambogia dei Khmer rossi a Srebrenica: quello che è successo allora, seppure in forme diverse è riaccaduto dopo e può ancora accadere in futuro e trova il suo humus nelle stesse zone torbide dell'animo umano fatte emergere e sfruttate dall'opportunismo politico che non si ferma davanti a nulla pur di prendere e mantenere il potere. Goldhagen ha ben descritto i "volonterosi carnefici di Hitler". In Italia, molto più modestamente, abbiamo Cetto Laqualunque, la cui vicenda, tuttavia, col tono della farsa racconta di noi molto più di certi poderosi saggi di sociologia o di certi indignati editoriali. Per questo ricordare è fondamentale ma non è abbastanza. Dice ancora Mantegazza: "E' un dovere civico e morale, nonché politico, ma non può essere la conclusione o la finalità di un percorso educativo, bensì ne deve essere l'inizio. Partiamo dalla memoria per farne uno strumento di cambiamento e di denuncia nei confronti di una dimensione del Male che è ancora tra noi: non solo nelle proposte di movimenti razzisti o di politici antidemocratici ma nelle nostre vite quotidiane, al bar come in stazione, a scuola come in piazza".

...potrebbe accadere ancora

mercoledì 26 gennaio 2011

ALBANIA: LE RESPONSABILITA' DEL POTERE

Sui recenti fatti dell'Albania mi pare interessante quanto scrivono, sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso, Davide Sighele e Luka Zanoni secondo i quali l'analisi su quanto avvenuto e di quanto potrà avvenire nelle prossime settimane e mesi, non può prescindere da alcuni elementi.
Il primo è che se quando la polizia apre il fuoco sulla folla, la responsabilità ricade comunque sul governo in carica, non è possibile porre il premier Berisha e il leader dell'opposizione Rama sullo stesso piano visti i diversi ruoli ruoli istituzionali da loro ricoperti.
Il secondo è che Berisha ha perso un'occasione per dimostrare che la classe dirigente da lui rappresentata è cresciuta politicamente rispetto al 1997 (quando lo stesso Berisha era presidente della repubblica e con il resto della classe dirigente albanese dell'epoca e fu corresponsabile del crollo istituzionale e politico del paese) ed è in grado di far uscire l'Albania dalla profonda crisi attuale.
Vi è inoltre il problema della corruzione che permea ogni livello della politica albanese e dalla quale nemmeno i socialisti sono immuni. La stessa opposizione, inoltre, fa fatica ad affrontare il compromesso politico, un problema che per altro caratterizza la classe politica albanese nel suo complesso.
La classe politica albanese deve quindi dimostrare che il 1997 è stato sepolto e che crisi anche profonde possono essere affrontate con gli strumenti propri della dialettica democratica, concludono Sighele e Zanoni, ma anche la comunità internazionale, l'Italia in particolare (e l'Ue aggiungo io), hanno il dovere di favorire il dialogo tra le parti condannando duramente l'uso della violenza.


Albania: la responsabilità del potere
l'articolo di Davide Sighele e Luka Zanoni
sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso

martedì 25 gennaio 2011

RISCHIO DI GUERRA CIVILE IN ALBANIA?

Tirana by night
E' calma l'Albania dopo le violenze di piazza di venerdì scorso che hanno provocato la morte di tre persone a Tirana. E mentre si cerca di ricostruire i fatti e di capire di chi sono le responsabilità, si attende con preoccupazione il prossimo fine settimana, quando la capitale albanese sarà teatro nuovamente di due manifestazioni contrapposte: la prima dell'opposizione, venerdì 28, la seconda, filogovernativa, il giorno dopo. In attesa di vedere cosa accadrà è utile cercare di capire cosa sta succedendo nel "paese delle aquile".

L'Albania è davvero sull'orlo di una guerra civile? La domanda è stata posta in alcuni commenti di questi ultimi gioni dopo quantio accaduto venerdì scorso. La situazione nel paese è tesa. Lo scontro politico tra la maggioranza che sostiene l'esecutivo di Sali Berisha e l'opposizione guidata dal leader socialista, e sindaco della capitale, Edi Rama, si trascina da un anno e mezzo, ma è difficile che, nonostante l'escalation dei toni (e i morti in piazza) si ripeta un nuovo 1997. Il paese è cambiato e la gente non seguirebbe nessun politico in un avventura del genere.

Questa, in estrema sintesi, l'analisi della situazione di Marjola Rukaj, corrispondente di Osservatorio Balcani e Caucaso da Tirana nell'intervista a Radio Radicale, nella quale parla anche della figura di Berisha e di quella di Rama. Intanto, dopo i morti nella manifestazione del 21 gennaio, sia l'opposizione che la maggioranza di governo si preparano a scendere di nuovo in piazza. E non si può essere del tutti sicuri che non si ripeteranno altre violenze.

L'intervista a Marjola Rukaj

PASSAGGIO IN ONDA

La puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda oggi a Radio Radicale

In primo piano la situazione in Albania dopo gli scontri di piazza e i morti nella manifestazione contro il governo di venerdì scorso.

Gli altri argomenti della puntata:
Croazia: il presidente Ivo Josipovic in Germania alla ricerca di sostegno per l'adesione all'Ue
Serbia: l'integrazione europea condizionata alla cattura di Ratko Mladic e Goran Hadzic
Cipro: l'Onu spinge per un accordo sulla riunificazione
Telekom Serbia: il radicale Giulio Manfredi assolto dall'accusa di aver diffamato l'avvocato Giovanni Di Stefano, già socio in affari del "comandante" Arkan.

Il sito della settimana: East Journal

La puntata è stata realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura ed è riascoltabile direttamente qui



oppure sul sito Radio Radicale nella sezione delle Rubriche (è possibile il podcasting)

TELEKOM SERBIA: IL RADICALE MANFREDI NON DIFFAMO' L'AVVOCATO DI STEFANO

Giovedì scorso, il Tribunale di Roma ha assolto "perchè il fatto non sussiste" Giulio Manfredi (vice-presidente Comitato nazionale Radicali Italiani e presidente Associazione Radicale Adelaide Aglietta), chiudendo il processo intentato per diffamazione dall'avvocato anglo-molisano Giovanni Di Stefano, amico e socio d'affari del criminale di guerra serbo tristemente noto come "comandante Arkan". La prima udienza del processo si era tenuta a Campobasso nel luglio 2005; questa era l'ottava udienza. Manfredi era assistito dall'avv. Giuseppe Rossodivita.
Nella stessa mattinata Manfredi era stato sentito come testimone nell'ambito del processo contro "Antonio Volpe + 10", relativo alle presunte tangenti che sarebbero state pagate nell'affaire Telekom Serbia; in tale sede l'esponente radicale ha ribadito che la denuncia radicale è stata sempre contro le responsabilità politiche dell'affaire, ovvero l'aver finanziato il regime di Slobodan Milosevic, all'epoca dei fatti sottoposto a embrago internazionale, con i soldi dei cittadini italiani, dato che nel giugno 1997 Telecom Italia ancora di proprietà pubblica. Manfredi nè altri radicali hanno mai accertato responsabilità penali relative al versamento di tangenti.

Giulio Manfredi ha dichiarato:
"Nelle due aule di giustizia dove sono stato questa mattina campeggiava una grande scritta: la legge è uguale per tutti. Non è vero. Il cittadino Giulio Manfredi - uno dei primi a denunciare, già 14 anni fa, l'affaire Telekom Serbia - si è difeso in un processo lungo cinque anni; a suo tempo ha chiesto e ottenuto di essere audito, con altri radicali, dalla Procura di Torino; oggi, su richiesta di parte, ha anche testimoniato, pur essendo consapevole di non aver elementi utili, perchè lo riteneva il suo dovere.
I radicali, da sempre, si difendono nei processi, magari utilizzandoli come strumenti politici ma sempre rispettando le forme e i contenuti del diritto. Altri cittadini, a partire da colui che dovrebbe essere modello di comportamento civile per tutti gli altri, il presidente del Consiglio, si difendono dai processi, sfuggono le aule di giustizia, pur avendo tutti i mezzi per difendersi meglio e di più rispetto a chiunque.
E' uno degli elementi di un regime, preesistente a Silvio Berlusconi, sempre più pervasivo e, proprio per questo, vissuto da sempre più italiani come una seconda pelle, proprio come il regime fascista. Ma Mussolini è durato vent'anni, mentre la partitocrazia italiana dura almeno da quando sono nato e non se ne vede la fine".

L'intervista di Giulio Manfredi ak notiziario di Radio Radicale subito dopo l'assoluzione




Per non dimenticare cosa è stato l'affaire Telekom Serbia segnalo l'utile promemoria redatto dallo stesso Giulio Manfredi disponibile sul sito dell'Associazione radicale Adelaide Aglietta di Torino.

Sempre sul sito dell'Associazione è disponibile un ampio e documentato dossier sull'affaire


Per saperne di più segnalo inoltre questi due libri

Telekom Serbia: Presidente Ciampi, nulla da dichiarare?
Diario ragionato del caso dal 1994 al 2003
di Giulio Manfredi (con postfazione di Marco Pannella)
Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2003

Telekom Serbia: l’affare di cui nessuno sapeva
di Francesco Bonazzi
Sperling & Kupfer, 2004

venerdì 21 gennaio 2011

3 MORTI NEGLI SCONTRI DI PIAZZA A TIRANA

La corrispondenza di Artur Nura da Tirana per il notiziario serale di Radio Radicale di venerdì 21




La corrispondenza di Artur Nura da Tirana per il notiziario del mattino di Radio Radicale di sabato 22




Artur Nura da Tirana

Ore 14,29
C'e' un confronto dei protestanti con la polizia davanti all'ufficio del premier! la situazione e' molto pesante e potrebbe rischiare alla violenza!

Ore 15,10
In questi momenti la situazione è in continuo peggioramento. Alla vista dei manifestanti la polizia è intervenuta lanciando granate e lacrimogeni.Uomo coperto di sangue richiama l'attenzione della polizia avvicinandosi a loro con le braccia aperte in aria. Migliaia di persone per le strade di Tirana. Pochi minuti dopo l'inizio ci sono stati atti di violenza. I primi feriti. Gas lacrimogeni! Acqua contro la gente che risponde con oggetti forti. I manifestanti venuti da i quattro incroci principali di Tirana hanno cominciato a marciare verso il Boulevard "Martiri della Nazione" per trovarsi davanti all'edificio del Primo Ministro. Sei cordoni di polizia sono stati posti davanti all'edificio, mentre le forza dell'ordine sono armati.

Ore 16,28
Continuano ancora le proteste a Tirana dinanzi al Palazzo del Premier. La folla sta cercando di sfondare l'entrata per invadere gli uffici della Presidenza del Consiglio, ma il cordone della Guardia e della polizia di Stato riuescono ancora a mantenere il controllo della situazione. Si sentono degli spari provenienti dal cancello del palazzo, ma sembra siano proiettili di gomma. La folla si è assembrata nella piazza continuando ad gettare pietre contro la polizia, mentre si conta già il primo bilancio di feriti e danni. seconso media circa cinque poliziotti sono stati feriti dalle violenze dei manifestanti, che lanciavano pietre, bastoni di legno, e altri oggetti contundenti, mentre alcuni cittadini hanno avvertito dei malori. Sono state date alle fiamme alcune auto parcheggiate accanto al palazzo della Presidenza del Consiglio, tra cui cinque auto della polizia. Sembra che la situazione stia diventando sempre più tesa. Intanto, il leader dell'opposizione Edi Rama non si è ancora mostrato dinanzi alla piazza, e come lui nessuno degli organizzatori della manifestazione, che è ora nelle mani della folla.

GUERRIGLIA URBANA A TIRANA: ALMENO 2 MORTI

Aggiornamento delle 18.19: sono tre le vittime degli scontri a Tirana

Guerriglia urbana a Tirana durante le manifestazioni convocate dall'opposizione contro il governo di centrodestra guidato da Sali Berisha travolto da uno scandalo di corruzione dopo le accuse di brogli nelle elezioni politiche del 2009. Da quello che ho potuto sapere, mentre scrivo (le 17,35) si parla con certezza di due morti, ma potrebbero anche essere tre. Per tutto il pomeriggio si sono succeduti scontri durissimi tra la polizia e i dimostranti scesi in piazza. I media albanesi parlano di spari non solo da parte degli agenti, ma anche dei manifestanti, oltre al lancio di sassi e auto incendiate a cui la polizia ha risposto con cariche, gas lacrimogeni e idranti.
La folla dopo aver travolto il cordone delle forze dell'ordine attorno al palazzo del governo, ha oltrepassato la cancellata e si è riversata nel giardino del palazzo dove la polizia si è asserragliata a difesa di Berisha e del suo esecutivo. La notizie diffuse dalle agenzie di stampa parlano di militanti dell'opposizione armati il che lascia supporre che c'era chi voleva lo scontro con le forze dell'ordine.
Il sindaco di Tirana e leader socialista Edi Rama, che aveva espresso il suo "rifiuto di ogni atto di violenza" perché l'obiettivo dell'opposizione "non è di prendere il potere con la forza e senza elezioni", sarebbe stato ripreso dalle televisioni mentre osservava la guerriglia senza intervenire.
La crisi economica e la corruzione sarebbe alla base dell'esplodere della violenza durante la manifestazione.

Scontri a Tirana (Foto da Repubblica.It)

Da un lancio dell'agenzia Adnkronos
Tirana come Tunisi. Il parallelo e' della stampa albanese, secondo cui nel paese sembrano riunirsi tutti gli elementi dello scenario che ha portato alla rvolta tunisina: disoccupazione e mancanza di avvenire per i giovani, corruzione e arroganza del potere. "Courier International" ricorda che alle elezioni del 2009 l'attuale premier Sali Berisha aveva promesso 160mila nuovi posti di lavoro, un aumento dei salari, delle pensioni ed un'accelerazione della crescita. Questi risultati non sono stati raggiunti anche se l'inflazione e' stata tenuta sotto controllo e tra il 2004 ed il 2008 la crescita e'stata del 6 per cento (poi caduta al 3 per cento nel biennio 2009-2010). Il paese resta comunque uno dei piu' poveri in Europa, con una disoccupazione ufficiale al 12,7 per cento (mentre in realta' sfiora il 30 per cento), il 15 per cento del Pil che dipende dalle rimesse degli emigrati (in particolare quelli in Italia e in Grecia), infrastrutture quasi inesistenti e una corruzione dilagante che continuano a scoraggiare gli investitori stranieri.

giovedì 20 gennaio 2011

RIUNIFICAZIONE CIPRO: LA STRADA RESTA LUNGA E TORTUOSA

Il muro di Cipro (Foto da http://www.eastbordnet.net/)
La settimana prossima a Ginevra si terranno i colloqui tra il presidente della Repubblica di Cipro, Dimitris Christofias, e quello della Repubblica turca di Cipro-Nor, Derviş Eroğlu con la presenza del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Sei anni dopo il fallimento del piano proposto dall'allora segretario generale, Kofi Annan, le Nazioni Unite tentano di nuovo di allacciare il dialogo tra ciprioti turchi e greci alla ricerca di un accordo sulla riunificazione dell’isola. La strada appare però quanto mai lunga e impervia e a complicare ancora di più la situazione c'è la scarsa fiducia reciproca tra le due comunità. Il dato emerge da una indagine pubblicata il 14 dicembre da “Cyprus 2015 ” (un gruppo di ricerca promosso dalle Nazioni Unite a Cipro): l’84% dei ciprioti greci e il 70% di quelli turchi pensano che l’altra parte non sia disposta ad accettare i compromessi necessari per la pace e una percentuale molto simile di intervistati pensa che un eventuale accordo non verrà mai applicato perché l’altra parte non lo rispetterà.

La vittoria del nazionalista Eroğlu alle elezioni presidenziali tenutesi a Cipro Nord nell'aprile 2010 sembrava aver dato il colpo di grazia definitivo ad un negoziato che procedeva, anche se a rilento, grazie all'opera di mediazione del predecessore di Eroğlu, Mehmet Ali Talat, sostenitore di una soluzione federale per Cipro e che aveva portato avanti una paziente opera di mediazione grazie anche agli ottimi rapporti personali con il suo omologo greco-cipriota Christofias. Con l'elezione Eroğlu, nonostante le dichiarazioni di buona volontà, durante la sua presidenza il dialogo si è praticamente bloccato. Ban Ki-Moon ha deciso quindi di intervenire: il 18 novembre Christofias ed Eroğlu hanno incontrato il segretario generale che ha proposto una road map su cui ha raccolto l’accordo dei due presidenti. L’obiettivo di Ban è che le due parti trovino un compromesso sulla riunificazione entro il 26 gennaio, la data in cui si terrà a Ginevra il prossimo incontro a tre. E' però difficile che si trovi una soluzione entro mercoledì prossimo: molti sono ancora, infatti, i problemi irrisolti.

Diventa essenziale, in questo contesto, il ruolo della Turchia. L'unico vero sostegno internazionale di Cipro Nord ha tutto l’interesse che il processo di pace abbia successo e che si trovi un accordo per la riunificazione perché questo toglierebbe di mezzo il maggiore ostacolo al negoziato di adesione all’UE, complicata dal fatto che Ankara non permette a navi ed aerei di uno degli stati membi, la repubblica greco-cipriota, di utilizzare i suoi scali fino a quando non finirà l’analogo embargo aero-navale verso la Repubblica turca di Cipro Nord. A complicare la posizione di Ankara, però, c'è l’accordo firmato a inizio dicembre Cipro e Israele sulla definizione dei rispettivi confini marittimi necessario per rendere possibile l'avvio dellos fruttamento dei giacimenti di gas naturale a sud dell’isola: secondo Ankara l’intesa è illegittima perché i turco ciprioti non sono stati consultati. “Il governo greco-cipriota non può firmare unilateralmente accordi internazionali prima che si sia trovata una soluzione alla divisione dell’isola”, ha detto i ministro degli esteri turco Davutoğlu, dato che “anche i turco ciprioti hanno diritto di sfruttare le risorse naturali dell’isola”.

Nonostante il sostegno internazionale alla nuova iniziativa di Ban Ki-Moon l’opinione pubblica greca e quella turca sono convinte che durante il vertice a tre del 26 gennaio non si arriverà a nessun accordo definitivo. Il mese scorso, in un documento indirizzato al Consiglio di sicurezza, il segretario generale dell'Onu ha dichiarato che “una importante finestra di speranza si sta chiudendo rapidamente”. Difficile che a Ginevra si arrivi ad un accordo, ma l'esito dell'incontro ci farà comunque capire da che parte tira il vento.

mercoledì 19 gennaio 2011

LA CROAZIA DI FRONTE ALL'UE A DICIANNOVE ANNI DALL'INDIPENDENZA

Il 15 gennaio di diciannove anni fa la Croazia otteneva il riconoscimento della sua indipendenza e dopo il decennio di conflitti sanguinosi che accompagnò la dissoluzione della Jugoslavia, archiviato il capitolo della presidenza nazionalista e autoritaria di Franjo Tudjman, ha avviato il processo di integrazione euro-atlantica. Un cammino che si è rivelato però lungo e tutt'altro che facile, soprattutto se paragonato all'esperienza di altri Paesi dell'Europa centro e sud orientale che nel decennio appena trascorso sono entrati nell'Ue. Dei due maggiori obiettivi della politica estera croata, l'adesione alla NATO e quella all'Ue, finora solo il primo è stato realizzato. Per quanto riguarda il secondo, viste l'attuale situazione, la previsione più realistica è che Zagabria concluda i negoziati entro la fine di quest'anno per poi arrivare all'adesione nel 2013. L'arrivo alla presidenza di Ivo Josipovic, ha segnato un rinnvato impegno della Croazia sia verso l'integrazione europea, sia in favore della stabilizzazione e della pacificazione dei Balcani, come dimostra l'impegno del presidente croato per avere relazioni costruttive con tutti i Paesi della regione a partire dalla Serbia. La Croazia deve però fare i conti anche con alcuni problemi assai rilevanti sia interni, che esterni: la crisi economica globale, il crescente euroscetticismo dell'opinione pubblica e la corruzione dilagante - problema comune a tutti i paesi dell'area ex jugoslava e balcanica -, che ha assunto i caratteri di una vera e propria questione nazionale, come ha dimostrato il recente arresto dell'ex premier Ivo Sanader.

I diciannove anni dell'indipendenza croata
di Marina Szikora [*]

Il 15 gennaio la Croazia ha celebrato i dicannove anni dal suo riconoscimento come stato indipendente. In questi anni di maturita' il cammino verso l'Europa si e' mostrato molto lungo e spinoso, se considerata l'esperienza degli ultimi arrivati nella famiglia europea, a partire dalla grande ondata di allargamento ai dieci paesi e successivamente l'ingresso degli ultimi due paesi, Bulgaria e Romania. Dei due maggiori obiettivi della politica estera croata dalla sua indipendenza, che sono l'adesione alla NATO e all'Ue, finora e' stato realizzato solo il primo, mentre per quanto riguarda il secondo, viste le attuali previsioni, e' reale che Zagabria aderisca all'Ue all'inizio del 2013.

A diciannove anni dal suo riconoscimento, da un paese caso, cioe' quello che aveva bisogno di aiuti, la Croazia è diventata oggi un partner affidabile che partecipa attivametne in molte operazioni di pace nel mondo. Dicannove anni dalla conquista dell'indipendenza e della liberta', nella regione in cui si trova, la Croazia e' indubbiamente leader dello sviluppo democratico. Un paese che ha avuto la forza per le riforme, anche quelle dolorose, un cammino che dovranno intraprendere e superare tutti i suoi vicini ed altri paesi che aspirano alle integrazioni euroatlantiche. Come ricorda la stampa croata, nelle ultime tappe dell'avvicinamento all'Ue, ci chiediamo giustamente se questo obiettivo poteva essere realizzato piu' velocemente e se la Croazia poteva gia' essere membro a pieno titolo dell'Ue.

Purtroppo, la giornata che celebra il riconoscimento dell'indpendenza, e' passata anche nell'ombra di proteste dei difensori croati, svoltesi nella capitale e a Spalato. Tutto come seguito delle ultime vicende che hanno visto alcuni difensori croati ultimamente arrestati perche' accusati di crimini di guerra. Tra questi il caso clamoroso di Tihomir Purda che attualmente e' tenuto in arresto in BiH perche' su di lui pende un mandato di cattura internazionale, richiesto dalla Serbia per presunti crimini di guerra contro i serbi. Allo stato attuale il caso dovrebbe essere risolto in modo che Purda sara' estradato in Croazia per essere sottoposto ad un processo davanti al tribunale locale.

Dopo diciannove anni la vita e la sorte di quelli che hanno messo a rischio la loro vita o che sono deceduti per la liberta' ed indipendenza del loro Paese, non hanno ancora il riconoscimento che meritano ma sono in molti ad essere sottoposti a manipolazioni politiche, in particolare con l'avvicinarsi delle elezioni. Come scrive il quotidiano di Zagabria 'Vjesnik', "se non ci fossero stati loro, non ci sarebbe la Croazia di oggi, ne' la liberta', ne' l'indipendenza. Purtroppo, con il passare degli anni, questo viene sempre meno rilevato, e inutilmente vengono politicizzate le circostanze in cui vivono e lavorano gli ex difensori che alla Croazia hanno acconsentito la liberta'. Se la Croazia non si avesse liberata da sola, nessuno le avrebbe donato la liberta'. Solo quando la Croazia, nel pieno della guerra e dell'agressione aveva mostrato e dimostrato di essere capace ad organizzare la difesa e liberare il territorio, allora anche la comunita' internazionale accetto' tutto quello che il paese aveva richiesto. Questo ha aperto la via verso l'indipendenza", ricorda 'Vjesnik'.

A commentare la vicenda, come sempre, e' stato il capo dello stato Ivo Josipović. Il presidente croato ha sottolienato che proprio i difensori sono "l'orgoglio della Croazia", che hanno "creato questo paese con il loro impegno e con i loro sacrifici". Commentando il caso dell'arresto di Tihomir Purda, Josipović ha detto che si tratta di una situazione che e' risultato di certi fallimenti ad esaminare le informazioni relative ai casi penali che per anni "venivano spinti sotto il tappeto". Parlando del caso che ha sconvolto in questi giorni la Croazia relativo ad una lsita di 300 presone che in Serbia sarebbero accusate di crimini di guerra, Josipović ha detto che si tratta di una lsita "del tutto irrelevante e falsa" aggiungendo che e' necessario scorprire come e' apparsa questa lista e qual'e' il suo obiettivo. "Non ci sono le ragioni di preoccupazione che ogni difensore che passera' il confine verra' arrestato" ha tranquillizzato il Presidente e ha rilevato che sono proprio i difensori quelli che hanno maggiormente indebitato il Paese per il suo riconoscimento internazionale. "I difensori, ma anche tutti i cittadini meritano di sapere la verita'" ha detto il presidente Josipović.

C'e' da sottolineare che l'unita' del Paese come ai tempi sconvolgenti del 1992 non si e' mai piu' ripetuta. Furono gli anni delle prime riprese dalla piu' grande ondata di agressione serba. La pace firmata a Sarajevo il 2 gennaio 1992 era la prima precondizione per l'inizio del rinnovamento e dello sviluppo post guerra. La guerra in effetti non era ancora finita poiche' quasi un terzo del territorio fu ancora occupato dalle forze serbe. Sul territorio croato liberato si trovavano invece centinaia di migliaia di profughi mentre molti militari e civili croati furono tenuti nei campi di concentramento in Serbia. Nonostante le sfumature tra i partiti politici, nell'estate 1991 non ci fu nessuna forza politica rilevante che si opponeva all'indipendenza della Croazia e l'unita' del paese, come ci ricordiamo in questi giorni, si manifesto' innanzitutto nella formazione del Governo dell'unita' nazionale, guidata da Franjo Gregurić in cui ci furono rappresentanti da tutti i partiti politici dell'epoca. Il partito di tutti i poltiici fu la Croazia. E' in quei anni che vi fu anche l'impegno del Partito radicale transnazionale e l'iniziativa straordinaria di Marco Pannella e dei suoi compagni che a Capodanno del 1991 indossarono la divisa croata e si recarono ad Osijek sotto le bombe, e da nonviolenti chiesero l'immediato riconoscimento della Croazia e della Slovenia, avvertendo gia' allora che la guerra di agressione si sarebbe trasferita anche in BiH.

Dopo l'indipendenza ed i riconoscimenti da parte degli stati europei e mondiali, seguirono gli anni di costruzione e sviluppo. Ma anche se i problemi della guerra e del dopo guerra sono ormai il passato, i cittadini croati hanno molte ragioni per essere oggi insoddisfatti, guardando a molte occasioni perse, in particolare quelle economiche. In primo piano i danni di colloro che hanno considerato lo stato e le sue risorse come proprieta' privata. Tutto cio' ha rallentato molto il processo di adesione della Croazia all'Ue, soprattutto per il fatto che il Paese nel senso economico e sociale era piu' avanti rispetto ad alcuni nuovi stati membri dell'Ue. Ma solo in questa fase finale del processo di adesione croata si e' inizato a fare i conti con la corruzione e criminalita' organizzata.

"La Croazia per lungo tempo nella storia e' stata un muro, e adesso finalmente e' un ponte, forte e necessario" ha detto il presidente croato Ivo Josipović venerdi' scorso al ricevimento dell'Anno nuovo per i rappresentanti diplomatici in Croazia. Il capo dello stato croato ha lanciato un appello agli ambasciatori dei paesi membri dell'Ue ad impegnarsi presso i loro governi per una piu' veloce conclusione del processo di negoziati di adesione della Croazia. Al tempo stesso, Josipović ha promesso di continuare a sollecitare il Governo e il sistema giudiziario nella indispensabile lotta alla corruzione e criminalita' organizzata che come ha sottolineato "impoverisce i cittadini e quando e' organizzata presso lo stesso vertice dello stato, rappresenta un'azione criminale congiunta contro il benessere dei cittadini".

[*] Il testo è parte della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 18 gennaio a Radio Radicale

IL PRESIDENTE SLOVENO TURK ALLA SAPIENZA

Il Presidente della Slovenia, Danilo Turk, in visita in questi giorni in Italia, ha parlato agli studenti dell'Università di Roma "La Sapienza" delle sfide a cui le istituzioni europee sono chiamate a rispondere e dell'importanza della solidarietà tra i paesi, in particolar modo con l'est Europa.

Il servizio sull'incontro è disponibile sul sito di Uniroma.Tv. Ringrazio l'ufficio stampa di Uniroma.Tv per la segnalazione e dato che è stata fatta come commento ad un post del 15 giugno 2010, inseirsco qui di seguito il video per chi fosse interessato. Il link diretto, invece, è http://www.uniroma.tv/?id_video=17984

martedì 18 gennaio 2011

PASSAGGIO IN ONDA

La puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda martedì 18 gennaio a Radio Radicale
Questa è la prima puntata che va in onda il martedì alle 6,20 del mattino in base alla nuova programmazione di Radio Radicale

Il sommario della trasmissione

Kosovo: la formazione del nuovo governo e le accuse contro il premier Thaci contenute nel "Rapporto Marty" del Consiglio d'Europa
Albania: si accentua lo scontro politico tra opposizione e maggioranza, mentre il governo Berisha è al centro di uno scandalo di corruzione
Croazia: il processo di integrazione europea a diciannove anni dall'indipendenza
Serbia: l'Accordo di stabilizzazione e associazione con l'Ue al Parlamento europeo.
In apertura il prossimo congresso del Partito Radicale e l'opinione di Emma Bonino sulla crisi di questi giorni in Tunisia, l'assenza dell'Ue e il ruolo della Turchia.

Il sito Internet della settimana è il portale di Osservatorio Balcani e Caucaso.

La trasmissione è stata realizzata con la collaborazione dei corrispondenti Marina Szikora e Artur Nura ed è ascoltabile qui



oppure sul sito di Radio Radicale.

                                    

CONSIGLIO D'EUROPA: SI AVVICINA L'ESAME DEI RAPPORTI MARTY E GARDETTO

A fine gennaio l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa esaminerà e voterà il rapporto di Dick Marty sul presunto traffico di organi umani in Kosovo e successivamente si occuperà del rapporto sulla protezione dei testimoni nei Balcani redatto dal deputato di Monaco Jean Charles Gardetto secondo il quale in tutti i paesi dell'ex Jugoslavia i testimoni non sono abbastanza protetti soprattutto in Kosovo dove sono maggiormente minacciati.
Sul tema, qui di seguito, la corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda sabato 15 gennaio a Radio Radicale.

Il rapporto di Dick Marty sul traffico di organi umani in Kosovo verra' esaminato a fine gennaio e successivamente l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa votera' anche il rapporto sulla protezione dei testimoni nei Balcani. Il deputato di Monaco ed autore di questo rapporto, Jean Charles Gardetto ritiene che in tutti i paesi dell'ex Jugoslavia i testimoni sono insufficentemente protetti e per di piu', che sono maggiormente minacciati in Kosovo. Nel suo rapporto si dice anche che in Kosovo non esiste nemmeno la legge sulla protezione dei testimoni che vengono perfino uccisi. Come ammesso anche dalle autorita' kosovare, non ci sono ne' avvocati, ne' procuratori ne' giudici che accetterebbero di partecipare nei processi per i crimini di guerra e sulla criminalita' organizzata. L'autore del rapporto sulla protezione dei testimoni nei Balcani in una intervista per la BBC, informa la B92serba, ha detto che le affermazioni contenenti nel Rapporto di Dick Marty sono degne di fiducia e che l'Eulex sia in grado di indagare su quanto indicato nel rapporto ma si tratta in questo caso anche di una decisione politica. Gardetto ha sottolineato che nei Balcani, secondo la sua opinione, non vi e' uno stato perfetto quando si tratta della protezione dei testimoni anche se si puo' dire che la Croazia in questo contesto e' il paese piu' avanzato, mentre la situazione in Kosovo, a tal proposito, e' la piu' grave. Questo, secondo il relatore, e' perche "da una parte non esistono leggi adeguate che acconsentirebbero la protezione dei testimoni. Esiste soltanto la regolamentazione dell'UNMIK che acconesntisce l'attuazione di certe misure, ma e' comunque tutto molto superficiale". Per quanto riguarda l'Eulex, esso lavora in modo professionale ma con mezzi a disposizione. Sono necessarie piu' persone il che renderebbe possibile una migliore protezione dei testimoni, soprattutto quando si tratta di casi in cui per proteggere i testimoni e' necessario trasferire intere famiglie dal Kosovo che di solito sono molto numerose. Nel suo rapporto, Jean Charles Gardetto ha valutato che in Kosovo la situazione e' talmente grave che le autorita' ammettono apertamente che in certi casi sensibili relativi alle accuse per crimini di guerra e' impossibile trovare giudici, procuratori e avvocati. Il Kosovo e' il paese in cui lo stato di diritto e ancora molto debole. Per questo motivo, e' dell'opinione il relatore, "sarebbe utile che le competenze vengano trasferite alla giustizia internazionale o alle corti miste composte da giudici stranieri e locali". Per quanto riguarda il relatore Dick Marty, Gardetto afferma che e' un membro prominente dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, conosciuto per la sua serieta' ed onesta' intelettuale. Si tratta del membro dell'Assemblea che aveva gia' firmato rapporti estremamente delicati come il rapporto sulle prigioni segrete ed illegali della CIA americana in Europa e sul trasferimento illegale dei prigionieri da parte delle autorita' americane. Per questo, Gardetto e' convinto che il documento di Marty e' degno di fiducia. Ma cercare una prova assoluta, afferma, significa in effetti cercare qualcosa che per il relatore e' impossibile ed e' un modo per tentare di svalorizzare il lavoro del relatore parlamentare. Il suo ruolo invece e' quello di formare la sua opinione in base a degli elementi comuni e poi di mandare un messaggio politico indicando che vi sono prove per identificare l'esistenza del problema. Spetta poi agli organi giudiziari, sia nazionali che internazionali di svolgere il loro lavoro, sottolinea Gardetto nell'intervista alla BBC.

                          

PASSAGGIO IN ONDA

La puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda sabato 15 gennaio a Radio Radicale

Il sommario della trasmissione

Cipro: l'Onu e la sfida della riunificazione
Kosovo: mentre il "rapporto Marty" che accusa il premier Thaci sarà presto discusso dall'assemblea parlamentrare del Consiglio d'Europa, le forze politiche kosovare compatte respingono ogni accusa, ma il politologo albanese Fatos Lubonja, in un articolo pubblicato sul settimanale Panorama, ammonisce che gli albanesi farebbero meglio a chiedere un'inchiesta che faccia piena luce per non vivere nel dubbio e nel sospetto
Croazia: il 2011 potrebbe essere un anno importante per il processo di adesione all'Ue, ma il paese è alle prese con la crisi economica e il crescente euroscetticismo dei suoi abitanti
Bosnia: dichiarazione congiunta del presidente croato Ivo Josipovic e della premier Jadranka Kosor a sostegno dell'integrazione euroatlantica del paese
Macedonia: Skopje e Atene alla ricerca di un compromesso per risolvere la disputa sul nome dell'ex repubblica jugoslava
Montenegro: il nuovo governo di Igor Lukšić e le sfide da affrontare e risolvere in fretta sulla strada verso l'Europa.

La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura è riascoltabile qui



oppure sul sito di Radio Radicale.

Questa è l'ultima trasmissione ad andare in onda il sabato alle 22,30. Dal 18 gennaio, infatti, Passaggio a Sud Est va in onda il martedì alle 6,20 del mattino.

                                

giovedì 13 gennaio 2011

PASSAGGIO SPECIALE

La situazione politica in Bosnia e Kosovo

Lo Speciale Passaggio a Sud Est andato in onda mercoledì 12 gennaio a Radio Radicale è dedicato alla Bosnia Erzegovina e al Kosovo che, per la natura dei problemi e per la loro complessità, rappresentano le due situazioni più significative e delicate nell'ambito della stabilizzazione dei Balcani occidentali, nell'ottica più complessiva del processo di integrazione europea della regione.

Come già abbiamo detto nella precedente puntata dello Speciale, il 2011 potrebbe essere un anno importante per i Balcani occidentali; un anno di rilancio del processo di integrazione europea della regione con la chiusura dei negoziati di adesione con la Croazia e in vista dell'inzio dei negoziati, nel 2012, per ben quattro paesi contemporaneamente: Albania, Macedonia, Montenegro e Serbia. Questo scenario prevederebbe, inoltre, che la Bosnia Erzegovina presenti la domanda di adesione all'UE e che il Kosovo inizi la preparazione del negoziato per l'Accordo di stabilizzazione e associazione (primo passaggio formale del processo di adesione). L'esperienza del decennio appena trascorso, invita però ad una ragionevole prudenza (per non dire ad un inevitabile pessimismo), visto che i paesi balcanici non hanno mai saputo cogliere le opportunità che si erano presentate loro, non sempre, va pur detto, per loro esclusiva responsabilità.
Per la Bosnia e per il Kosovo, quindi, il 2011 rischia di segnare un ulteriore fase di confusione e di stallo che li costringerebbe ad una condizione di sudditanza nei confonti dell'UE e degli USA ancora maggiore di quella in cui si trovano oggi.

In Bosnia, a tre mesi e mezzo dalle elezioni politiche, la formazione del governo sembra essere ancora lontana: è possibile che nasca e si consolidi un'alleanza tra i partiti serbo-bosniaci con quelli croato-bosniaci, mentre potrebbe diventare più intransigente il blocco dei partiti bosgnacchi (i musulmani di Bosnia). In questo quadro, ogni decisione importante sul terreno delle riforme istituzionali e dell'adeguamento agli standard di Bruxelles rischia di richiedere molto tempo con conseguente ulteriore ritardo nella presentazione della candidatura all'adesione all'UE e nella chiusura dell'Ufficio dell'Alto rappresentante internazionale. Croazia e Serbia, con la loro influenza sulle rispettive forze etnico-politiche di riferimento, potrebbero esercitare un ruolo positivo tutto però da verificare.
Il Kosovo, dal canto suo, rappresenta un'autentica incognita. Le elezioni di dicembre hanno segnato la vittoria del Partito democratico del premier uscente Hashim Thaci, ma sull'avvenire di quest'ultimo e, di conseguenza, sulla formazione del nuovo governo gravano le pesantissime accuse contenute nel "Rapporto Marty" del Consiglio d'Europa che indica Thaci come il capo di un'organizzazione criminale (composta da membri dell'Uck di cui Thaci era il capo) responsabile di traffici di vario tipo e del traffico di organi espiantati a prigionieri di guerra durante il conflitto del 1999. Un'altro leader politico, Ramush Haradinaj, anche lui ex capo dell'Uck, è già sotto processo all'Aja per crimini di guerra. Nel panorama politico kosovaro tutto da capire è l'atteggiamento del magnate Behgjet Pacolli (detto anche "il Berlusconi del Kosovo") e il ruolo che assumerà il movimento nazionalista Vetevendosje di Albin Kurti che, trasformatosi in partito politico ha colto un notevole successo alle elezioni diventando la terza forza del paese. Insieme a questo c'è una situazione economica difficile, con una disoccupazione che supera il 50% (in un paese in cui l'età media è giovanissima), una povertà crescente e un diffuso senso di isolamento aggravato dal fatto che il Kosovo è ormai rimasto l'unico paese dello spazio ex jugoslavo a non aver beneficiato della liberalizzazione dei visti europei. Sono tutte questioni aperte che rappresentano altrettanti problemi che potrebbero mescolarsi in un cocktail esplosivo.

Lo Speciale è stato realizzato con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura ed è riascoltabile qui



oppure sul sito di Radio Radicale nella sezione delle Rubriche.

Importante: questo Speciale è l'ultimo ad andare in onda in questa forma iniziata tre anni fa. Dal 17 gennaio, infatti, cambia la programmazione settimanale di Radio Radicale e lo Speciale di Passaggio a Sud Est non avrà più una cadenza settimanale fissa, ma sarà organizzato di volta in volta in occasione di fatti o eventi di particolare importanza.

                  

mercoledì 12 gennaio 2011

STOP LUKASHENKO

Alcune ong hanno promosso un appello internazionale per chiedere l'applicazione nei confronti del la Bielorussia del cosiddetto "Meccanismo di Mosca" previsto dall'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa): in pratica, se almeno 10 paesi membri dell'Osce sono d'accordo, si può fare un rapporto sul Paese anche se il governo di quest'ultimo non lo consente.
Le ong hanno raccolto molte testimonianze sulle violazioni di diritti umani in atto da tempo nel Paese: dopo le recentissime elezioni, vinte per l'ennesima volta dal presidente Aleksandr Lukashenko (non a caso definito l'ultimo dittatore d'Europa, con buona pace del suo amico italiano Silvio Berlusconi) grazie ad un controllo ferreo dell'informazione, alla repressione del dissenso e al ridicolo spazio di propaganda concesso ai candidati concorrenti, ci sono state retate e arresti indiscriminati di militanti e candidati dell'opposizione e di giornalisti dei quali non si hanno notizie. Lukashenko ha anche ordinato tempo fa la chiusura dell'ufficio Osce di Minsk.
L'appello è già stato firmato da molte altre organizzazioni internazionali come Amnesty International e l'Helsinki Committeei.

Qui di seguito il testo dell'appello.

Dear Colleagues,
We, civic organizations and activists from Russia, Ukraine and Central Asian countries, including those involved in the creation of the International Monitoring Committee for Human Rights in Belarus in December, 2010, wish to urgently appeal to OSCE participating States to immediately initiate the Moscow Mechanism of the OSCE with respect to the situation in Belarus. This mechanism, unlike other procedures within the OSCE, does not require consensus across the whole organization, but the endorsement of only 10 participating States. The mechanism would initiate a fact finding mission to assess and analyze serious violations of OSCE Human Dimension commitments, resulting in the publication of a report on the results of the mission. The findings and recommendations of the report, an official document of the OSCE, would serve as a basis for dialogue between the OSCE and Belarus, and can also be used by other international organizations in their dialogue and engagement with the country. Even if the authorities refuse to accept the mission, the decision to trigger the mechanism would be adopted through the decision of 10 countries, and the report will be compiled from the available materials irrespective of the ability to execute the mission. The amount of information and material available about the events of and following the 19 December elections is already significant, and will increase in the near future.

Belarusian colleagues, with whom we have daily communication, actively support this idea. Our consultations with diplomats from across the OSCE region have shown that they are willing to actively support the proposal and are waiting for the initiative of civil society. Within the OSCE, there is an active desire to finally do something about the situation in Belarus.

We have prepared the text of the statement on behalf of civil society (see attachment). We would like to send this statement on 10 January, signed by civil society organizations from across the OSCE region, to all missions of participating States to the OSCE. In addition, we will release it to the media and publish it on the internet. The situation in Belarus requires urgent action, and diplomats of participating States are awaiting civil society action. In addition, on 12 January, the European Parliament will hold hearings on Belarus, and the EU Committee on international cooperation and security will also be meeting. Although the EU is not the OSCE, our appeal will also be useful towards these events, as all EU countries are also participating States of the OSCE.

Please send all signatures and comments to
moscow-mechanism-for-belarus@googlegroups.com

We are eagerly awaiting your response and look forward to successful cooperation!

Sincerely, authors of the appeal:
Andrew Aranbaev, Turkmenistan
Dmitry Makarov, International Youth Human Rights Movement (regional)
Andrei Yurov, the Moscow Helsinki Group, Russia
Yuri Dzhibladze, Center for Democracy and Human Rights, Russia
Olga Zakharova, International Socio-Ecological Union (regional)

                               

TURCHIA: UN BILANCIO DELLA POLITICA ESTERA NEL 2010

Per le relazioni turco-europee, il 2010 non solo è stato deludente rispetto agli anni precedenti, per molte ragioni, ma ha anche allontanato la prospettiva di integrazione europea della Turchia e ha riproposto molte questioni sulla possibilità che il processo negoziale avviato nel 2005 possa essere completato. Per molti aspetti l'UE e la Turchia non sembrano essere sulla stessa lunghezza d'onda: il tradizionale rapporto annuale di valutazione pubblicato nel novembre 2010 dalla Commissione europea, ha espresso ancora una volta delusione per come il processo delle riforme è stato condotto, nel corso dell'anno, da Ankara. 
Da questi sviluppi negativi emerge che le relazioni turco-europee siano entrate in una fase di raffreddamento certa e durevole. Esponenti di governo turchi hanno espresso più volte nel corso degli ultimi mesi il loro malumore per la mancanza di entusiasmo da parte dell'Europa nei riguardi dell'adesione del loro paese: il premier Recep Tayyip Erdogan, durante una visita ufficiale a Helsinki, nel mese di ottobre, ha accusato l'UE di non aver mai fatto aspettare un Paese candidato per così tanto tempo e questo mentre ammetteva Paesi economicamente meno sviluppati. Nonostante questo il governo sostiene ancora la volontà di entrare nell'Unione Europea e questa ostinazione non è stata smentita nel corso del 2010, insieme all'opposizione all'opinione che la politica estera turca abbia cambiato direzione.  

Lo scrive, tra l'altro, il professor Jean Marcou in un articolo intitolato "2010: bilancio della politica europea della Turchia", pubblicato sul blog dell’Observatoire de la Vie Politique Turque (OVIPOT) creato nell'ambito dell'Institut Français d’Etudes Anatoliennes (IFEA) di Istanbul.

Marcou, riassumendo i caratteri principali della politica estera turca come si sono sviluppati nel corso dell'anno appena passato, scrive che i leader turchi si sono impegnati a dimostrare che le loro iniziative verso il mondo arabo-musulmano e lo status di potenza regionale della Turchia rappresentano in realtà un nuovo atout per l'Europa. Per quanto riguarda l'opinione pubblica turca, inoltre, se essa da una parte mostra certamente molto meno entusiasmo per il progetto europeo, un recente sondaggio condotto dall'Istituto "Metropoll" di Ankara indica che la maggioranza dei cittadini turchi (il 53%), se fossero consultati con un referendum, continuerebbe ad approvare l'ingresso nell'Unione europea. Insomma, secondo Marcou la permanenza della candidatura della Turchia all'adesione all'Unione Europea dimostra che, nonostante la loro natura eclatante, le nuove opzioni aperte dalla politica estera turca, verso il Medio Oriente e, più in generale, verso lo spazio eurasiatico, non possono soppiantare l'alleanza con Europa e Stati Uniti, che rimane un asse portante della diplomazia turca. La Turchia è una potenza emergente, economicamente fragile, e che vive in un ambiente pericoloso: in tale contesto, conclude, il suo rapporto con l'Occidente resta ancora essenziale per la propria sicurezza.

                      

martedì 11 gennaio 2011

PASSAGGIO IN ONDA

La puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda sabato 8 gennaio a Radio Radicale

La trasmissione si apre con un ricordo di Paolo Pietrosanti, militante e dirigente radicale scomparso prematuramente pochi giorni fa. Pietrosanti fu molto attivo nelle iniziative contro le dittature comuniste dell’Europa centro-orientale e, dopo la caduta del muro di Berlino, si traferì a Praga dove contribuì a dare vita ad un nucleo di radicali molto attivo sui temi transnazionali. Negli anni '90 si impegnò, tra l'altro, per l'istituzione della Corte penale internazionale permanente, per la creazione di un tribunale ad hoc sui crimini contro l'umanità commessi nella ex Jugoslavia e la conseguente campagna per l'incriminazione di Slobodan Milosevic. Per ricordare questo impegno, in particolare, la puntata propone un suo intervento ad una manifestazione radicale che si svolse a Roma nell'ottobre 1998.

Gli altri temi della trasmissione riguardano il semestre di presidenza ungherese dell'Unione Europea; l'integrazione europea di Croazia e Serbia; il problema della corruzione nei paesi dei Balcani occidentali; le reazioni kosovare contro il dossier del Consiglio d'Europa che accusa il premier Hashim Thaci di essere il capo di un'organizzazione criminale responsabile, tra l'altro del traffico illegale di organi espiantati a prigionieri di guerra serbi e non solo durante il conflitto del 1999; i problemi per la formazione del nuovo governo in Bosnia Erzegovina dopo tre mesi dalle elezioni; la situazione politica in Albania.

La trasmissione è stata realizzata con la collaborazione dei corrispondenti Marina Szikora e Artur Nura è riascoltabile qui



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venerdì 7 gennaio 2011

CIAO PAOLINO

Ci sono notizie che non si vorrebbero mai ricevere, né tanto meno dare: la scomparsa di una persona conosciuta è una di queste. Capita, purtroppo, perché così va la vita, ma questo non rende la cose meno difficili. Così mi trovo a scrivere della scomparsa di Paolo Pietrosanti, con cui ho condiviso alcuni anni di impegno e di lavoro nel Partito Radicale. Paolino, così lo chiamavano da sempre gli amici e i suoi compagni radicali, è morto a Roma la notte scorsa: se lo è portato via il tumore di cui soffriva da molti anni.
Nato nel 1960, giornalista (anche a Radio Radicale) e scrittore, Paolino Pietrosanti è stato uno storico militante e dirigente radicale sin dalla fine degli anni ’70, più volte candidato tra i capilista radicali alle elezioni europee, politiche e amministrative. Iniziò il suo impegno politico partecipando attivamente all’organizzazione delle iniziative antimilitariste e nonviolente dei Radicali e della Lega degli Obiettori di Coscienza, subendo anche un arresto a Comiso. E' stato autore di analisi, pubblicazioni, libri e interventi sui metodi della disobbedienza civile e della nonviolenza passiva, impegnandosi per la diffusione in Italia del pensiero di Gandhi e di Martin Luther King.
Tra i principali temi che hanno caratterizzato il suo impegno politico, ricordo la campagna contro la pena di morte e le azioni contro le dittature comuniste dell’Europa centro-orientale: per queste ultime fu anche arrestato a Varsavia nel 1986. E ancora la battaglia per i diritti del popolo Rom per i quali è stato rappresentante all’Onu dell’Unione Internazionale dei Rom, oltre che Presidente onorario della prima organizzazione europea del popolo Rom. Tra i promotori del Partito Radicale Transnazionale, alla caduta del muro di Berlino si trasferì a Praga, dove fece nascere un nucleo molto attivo di radicali impegnati sui temi transnazionali. Altre iniziative che lo videro protagonista furono quella per la creazione di un tribunale ad hoc sui crimini commessi in ex Jugoslavia (e la conseguente campagna per l'incriminazione di Slobodan Milosevic) e quella per l'istituzione della Corte penale internazionale permanente.
La malattia nel 2000 gli causò la perdita della vista, ma questo non gli impedì di battersi per la trasmissione della cultura e dei testi in formato audio-digitale a beneficio dei non vedenti (ma lui detestava questa definizione: "Io non sono 'non vedente' - amava ripetere - sono cieco, anzi 'so ciecato', come si dice a Roma"). Per questo, ebbe anche l’incarico dal Ministero dei Beni Culturali di trattare con gli editori la relativa convenzione.
Ciao Paolino, che la terra ti sia leggera.


Per saperne di più sull'attività politica di Paolo Pietrosanti segnalo in particolare la pagina speciale sul sito di Radio Radicale.

LA STRADA SEMPRE PIU' STRETTA TRA ANKARA E BRUXELLES

Più la Turchia prosegue il difficile cammino delle riforme richieste dall'Unione Europea, più l’Europa alza ostacoli e mostra di non voler dar seguito alle promesse fatte a suo tempo rifiutandosi di affrontare razionalmente e pragmaticamente la situazione. Una situazione per cui la prospettiva dell'adesione turca all'UE sembra essere ormai un sogno svanito, per colpe e responsabilità sia turche, sia europee. Tanto che recentemente il premio Nobel Orhan Pamuk, convinto sostenitore dell'integrazione europea della Turchia, in un duro articolo pubblicato da La Repubblica, e che ripreso anch'io sul blog, ha affermato che ormai "né in Europa, né in Turchia c'è una speranza realistica che la Turchia si unisca all'Ue nel prossimo futuro", ma ammetterlo "avrebbe l'effetto devastante di un totale collasso delle relazioni turco-europee; e quindi nessuno trova il coraggio di parlarne in maniera esplicita".
Effettivamente la strada che unisce Ankara e Bruxelles si fa sempre più stretta e tortuosa, come spiega Paolo Bergamaschi, consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo, in un reportage a proposito di una conferenza sul tema "La Turchia in Europa", svoltasi recentemente a Istanbul.
L'articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso.

Strade aggrovigliate tra Ankara e Bruxelles
La prima volta che visitai Istanbul fu in una giornata di febbraio di parecchi anni fa durante una sosta di una decina di ore sulla via dell’Abkhazia. Una fitta nevicata aveva ammantato la città che sembrava paralizzata, stordita, magica. Giungendo dall’aeroporto con il metro di superficie scesi sulla spianata di Sultanahmet e mi ritrovai solo nel silenzio, schiacciato dall’imponenza di Santa Sofia e della Moschea Blu. Il grande cortile tra i minareti di quest’ultima era deserto e gelido. Non era il clima migliore per togliersi le scarpe e camminare scalzo tra le ampie volte ed i marmi levigati. Ho imparato successivamente a conoscere la città e quel primo ricordo è rimasto solo un'immagine da cartolina o un sortilegio per ingannare uno sprovveduto visitatore. Non ci sono ciclisti per le strade di Istanbul. Il traffico caotico e tentacolare sconsiglia anche i più arditi dal provarci.

L’ultima volta che arrivai in città fu in occasione del matrimonio di Joost Lagendijk al Pera Palas Hotel, quello di Agatha Christie e dell’Orient Express, conclusosi con un grande e raffinato interminabile banchetto sul Bosforo davanti alle propaggini oscure del continente asiatico. Dopo gli anni al Parlamento europeo Joost ha abbandonato la politica e oggi insegna Relazioni europee all’università della metropoli turca pubblicando corsivi di vario genere sulla stampa in inglese del paese. La moglie turca, Nevim, mi racconta che da buon olandese a Joost manca molto la bicicletta. Vorrebbero quindi trasferirsi in una delle isolette antistanti dove la circolazione delle automobili è vietata e ci si muove solo sulle due ruote. Anche senza pedalare, comunque, lo trovo in ottima forma mentre fa il punto sui rapporti fra Unione Europea e Turchia alla conferenza a cui partecipo.

La Turchia in Europa
“Erano tante, forse troppe le aspettative create nel 2005 quando cominciarono i negoziati di adesione all’Unione” esordisce Lagendijk. “Da allora sono 13 i capitoli negoziali aperti sui 35 previsti ma il passo è lento con continui ostacoli frapposti da chi vuole fare deragliare il processo portando Ankara all’esasperazione”. Non è un mistero che Francia e Germania siano ostili all’ingresso della Turchia in Europa così come altri paesi che per adesso non si esprimono ma attendono il momento opportuno per farlo. Parigi ha addirittura posto il veto all’apertura di cinque capitoli, quelli che riguardano direttamente la partecipazione istituzionale di Ankara ai processi decisionali dell’Unione. Altri otto sono bloccati da Cipro a causa dell’indisponibilità turca ad aprire porti ed aeroporti ad imbarcazioni ed aerei battenti bandiera cipriota. “Il motore europeo in Turchia sta perdendo giri” sottolinea Joost “ma la spinta per le riforme non si è esaurita”. Se prima, infatti, l’incentivo per il cambiamento era la prospettiva di adesione all’Unione, adesso è la necessità di modernizzare il paese indipendentemente dall'ingresso in Europa. Non è più Bruxelles a dettare le condizioni ad Ankara. Mentre il vecchio continente fatica ad uscire dalla crisi in cui è impantanato l’economia turca registra tassi di crescita vicini alle due cifre.
E’ la consapevolezza dei propri mezzi, la fiducia del proprio potenziale che ha affrancato la Turchia dalla tradizionale sudditanza nei confronti dell’Europa. Ankara, ormai, non si sente più come un’estensione nella regione degli interessi dell’Unione o della Nato. Dopo anni di umiliazioni e di porte in faccia la Turchia cerca di ritagliarsi un proprio ruolo sullo scacchiere medio-orientale e centro asiatico slegato dai vincoli di alleati ingrati e sgarbati, incapaci di mantenere la parola data. “Quello della Turchia”, sottolinea Lagendijk, “è un caso speciale perché tocca il cuore dell’Unione Europea rimettendone in questione l’identità”. “Sbaglia, ad ogni modo, chi pensa che la Turchia possa fare a meno dell'Europa”, aggiunge però, “buona parte della credibilità internazionale di Ankara, infatti, compresi i cospicui investimenti stranieri, deriva dal fatto che il paese è in trattativa ed in parte integrato con l'Unione”. Bisogna capire, comunque, se e fino a quando potrà durare questa pantomima. Per adesso conviene ad entrambi fingere che i negoziati di adesione procedano minimizzando i problemi, ignorando il malumore strisciante e soffocando la crescente diffidenza.
Egemen Bagis, Ministro per gli affari europei, nel rilanciare le ambizioni turche conferma lo stato d'animo di un paese diverso da quello che nel 2005 aveva timidamente, ma con grande entusiasmo, iniziato il periglioso cammino di avvicinamento all'Unione. “La Turchia di oggi” afferma” non è quella di allora: economicamente parlando siamo il paese più forte del continente con un tasso di crescita che per il primo semestre dell'anno si aggira attorno all'11%.”. “Purtroppo”, sottolinea con una certa amarezza, “il muro crollato a Berlino è stato ricostruito in prossimità del Bosforo con tutto quello che ne deriva”. “La Turchia”, continua, “è il paese più orientale dell'Occidente ed allo stesso tempo il paese più occidentale dell'Oriente: chi critica la nostra politica estera deve rendersi conto che se non si spegne l'incendio nelle case vicine anche la propria rischia di andare a fuoco”. Le parole di Bagis cadono su una platea disamorata dell'Europa e nel concludere cita il paradosso del rifiuto di Bruxelles di aprire il capitolo negoziale sull'energia nonostante il 70% delle forniture energetiche di cui i paesi dell'Unione hanno bisogno si trovi ai confini della Turchia.

Piazza Taksim
Nel volgere di poche ore Piazza Taksim è tornata nella normalità. Mentre mi recavo in aeroporto a Verona la radio annunciava un attentato proprio nella grande piazza della metropoli turca dove si affaccia il mio hotel. Se me ne fossi accorto prima di partire e non durante il volo avrei perlomeno dato un colpo di telefono alla reception per verificare la situazione. Un paio di veicoli blindati, qualche poliziotto che vigila e l'area a ridosso delle fontanelle, transennata ma nulla più: un costante flusso di passanti continua indifferente a riversarsi per le strade di Beyoglu ipnotizzato dal luccichio delle luminarie e dal fascino delle vetrine. Il ritrovato orgoglio nazionale non ammette il panico. Non c'è sfida o scommessa che la Turchia di oggi non sia in grado di affrontare e gestire: è questo il messaggio che le autorità vogliono inviare alla propria opinione pubblica e all'opinione pubblica internazionale.
Secolarismo e separazione ed equilibrio dei poteri sono i fondamenti della costituzione turca. Secondo Gianni Buquicchio, presidente della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa (l’organo consultivo dell’organizzazione deputato ad occuparsi di riforme costituzionali nei paesi membri), i cambiamenti approvati nello scorso settembre per via referendaria sono positivi anche se la Turchia, fa presente, avrebbe bisogno di una costituzione completamente nuova. “I diritti umani sono protetti ma limitati da norme che ne impediscono il cattivo uso”, osserva, “sembra quasi che le norme mirino a proteggere lo stato dai cittadini e non viceversa”. “Rimangono, inoltre, le preoccupazioni per quanto riguarda la libertà di espressione”, rimarca, “e resiste il sistema di tutela da parte dei militari”. Non è un caso che la Turchia continui a perdere le cause mosse dai suoi cittadini presso la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo. Esasperati dalla giustizia del proprio paese sono sempre di più i turchi che si rivolgono al massimo organo giudiziario del continente per vedere riconosciuti i propri diritti. “E’ giunto il tempo per la Turchia di diventare una democrazia liberale a pieno titolo”, conclude Buquicchio catturando l’applauso convinto dei convenuti, “ma una nuova costituzione deve essere fondata sul consenso e passare attraverso un processo inclusivo che unisca il paese”.

La questione islamica
Sono ormai molti gli esponenti politici che nell’Unione Europea raccattano voti puntando sul pericolo islamico. Svezia, Olanda, Austria e Italia ne sono un esempio ma anche in Francia e nel Regno Unito la paura monta sulle ali di una crisi che attraversa tutti i settori della nostra società. “Si pensava che razzismo e xenofobia fossero fenomeni del passato”, commenta l’amico francese seduto al mio fianco, “ed invece ce li ritroviamo di fronte, rimaterializzati in affermazioni e comportamenti che una volta sarebbero stati univocamente condannati e che oggi non destano quasi scalpore”. Politici e media turchi sono perfettamente consapevoli dell’islamofobia crescente in occidente e di come l’eventuale adesione all’Unione venga strumentalizzata da chi è alla ricerca di facili consensi. Non mancano di rilevare che più la Turchia si avvicina all’Europa, sforzandosi di intraprendere il faticoso cammino delle riforme, più l’Europa si ritrae incapace di dar seguito alle promesse affrontando razionalmente la situazione. “La Turchia ha bisogno dell’Europa”, mi confida Daniel Cohn-Bendit, “ma forse adesso è più l’Europa ad avere bisogno della Turchia”. “Abbiamo bisogno di ponti, non di muri”, continua, “e la Turchia è il ponte più sicuro verso l’Oriente”.

L'identità turca e la questione cipriota
Contrariamente a quello che le autorità vogliono far credere Istambul non è la vetrina della Turchia e tantomeno il quartiere di Beyoglu, il cuore commerciale della città. Stessa frenesia di shopping, stessi articoli in esposizione, stessi fast-food delle metropoli europee. I ragazzi e le ragazze vestono “all’occidentale” e frequentano gli internet cafè. Appena ci si sposta verso la periferia, però, ricompare il “turban”, il foulard, sul capo delle donne, molte delle quali avvolte fino ai piedi nelle tradizionali ed anonime lunghe tuniche nere. Ma è tutto uno sventolio di bandiere, uno sfarfallio di stendardi con la mezzaluna bianca in campo rosso che avvolge le piazze e le grandi arterie della città. Il verbo nazionalista è merce a buon mercato, trova sempre terreno fertile e funziona senza troppi sforzi.
Anche la questione cipriota serve a rinfocolare il sentimento identitario quando si tratta di distogliere l'attenzione da altri problemi. Più che un ostacolo reale che allontana Ankara da Bruxelles lo stallo sull'isola si è trasformato in un elemento di orgoglio nazionale che impedisce qualsiasi cedimento, pena la perdita di credibilità interna ed esterna. D'altronde, secondo la diplomazia del Bosforo e forse non a torto, è l'Unione che deve rispettare le promesse fatte nel 2004 e porre fine all'isolamento della parte nord dell'isola, quella abitata dalla comunità turca. Ancora oggi gli unici collegamenti con Cipro nord partono da porti ed aeroporti della penisola anatolica garantendo tutti i rifornimenti. Il nuovo aeroporto di Gokcen è il punto di partenza per tutti i voli diretti verso l'isola anche se Ercian, l'aeroporto di arrivo, non fa parte della rete ufficiale dell'aviotrasporto internazionale. Ragioni ambientali e di tempo mi inducono a non essere politically correct nel proseguimento della missione. Trovo assurdo, infatti, dover passare da Atene, come invece è obbligata a fare l'eurodeputata tedesca Ska Keller che dovrei accompagnare, per volare a Nicosia bruciando una notte fra aerei, taxi e check-in. Per la prima volta da quando mi muovo nella regione decido, quindi, di approfittare dei collegamenti “illegali” fra Istanbul ed Ercian, molto più comodi e funzionali. La Repubblica di Cipro Nord è riconosciuta solo dalla Turchia e non ha alcun legame formale con i paesi dell'Unione.
“La Turchia in Europa” era il titolo della conferenza cui ho partecipato. Nel 2005 ero stato invitato ad un'altra conferenza in città dal titolo identico. E' molto probabile che nel 2015 sarò ancora ad Istanbul per una nuova conferenza con lo stesso tema. Strade aggrovigliate tra Ankara e Bruxelles. C'è chi si perde e chi fa apposta a perdersi.