Arriva l'abolizione dei visti Ue anche per i cittadini di Albania e Bosnia. Lo ha annunciato ieri in una conferenza stampa il Commissario europeo per gli Affari interni, Cecilia Malmstrom, precisando che la proposta della Commissione europea dovrà ora essere approvata dal Parlamento europeo e ottenere poi il via libera definitivo dal Consiglio dell'Ue (passaggi formali obblligatori, ma che comunque non smentiranno la decisione presa dalla Commissione). In effetti si pensava che un annuncio del genere potesse arrivare dal meeting Ue-Balcani occidentali che si svolgerà a Sarajevo mercoledì prossimo e invece la buona notizia è arrivata con qualche giorno di anticipo. Entro poche settimane, dunque, i cittadini albanesi e bosniaci avranno accesso al regime di libera circolazione nei Paesi Ue dell'area Schengen (più l'Islanda ma tranne Irlanda e Regno Unito), analogamente a quanto era stato già concesso lo scorso dicembre a Macedonia, Montenegro e Serbia. Il Kosovo resterà, dunque, per il momento, il solo Paese dei Balcani occidentali ancora vincolato al regime dei visti.
E sempre ieri il governo di Belgrado ha dato il via libera all'ingresso dei cittadini Ue nel territorio serbo senza più bisogno del passaporto, ma con la sola carta d'identità: lo ha annunciato il premier serbo Mirko Cvetkovic a margine della sessione settimanale dell'esecutivo, precisando che per ora il provvedimento sarà valido "durante il periodo della stagione turistica". Già nelle scorse settimane, a causa delle difficoltà al traffico aereo causate dall'eruzione del vulcano islandese, Belgrado aveva concesso, per la prima volta, la possibilità ai cittadini Ue di transitare senza passaporto in territorio serbo. E' probabile che questa replica estiva, per favorire l'ingresso nel Paese di turisti in euro, sia il preludio ad una definitiva abolizione dell'obbligo di passaporto. Un passo in avanti ulteriore sulla strada del riavvicinamento tra Serbia ed Europa.
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venerdì 28 maggio 2010
mercoledì 26 maggio 2010
PASSAGGIO SPECIALE: IL 2 GIUGNO A SARAJEVO
Fra una settimana, il prossimo 2 giugno a Sarajevo, si terrà la conferenza internazionale sui Balcani. Non ci saranno decisioni eclatanti, né nuovi particolari impegni per l’area. Verrà ribadito quello che era stato detto già dieci anni fa, ovvero che il futuro dei Balcani è nell’Unione europea. Il risultato importante dell'incontro sarà comunque quello di essere riusciti a riunire attorno allo stesso tavolo tutti i leader regionali. E già questo non è stato facile. Ci sono volute infatti settimane di mediazioni per trovare un compromesso che consentisse sia alla Serbia sia al Kosovo di sedersi allo stesso tavolo, evitando il fallimento che aveva invece caratterizzato il vertice Ue-Balcani svoltosi a Brdo, in Slovenia, il 20 marzo. Se fosse andato in scena lo stesso copione di Brdo, i Paesi dei Balcani occidentali avrebbero presentato un pessimo biglietto da visita ad un’Europa che già ha dovuto affrontare le controversie territoriali sloveno-croate, solo da poco avviate a soluzione, che è sempre alle prese con l'incomprensibile questione del nome della Macedonia che oppone Skopje ad Atene, che deve gestire la questione Kosovo e soprattutto aiutare a trovare una soluzione per la fragile situazione della Bosnia. Il tutto mentre le opinioni pubbliche europee sono sempre più restie a nuovi allargamenti e in un momento in cui la crisi economica globale con le conseguenti tempeste che stanno flagellando l’eurozona sta mettendo seriamente a rischio il futuro stesso dell'Ue come progetto politico.
Alla conferenza Ue-Balcani occidentali del 2 giugno a Sarajevo è dedicato lo Speciale di Passaggio a Sud Est in onda questa sera alle 23,30 a Radio Radicale. Il punto della situazione ad una settimana dal vertice con le corrispondenze di Marina Szikora e Artur Nura.
Per evitare un bis di Brdo, il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini alcune settimane fa ha tirato fuori dal cappello la cosiddetta "formula Gymnich", ovvero il protocollo usato per le riunioni informali dei ministri degli Esteri dell'Ue. I partecipanti si siederanno intorno al tavolo identificati soltanto dal loro nome, senza alcun riferimento al loro Paese d’origine. In questo modo si dovrebbe riuscire a superare lo scoglio del Kosovo, Paese che si è autoproclamato indipendente nel febbraio del 2008 e che nel frattempo, tra i Paesi dell'area, è stato riconosciuto da Slovenia, Croazia, Montenegro, Macedonia e Albania. Il riconoscimento non è venuto invece da 5 dei 27 membri dell'Ue, tra cui la Spagna, attuale presidente di turno e organizzatrice della conferenza di Sarajevo, dalla Bosnia e dalla Serbia. La "formula Gymnich" consentirà al rappresentante serbo, il ministro degli Esteri Vuk Jeremic, di sedersi allo stesso tavolo di quello kosovaro, il suo omologo Skender Hyseni, senza che questo possa rappresentare un riconoscimento de facto dell'indipendenza. I problemi non sono però del tutto superati e lo scontro tra serbi e kosovari si potrebbe riproporre su questioni procedurali. Intanto, è già stato deciso che la dichiarazione conclusiva sarà presentata soltanto dall’Ue, evitando così che il ministro degli Esteri serbo si trovi nell’imbarazzante condizione di dover sottoscrivere un documento insieme a quello kosovaro.
Alla conferenza di Sarajevo parteciperanno anche Usa e Russia. Inoltre è stata invitata la Turchia che è sempre più attiva nei Balcani con progetti diplomatici (ultimo il trilaterale di maggio ad Istanbul Turchia-Croazia-Bosnia dedicato alla stabilità dell’Europa sud-orientale) e iniziative economiche e imprenditoriali. Diversi analisti vedono nell'attivismo politico di Ankara nella regione e nel suo sostegno all'integrazione europea dei Balcani occidentali una ulteriore mossa per acquisire credito a Bruxelles in vista della propria adesione all'Ue. Bisogna poi ricordare la presenza e l'iniziativa nell’area anche della Nato: nella sua ultima riunione, svoltasi a Tallinn il 22 aprile scorso, l'Alleanza ha dato via libera al Map (Membership Action Plan, procedura per l’adesione) per la Bosnia, dopo che l'anno scorso lo stesso era avvenuto per Montenegro e Albania. Poi c'è la vicenda della Macedonia che si vede la strada per Ue e Nato sbarrata dalla Grecia per via della querelle sul nome dell'ex repubblica jugoslava.
Qualche novità potrebbe arrivare anche per la questione dei visti. Dal 1 gennaio non c'è piuù bisogno di visti d’ingresso nell'Ue per i cittadini di Serbia, Macedonia, Montenegro. Luce rossa, per ora, per Albania, Bosnia e Kosovo. Ma forse, appunto anche per questi paesi potrebbero arrivare notizie positive con l'obiettivo di smorzare le pulsioni nazionaliste all’interno degli Stati e smorzare i crescenti sentimenti anti-europei, dopo anni di incertezza sul loro ingresso nell’Unione. Sarebbe un segnale non da poco, specie per la Bosnia Erzegovina alle prese con un impasse istituzionale che si potrae da troppo tempo e sempre sull'orlo di una possibile secessione mentre è già partita la campagna per le elezioni politiche e presidenziali del prossimo ottobre.
Alla conferenza Ue-Balcani occidentali del 2 giugno a Sarajevo è dedicato lo Speciale di Passaggio a Sud Est in onda questa sera alle 23,30 a Radio Radicale. Il punto della situazione ad una settimana dal vertice con le corrispondenze di Marina Szikora e Artur Nura.
Per evitare un bis di Brdo, il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini alcune settimane fa ha tirato fuori dal cappello la cosiddetta "formula Gymnich", ovvero il protocollo usato per le riunioni informali dei ministri degli Esteri dell'Ue. I partecipanti si siederanno intorno al tavolo identificati soltanto dal loro nome, senza alcun riferimento al loro Paese d’origine. In questo modo si dovrebbe riuscire a superare lo scoglio del Kosovo, Paese che si è autoproclamato indipendente nel febbraio del 2008 e che nel frattempo, tra i Paesi dell'area, è stato riconosciuto da Slovenia, Croazia, Montenegro, Macedonia e Albania. Il riconoscimento non è venuto invece da 5 dei 27 membri dell'Ue, tra cui la Spagna, attuale presidente di turno e organizzatrice della conferenza di Sarajevo, dalla Bosnia e dalla Serbia. La "formula Gymnich" consentirà al rappresentante serbo, il ministro degli Esteri Vuk Jeremic, di sedersi allo stesso tavolo di quello kosovaro, il suo omologo Skender Hyseni, senza che questo possa rappresentare un riconoscimento de facto dell'indipendenza. I problemi non sono però del tutto superati e lo scontro tra serbi e kosovari si potrebbe riproporre su questioni procedurali. Intanto, è già stato deciso che la dichiarazione conclusiva sarà presentata soltanto dall’Ue, evitando così che il ministro degli Esteri serbo si trovi nell’imbarazzante condizione di dover sottoscrivere un documento insieme a quello kosovaro.
Alla conferenza di Sarajevo parteciperanno anche Usa e Russia. Inoltre è stata invitata la Turchia che è sempre più attiva nei Balcani con progetti diplomatici (ultimo il trilaterale di maggio ad Istanbul Turchia-Croazia-Bosnia dedicato alla stabilità dell’Europa sud-orientale) e iniziative economiche e imprenditoriali. Diversi analisti vedono nell'attivismo politico di Ankara nella regione e nel suo sostegno all'integrazione europea dei Balcani occidentali una ulteriore mossa per acquisire credito a Bruxelles in vista della propria adesione all'Ue. Bisogna poi ricordare la presenza e l'iniziativa nell’area anche della Nato: nella sua ultima riunione, svoltasi a Tallinn il 22 aprile scorso, l'Alleanza ha dato via libera al Map (Membership Action Plan, procedura per l’adesione) per la Bosnia, dopo che l'anno scorso lo stesso era avvenuto per Montenegro e Albania. Poi c'è la vicenda della Macedonia che si vede la strada per Ue e Nato sbarrata dalla Grecia per via della querelle sul nome dell'ex repubblica jugoslava.
Qualche novità potrebbe arrivare anche per la questione dei visti. Dal 1 gennaio non c'è piuù bisogno di visti d’ingresso nell'Ue per i cittadini di Serbia, Macedonia, Montenegro. Luce rossa, per ora, per Albania, Bosnia e Kosovo. Ma forse, appunto anche per questi paesi potrebbero arrivare notizie positive con l'obiettivo di smorzare le pulsioni nazionaliste all’interno degli Stati e smorzare i crescenti sentimenti anti-europei, dopo anni di incertezza sul loro ingresso nell’Unione. Sarebbe un segnale non da poco, specie per la Bosnia Erzegovina alle prese con un impasse istituzionale che si potrae da troppo tempo e sempre sull'orlo di una possibile secessione mentre è già partita la campagna per le elezioni politiche e presidenziali del prossimo ottobre.
BOSNIA: POSSIBILE STORICO INCONTRO TRA JOSIPOVIC E DODIK
Il quotidiano croato Jutarnji List scrive oggi che il presidente Ivo Josipovic domenica prossima dovrebbe incontrare a Banja Luka Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (l'entità serba della Bosnia Erzegovina). Un incontro che non avrà carattere ufficiale, ma che non di meno è di portata storica, che Josipovic considera urgente e prioritario per la situazione nell'intera regione balcanica. Qui di seguito l'articolo di Jutarnji List tradotto da Marina Szikora.
Zagabria – Il presidente croato Ivo Josipović domenica prossima dovrebbe incontrare Milorad Dodik, premier dell'entità serba in BiH. In vista della conferenza Ue e Paesi della regione a Sarajevo, il prossimo 2 giugno, Josipović sabato 29 maggio sarà a Sarajevo alla riunione dell'Iniziativa Igman, insieme con il presidente della Serbia Boris Tadić, il presidente del Montenegro Filip Vujanović ed i rappresentanti della BiH. Il giorno dopo, domenica, è prevista la visita a Banja Luka, è stato confermato dall'Ufficio del Presidente Josipović.
"Si sta concordando anche l'incontro con Milorad Dodik, ma questo molto probabilmente non sarà un incontro ufficiale", comunica l'Ufficio del presidente. Ancora lo scorso aprile, Josipović ha vistato Sarajevo e Mostar per rendere omaggio alle vittime di Ahmici e Križančevo Selo vicino a Vitez. Finora, nessun presidente croato né premier è mai stato in visita a Banja Luka. Due anni fa era stata pianificata la visita di Ivo Sanader a Banja Luka, ma allora al posto del premier croato ci ando' il ministro Dragan Primorac.
Dnevni List di Mostar scrive che è desiderio di Josipović di rendere omaggio a tutti i croati uccisi nella recente guerra ma anche ai serbi. Josipović lo ha annunciato ancora ad aprile quando ha reso omaggio alle vittime di Ahmići e Križančevo Selo, nonché alle vittime dei bombardamenti di Sarajevo. I politici serbi, allora lo avevano criticato perché non ha prestato attenzione anche alle vittime di nazionalità serba.
Zagabria – Il presidente croato Ivo Josipović domenica prossima dovrebbe incontrare Milorad Dodik, premier dell'entità serba in BiH. In vista della conferenza Ue e Paesi della regione a Sarajevo, il prossimo 2 giugno, Josipović sabato 29 maggio sarà a Sarajevo alla riunione dell'Iniziativa Igman, insieme con il presidente della Serbia Boris Tadić, il presidente del Montenegro Filip Vujanović ed i rappresentanti della BiH. Il giorno dopo, domenica, è prevista la visita a Banja Luka, è stato confermato dall'Ufficio del Presidente Josipović.
"Si sta concordando anche l'incontro con Milorad Dodik, ma questo molto probabilmente non sarà un incontro ufficiale", comunica l'Ufficio del presidente. Ancora lo scorso aprile, Josipović ha vistato Sarajevo e Mostar per rendere omaggio alle vittime di Ahmici e Križančevo Selo vicino a Vitez. Finora, nessun presidente croato né premier è mai stato in visita a Banja Luka. Due anni fa era stata pianificata la visita di Ivo Sanader a Banja Luka, ma allora al posto del premier croato ci ando' il ministro Dragan Primorac.
Dnevni List di Mostar scrive che è desiderio di Josipović di rendere omaggio a tutti i croati uccisi nella recente guerra ma anche ai serbi. Josipović lo ha annunciato ancora ad aprile quando ha reso omaggio alle vittime di Ahmići e Križančevo Selo, nonché alle vittime dei bombardamenti di Sarajevo. I politici serbi, allora lo avevano criticato perché non ha prestato attenzione anche alle vittime di nazionalità serba.
martedì 25 maggio 2010
AMICO MILO
C'è un signore che fa il premier in un Paese che si affaccia sull'Adriatico, pluri-inquisito (dalle procure di Bari e Napoli) per vicende piuttosto losche, che nonostante un evidente conflitto di interessi sta facendo affari lucrosi con un suo vicino. Avete sbagliato. Non si tratta di Silvio Berlusconi, ma di quest'ultimo è grande amico. Il suo nome è Milo Djukanovic, di mestiere fa l'uomo d'affari, ma si occupa anche di politica come capo del governo del Montenegro di cui controlla la politica da una ventina d'anni. Secondo alcuni nostri magistrati è (stato) implicato nel contrabbando internazionale e nel favoreggiamento di alcuni latitanti.
La Procura di Bari, come anche quella di Napoli, aveva chiesto il suo arresto come capo di una cupola mafioso-finanziaria dedita al traffico internazionale di sigarette, droga, armi e responsabile della copertura di una quindicina di criminali. L'anno scorso però il fascicolo è stato archiviato: Djukanovic è un capo di governo straniero protetto dall'immunità e quindi non si può procedere. Anche i magistrati montenegrini hanno messo Djukanovic nel mirino: la suprema corte di Podgorica sta infatti indagando su nove omicidi di testimoni "scomodi" legati al contrabbando (nel 2004 in città fu ucciso anche il giovane direttore del quotidiano di opposizione Dan), con un indagine che pare stia guastando il sonno a molti alti papaveri.
Djukanovic ha deciso di fare del suo Paese una nuova Eldorado, attirando investimenti esteri grazie anche all'imposta sui redditi più bassa d'Europa (9%) e ad un piano di privatizzazioni dai contorni non molto chiari, soprattutto nel settore energetico. Le imprese italiane (tra le quali A2A, Enel, Terna, Banca Intesa, Ferrovie dello Stato, Edison, Valtur, Todini) hanno fiutato l'affare e si sono subito fiondate. Un giro da 5 milioni di euro per privatizzare centrali, ferrovie ed elettrodotti, garantito dall'asse Djukanovic-Berlusconi, che considera il suo omologo un partner "amico" e "affidabilissimo". In cambio per Podgorica (che ha già adottato unilateralmente l'Euro come propria moneta) c'è l'ingresso nell'Ue e nella Nato. Nel frattempo una parte dei soldi arrivati dall'Italia per le privatizzazioni sono finiti sui conti della banca controllata dal fratello di Djukanovic.
Sull'argomento segnalo l'interessante reportage di Paolo Berizzi su Repubblica del 19 maggio (e ringrazio Beppe per la segnalazione).
Segnalo inoltre il pezzo di Matteo Zola su East Journal
La Procura di Bari, come anche quella di Napoli, aveva chiesto il suo arresto come capo di una cupola mafioso-finanziaria dedita al traffico internazionale di sigarette, droga, armi e responsabile della copertura di una quindicina di criminali. L'anno scorso però il fascicolo è stato archiviato: Djukanovic è un capo di governo straniero protetto dall'immunità e quindi non si può procedere. Anche i magistrati montenegrini hanno messo Djukanovic nel mirino: la suprema corte di Podgorica sta infatti indagando su nove omicidi di testimoni "scomodi" legati al contrabbando (nel 2004 in città fu ucciso anche il giovane direttore del quotidiano di opposizione Dan), con un indagine che pare stia guastando il sonno a molti alti papaveri.
Djukanovic ha deciso di fare del suo Paese una nuova Eldorado, attirando investimenti esteri grazie anche all'imposta sui redditi più bassa d'Europa (9%) e ad un piano di privatizzazioni dai contorni non molto chiari, soprattutto nel settore energetico. Le imprese italiane (tra le quali A2A, Enel, Terna, Banca Intesa, Ferrovie dello Stato, Edison, Valtur, Todini) hanno fiutato l'affare e si sono subito fiondate. Un giro da 5 milioni di euro per privatizzare centrali, ferrovie ed elettrodotti, garantito dall'asse Djukanovic-Berlusconi, che considera il suo omologo un partner "amico" e "affidabilissimo". In cambio per Podgorica (che ha già adottato unilateralmente l'Euro come propria moneta) c'è l'ingresso nell'Ue e nella Nato. Nel frattempo una parte dei soldi arrivati dall'Italia per le privatizzazioni sono finiti sui conti della banca controllata dal fratello di Djukanovic.
Sull'argomento segnalo l'interessante reportage di Paolo Berizzi su Repubblica del 19 maggio (e ringrazio Beppe per la segnalazione).
Segnalo inoltre il pezzo di Matteo Zola su East Journal
lunedì 24 maggio 2010
TURCHIA: IL PARTITO KEMALISTA SCEGLIE KEMAL
Kemal Kılıçdaroğlu è il nuovo leader del Chp, il Partito Repubblicano del Popolo, fondato da Kemal Atatürk ed erede della tradizione politica del padre della Turchia moderna. I delegati partecipanti al 33° congresso del partito - chiamati a sostituire Deniz Baykal travolto dallo scandalo del video a luci rosse - lo hanno eletto entusiasticamente al grido di "Kemal primo ministro". La candidatura di Kılıçdaroğlu, sostenuta dalla grande maggioranza dei delegati provinciali, dei deputati e soprattutto dall'onnipotente Önder Sav, segretario generale del partito e amico di Baykal da più di cinquant'anni, ha definitivamente stroncato il tentativo dello stesso Baykal di rientrare in gioco. Le sue dimissioni avevano lasciato nel partito un vuoto politico destinato a non essere riempito che dallo stesso Baykal. Ma di giorno in giorno questo scenario è apparso via via più illusorio, mentre ha cominciato ad imporsi la necessità di un cambiamento. Baykal è quello che perso quattro elezioni consecutive (1995, 1999, 2002, 2007) ed il primo responsabile del degrado dell'immagine del Chp presso l'opinione pubblica turca: in breve colui che da molti anni blocca il rinnovamento della sinistra turca. Per questo, l'arrivo del "Gandhi della Turchia", come è soprannominato Kılıçdaroğlu per via della sua somiglianza fisica e morale con il Mahatma, non riguarda solo la vita e gli equilibri interni del partito kemalista, ma è probabile che nei prossimi mesi avrà un peso nello sviluppo degli assetti dell'intera politica turca.
Sull'elezione di Kemal Kılıçdaroğlu al vertice del Chp e sui suoi effetti sulla politica in Turchia segnalo l'articolo apparso ieri sul blog dell'Observatoire del Vie Politique Turque diretto dal professor Jean Marcou.
Sull'elezione di Kemal Kılıçdaroğlu al vertice del Chp e sui suoi effetti sulla politica in Turchia segnalo l'articolo apparso ieri sul blog dell'Observatoire del Vie Politique Turque diretto dal professor Jean Marcou.
NOTIZIE DAI BALCANI
Qui di seguito il testo della corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda sabato 22 maggio a Radio Radicale.
Vertice Ue-Balcani Occidentali: Belgrado e Pristina vicine a partecipare al meeting di Sarajevo
Dopo diverse settimane di tentativi diplomatici per convincere Belgrado e Pristina che nessuna delle due parti non sara’ messa a rischio con la partecipazione dell’altro alla riunione ministeriale informale Balcani occidentali–Ue che si svolgera’ il prossimo 2 giugno a Sarajevo, le cose stanno arrivando al loro posto. Cosi’ scrive il quotidiano croato vicinissimo al governo di centro-destra ‘Vjesnik’ nella sua edizione di venerdi’. Il Ministero degli esteri serbo ha confermato che e’ arrivato l’invito per il summit di Sarajevo da parte della presidenza spagnola all’Ue e che questa data e’ stata inserita nel calendario del capo della diplomazia serba, Vuk Jeremic. Una simile conferma e’ arrivata anche da Pristina. L’invito al ministro kosovaro Skender Hiseni, e’ stato consegnato dal capo della delegazione della Commissione europea in Kosovo, Renzo Daviddi, a nome della Spagna poiche’ Madrid non ha relazioni diplomatiche con il Kosovo. L’invito a parteciparvi e’ arrivato anche al capo dell’UNMIK, Lamberto Zannier.
Nella sua lettera di invito, il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos ha scritto che la riunione ministeriale Balcani occidentali – Ue si svolgera’ secondo la formula Gymnich il che significa che i partecipanti saranno rappresentati soltanto con i loro nomi, senza quelli dello stato e senza simboli. L’invito al capo dell’UNMIK, Lamberto Zannier dovrebbe essere l’alibi perche’ il ministro serbo Jeremic possa mettersi a tavolo con il suo collega kosovaro Hiseni - scrive ‘Vjesnik’ - sara’ cosi’ il primo rappresentante serbo che si siedera’ con un rappresentante kosovaro in una sala che non e’ quella delle riunioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, da quando il Kosovo ha proclamato la sua indipendenza il 17 febbraio 2008. Invitando alcuni capi di missioni internazionali nei Balcani, la Spagna ha voluto evitare che la partecipazione di Zannier alla riunione di Sarajevo venga interpretata a Pristina come una negazione aperta dell’indipendenza del Kosovo, conclude ‘Vjesnik’.
Croazia: gli Usa all’Ue, "Zagabria ha soddisfatto le condizioni"
“Credo che la Croazia collabora veramente con il Tribunale dell’Aja e speriamo che i nostri amici europei arriveranno alla stessa conclusione. Le indagini relative ai cosidetti diari di artiglieria sono serie, degne di fiducia e hanno portato finora a risultati impressionanti, quindi bisogna continuare ad indagare sulla sorte dei documenti scomparsi”. Con queste parole l’ambasciatore americano in Croazia, James Foley ha illustrato la posizione degli Stati Uniti relativa “al problema di tutti i problemi”, vale a dire la cooperazione di Zagabria con l’Aja e la questione dei documenti ricercati che riguardano l’operazione militare croata ‘Tempesta’. Foley ha fatto queste dichazioni a seguito del suo intervento alla Scuola di economia e management di Zagabria e in vista dell’arrivo del procuratore generale del Tpi, Serge Brammertz, annunciato per il prossimo 25 maggio. L’ambasicatore statunitense ha comunque avvertito che se le autorita’ croate non riusciranno a convincere Brammertz di aver fatto tutto per trovare i diari di artiglieria, il proseguimento e la dinamica dei negoziati di adesione croati con l’Ue potrebbero essere notevolmente rallentati. “Il capitolo 23 – Giustizia e diritti fondamentali, include molti punti – le riforme del sistema giudiziario, rapporti con le minoranze, crimini di guerra, rientro di profughi. In tutti questi settori la Croazia ha raggiunto un successo significativo e questo riguarda anche la cooperazione con il Tribunale internazionale per i crimini di guerra in ex Jugoslavia” ha detto Foley. Il diplomatico americano ha ricordato il ruolo molto attivo della diplomazia statunitense per quanto riguarda lo sblocco sloveno dei negoziati croati di adesione e ha sottolineato che il suo Paese ha insistito sulla ricerca di una soluzione che alla fine e’ stata raggiunta ed e’ stato firmato l’Accordo di arbitrato. Il sostegno americano all’ingresso della Croazia nell’Ue, afferma Foley, verra’ ribadito fortemente anche dal vicepresidente americano Joe Biden al suo prossimo incontro con la premier croata Jadranka Kosor nella Casa Bianca. Foley ha sottolineato che questa sara’ una occasione eccezionale per dimostrare che gli Stati Uniti appoggiano la Croazia nella lotta alla corruzione, nelle riforme economiche nonche’ nella sua vicina adesione all’Ue e prima ancora nella rapida conclusione del processo negoziale. L’ambasciatore americano si e’ detto fiducioso che quest’ultimo potra’ accadere entro la fine dell’anno.
Secondo l’amasciatore Foley, l’interessamento per la situazione nei Balcani, in particolare quello relativo alla BiH e’ una priorita’ dell’attuale amministrazione statunitense che a differenza di quella precedente la quale aveva le “sue sfide”, presta maggiore attenzione a questa parte d’Europa. Non c’e’ dubbio che l’ingresso nella Nato ha riposizionato la Croazia e rafforzato i collegamenti del Paese con gli Stati Uniti. “Alla Croazia guardiamo come ad un alleato e questo e’ il punto chiave della nostra politica nella regione. Desideriamo la Croazia nell’Ue perche’ e’ importante che le porte siano aperte anche per gli altri paesi” conclude l’ambasciatore amricano in Croazia, James Foley.
Bosnia: la Republika Srpska vuole la chiusura dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante Internazionale
Il governo della Republika Srpska, l’entita’ a maggioranza serba della BiH, giovedi’ ha inviato una lettera al Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedendo che sia presa al piu’ presto la decisione sulla chiusura dell’Ufficio dell’Alto rappresentante per la BiH (OHR). Si tratta di una iniziativa portata avanti autonomamente rispetto agli altri soggetti del Paese ed e’ una dimostrazione in piu’ dell’alta tensione che esiste da lungo tempo tra la leadership della RS e l’Alto rappresentante per la BiH il quale molto spesso si e’ pronuncito con forte criticismo sulla politica della RS, soprattutto per quanto riguarda le costanti minacce di secessione di questa entita’ dalla BiH. La lettera e’ stata inviata in vista dell’annunciata riunione del Consiglio di Sicurezza in calendario per il prossimo 24 maggio alla quale si dovrebbe discutere della situazione in questo Paese. Le basi per questo dibattito a nome della BiH deve preparare la presidenza statale poiche’ e’ l’unica – secondo la Costituzione – incaricata a condurre la politica estera. Ma il governo guidato da Milorad Dodik e’ andato oltre le proprie competenze decidendo di influenzare il dibattito in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il governo di Banja Luka – vale a dire Dodik ed i suoi ministri - si vantano di poter anche loro, in quanto “rappresentanti di una parte – firmataria dell’Accordo di Dayton” inoltrare all’Onu una loro opinione sulla situazione nel Paese. Nel comunicato si legge che la RS vuole promuovere il progresso raggiunto in BiH e al tempo stesso punta sul fatto che l’Alto rappresentante continua a dare “ordini esecutivi che in modo eccessivo oltrepassano il suo mandato legale stabilito dall’Accordo di Dayton”. Il governo della RS afferma che “un tale comportamento dell’Alto rappresentante viola i diritti umani e democratici garantiti dalla Costituzione della BiH”. Il governo della RS ammette pero’ che non sono ancora soddisfatte le condizioni per chiudere l’OHR stabilite un anno e mezzo fa dalla comunita’ internazionale ma afferma che questo e’ esclusivamente responsabilita’ dei maggiori partiti politici bosgnacchi che – dicono - rifiutano i possibili compromessi.
Bosnia: la Serbia sostiene fortemente la Republika Srpska
Cosi’ i media serbi commentano le relazioni tra la Serbia e l’entita’ a maggioranza serba della BiH. Il prossimo 25 maggio, l’attuale presidente di turno della Presidenza della BiH, Haris Silajdzic visitera’ Belgrado, ma come ha sottolineato il presidente della Serbia, Boris Tadic, dopo il suo incontro ieri con il premier della RS Milorad Dodik, questa visita sara’ del tutto inufficiale.
Tadic ha rilevato che la riunione con il rappresentante bosgnacco sara’ la continuazione delle attivita’ politiche della Serbia nella regione. Anche se il premier della RS Dodik prima del suo incontro con Tadic ha detto che la RS considera la recente dichiarazione di Istanbul invalida perche’ firmata da Silajdzic a nome della BiH senza precedenti consultazioni con gli altri due membri della Presidenza tripartita, Tadic afferma che questo tema non e’ stato oggetto di discussione e ha precisato che “non abbiamo sempre stesse opinioni relative a tutte le questioni perche’ Dodik ha le sue competenze nella RS, e io le mie in Serbia. Ma la Serbia appoggia sempre fortemente la RS” ha detto Tadic.
Quanto alle parole del premier della RS, e’ stato concordato che il prossimo 8 giugno a Banja Luka, capoluogo della RS, si svolgera’ la riunione del Consiglio per l’attuazione dell’accordo sulle relazioni speciali e parallele tra la RS e la Serbia. Si e’ parlato inoltre della cooperazione in cinque settori energetici e di altri questioni economiche. Con il presidente Boris Tadic – ha aggiunto Dodik – si e’ parlato anche della prossima riunione ministeriale di Sarajevo. Dodik ha detto che l’annunciata partecipazione anche della Turchia, Russia e Stati Uniti oltre all’Ue e i Paesi della regione, significa che questo summit riceve nuove dimensioni. Dodik si aspetta che a questa riunione sara’ annunciata l’abolizione dei visti per i cittadini della BiH e ha concluso che sia la BiH che la Serbia attendono di diventare presto parte dell’Ue.
Vertice Ue-Balcani Occidentali: Belgrado e Pristina vicine a partecipare al meeting di Sarajevo
Dopo diverse settimane di tentativi diplomatici per convincere Belgrado e Pristina che nessuna delle due parti non sara’ messa a rischio con la partecipazione dell’altro alla riunione ministeriale informale Balcani occidentali–Ue che si svolgera’ il prossimo 2 giugno a Sarajevo, le cose stanno arrivando al loro posto. Cosi’ scrive il quotidiano croato vicinissimo al governo di centro-destra ‘Vjesnik’ nella sua edizione di venerdi’. Il Ministero degli esteri serbo ha confermato che e’ arrivato l’invito per il summit di Sarajevo da parte della presidenza spagnola all’Ue e che questa data e’ stata inserita nel calendario del capo della diplomazia serba, Vuk Jeremic. Una simile conferma e’ arrivata anche da Pristina. L’invito al ministro kosovaro Skender Hiseni, e’ stato consegnato dal capo della delegazione della Commissione europea in Kosovo, Renzo Daviddi, a nome della Spagna poiche’ Madrid non ha relazioni diplomatiche con il Kosovo. L’invito a parteciparvi e’ arrivato anche al capo dell’UNMIK, Lamberto Zannier.
Nella sua lettera di invito, il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos ha scritto che la riunione ministeriale Balcani occidentali – Ue si svolgera’ secondo la formula Gymnich il che significa che i partecipanti saranno rappresentati soltanto con i loro nomi, senza quelli dello stato e senza simboli. L’invito al capo dell’UNMIK, Lamberto Zannier dovrebbe essere l’alibi perche’ il ministro serbo Jeremic possa mettersi a tavolo con il suo collega kosovaro Hiseni - scrive ‘Vjesnik’ - sara’ cosi’ il primo rappresentante serbo che si siedera’ con un rappresentante kosovaro in una sala che non e’ quella delle riunioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, da quando il Kosovo ha proclamato la sua indipendenza il 17 febbraio 2008. Invitando alcuni capi di missioni internazionali nei Balcani, la Spagna ha voluto evitare che la partecipazione di Zannier alla riunione di Sarajevo venga interpretata a Pristina come una negazione aperta dell’indipendenza del Kosovo, conclude ‘Vjesnik’.
Croazia: gli Usa all’Ue, "Zagabria ha soddisfatto le condizioni"
“Credo che la Croazia collabora veramente con il Tribunale dell’Aja e speriamo che i nostri amici europei arriveranno alla stessa conclusione. Le indagini relative ai cosidetti diari di artiglieria sono serie, degne di fiducia e hanno portato finora a risultati impressionanti, quindi bisogna continuare ad indagare sulla sorte dei documenti scomparsi”. Con queste parole l’ambasciatore americano in Croazia, James Foley ha illustrato la posizione degli Stati Uniti relativa “al problema di tutti i problemi”, vale a dire la cooperazione di Zagabria con l’Aja e la questione dei documenti ricercati che riguardano l’operazione militare croata ‘Tempesta’. Foley ha fatto queste dichazioni a seguito del suo intervento alla Scuola di economia e management di Zagabria e in vista dell’arrivo del procuratore generale del Tpi, Serge Brammertz, annunciato per il prossimo 25 maggio. L’ambasicatore statunitense ha comunque avvertito che se le autorita’ croate non riusciranno a convincere Brammertz di aver fatto tutto per trovare i diari di artiglieria, il proseguimento e la dinamica dei negoziati di adesione croati con l’Ue potrebbero essere notevolmente rallentati. “Il capitolo 23 – Giustizia e diritti fondamentali, include molti punti – le riforme del sistema giudiziario, rapporti con le minoranze, crimini di guerra, rientro di profughi. In tutti questi settori la Croazia ha raggiunto un successo significativo e questo riguarda anche la cooperazione con il Tribunale internazionale per i crimini di guerra in ex Jugoslavia” ha detto Foley. Il diplomatico americano ha ricordato il ruolo molto attivo della diplomazia statunitense per quanto riguarda lo sblocco sloveno dei negoziati croati di adesione e ha sottolineato che il suo Paese ha insistito sulla ricerca di una soluzione che alla fine e’ stata raggiunta ed e’ stato firmato l’Accordo di arbitrato. Il sostegno americano all’ingresso della Croazia nell’Ue, afferma Foley, verra’ ribadito fortemente anche dal vicepresidente americano Joe Biden al suo prossimo incontro con la premier croata Jadranka Kosor nella Casa Bianca. Foley ha sottolineato che questa sara’ una occasione eccezionale per dimostrare che gli Stati Uniti appoggiano la Croazia nella lotta alla corruzione, nelle riforme economiche nonche’ nella sua vicina adesione all’Ue e prima ancora nella rapida conclusione del processo negoziale. L’ambasciatore americano si e’ detto fiducioso che quest’ultimo potra’ accadere entro la fine dell’anno.
Secondo l’amasciatore Foley, l’interessamento per la situazione nei Balcani, in particolare quello relativo alla BiH e’ una priorita’ dell’attuale amministrazione statunitense che a differenza di quella precedente la quale aveva le “sue sfide”, presta maggiore attenzione a questa parte d’Europa. Non c’e’ dubbio che l’ingresso nella Nato ha riposizionato la Croazia e rafforzato i collegamenti del Paese con gli Stati Uniti. “Alla Croazia guardiamo come ad un alleato e questo e’ il punto chiave della nostra politica nella regione. Desideriamo la Croazia nell’Ue perche’ e’ importante che le porte siano aperte anche per gli altri paesi” conclude l’ambasciatore amricano in Croazia, James Foley.
Bosnia: la Republika Srpska vuole la chiusura dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante Internazionale
Il governo della Republika Srpska, l’entita’ a maggioranza serba della BiH, giovedi’ ha inviato una lettera al Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedendo che sia presa al piu’ presto la decisione sulla chiusura dell’Ufficio dell’Alto rappresentante per la BiH (OHR). Si tratta di una iniziativa portata avanti autonomamente rispetto agli altri soggetti del Paese ed e’ una dimostrazione in piu’ dell’alta tensione che esiste da lungo tempo tra la leadership della RS e l’Alto rappresentante per la BiH il quale molto spesso si e’ pronuncito con forte criticismo sulla politica della RS, soprattutto per quanto riguarda le costanti minacce di secessione di questa entita’ dalla BiH. La lettera e’ stata inviata in vista dell’annunciata riunione del Consiglio di Sicurezza in calendario per il prossimo 24 maggio alla quale si dovrebbe discutere della situazione in questo Paese. Le basi per questo dibattito a nome della BiH deve preparare la presidenza statale poiche’ e’ l’unica – secondo la Costituzione – incaricata a condurre la politica estera. Ma il governo guidato da Milorad Dodik e’ andato oltre le proprie competenze decidendo di influenzare il dibattito in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il governo di Banja Luka – vale a dire Dodik ed i suoi ministri - si vantano di poter anche loro, in quanto “rappresentanti di una parte – firmataria dell’Accordo di Dayton” inoltrare all’Onu una loro opinione sulla situazione nel Paese. Nel comunicato si legge che la RS vuole promuovere il progresso raggiunto in BiH e al tempo stesso punta sul fatto che l’Alto rappresentante continua a dare “ordini esecutivi che in modo eccessivo oltrepassano il suo mandato legale stabilito dall’Accordo di Dayton”. Il governo della RS afferma che “un tale comportamento dell’Alto rappresentante viola i diritti umani e democratici garantiti dalla Costituzione della BiH”. Il governo della RS ammette pero’ che non sono ancora soddisfatte le condizioni per chiudere l’OHR stabilite un anno e mezzo fa dalla comunita’ internazionale ma afferma che questo e’ esclusivamente responsabilita’ dei maggiori partiti politici bosgnacchi che – dicono - rifiutano i possibili compromessi.
Bosnia: la Serbia sostiene fortemente la Republika Srpska
Cosi’ i media serbi commentano le relazioni tra la Serbia e l’entita’ a maggioranza serba della BiH. Il prossimo 25 maggio, l’attuale presidente di turno della Presidenza della BiH, Haris Silajdzic visitera’ Belgrado, ma come ha sottolineato il presidente della Serbia, Boris Tadic, dopo il suo incontro ieri con il premier della RS Milorad Dodik, questa visita sara’ del tutto inufficiale.
Tadic ha rilevato che la riunione con il rappresentante bosgnacco sara’ la continuazione delle attivita’ politiche della Serbia nella regione. Anche se il premier della RS Dodik prima del suo incontro con Tadic ha detto che la RS considera la recente dichiarazione di Istanbul invalida perche’ firmata da Silajdzic a nome della BiH senza precedenti consultazioni con gli altri due membri della Presidenza tripartita, Tadic afferma che questo tema non e’ stato oggetto di discussione e ha precisato che “non abbiamo sempre stesse opinioni relative a tutte le questioni perche’ Dodik ha le sue competenze nella RS, e io le mie in Serbia. Ma la Serbia appoggia sempre fortemente la RS” ha detto Tadic.
Quanto alle parole del premier della RS, e’ stato concordato che il prossimo 8 giugno a Banja Luka, capoluogo della RS, si svolgera’ la riunione del Consiglio per l’attuazione dell’accordo sulle relazioni speciali e parallele tra la RS e la Serbia. Si e’ parlato inoltre della cooperazione in cinque settori energetici e di altri questioni economiche. Con il presidente Boris Tadic – ha aggiunto Dodik – si e’ parlato anche della prossima riunione ministeriale di Sarajevo. Dodik ha detto che l’annunciata partecipazione anche della Turchia, Russia e Stati Uniti oltre all’Ue e i Paesi della regione, significa che questo summit riceve nuove dimensioni. Dodik si aspetta che a questa riunione sara’ annunciata l’abolizione dei visti per i cittadini della BiH e ha concluso che sia la BiH che la Serbia attendono di diventare presto parte dell’Ue.
giovedì 20 maggio 2010
IL RAPPORTO ONU SULLA SITUAZIONE IN KOSOVO VISTO DALLA SERBIA
Lunedì scorso il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha presentato al Consiglio di sicurezza il rapporto semestrale sulla situazione in Kosovo. L'impressione è che il Consiglio resta diviso sulla questione: alcuni Paesi attendono la decisione della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite che entro l’anno dovrebbe emettere il proprio verdetto sulla legittimita' dell’indipendenza proclamata unilateralmente dai kosovari albanesi nel febbraio 2008, mentre i Paesi che hanno gia’ riconosciuto il Kosovo chiedono a Belgrado e Pristina di trovare una soluzione sulle questioni tecniche e, in particolare, di essere presenti entrambi con i propri rappresentanti insieme a tutti gli altri Paesi della regione all’importante conferenza ministeriale Ue-Balcani che si svolgera’ il prossimo 2 giugno a Sarajevo. Qui di seguito la trascrizione della corrispondenza di Marina Szikora per lo Speciale di Passaggio a Sud Est andato in onda ieri sera a Radio Radicale dedicato alla situazione in Kosovo alla luce del rapporto semestrale del Segretario generale delle Nazioni Unite.
«Due anni dopo la proclamazione dell'indipendenza, in Kosovo non e' ancora iniziato il processo di vera riconciliazione. Ma questo, nonche' la grave situazione economica, continua ad essere soltanto una parte del problema per l'amministrazione delle Nazioni Unite (UNMIK)» ha detto tra l'altro martedi' Lamberto Zanier, rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu Ban Ki-Moon in occasione della presentazione del rapporto semestrale del segretario generale sul Kosovo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite lunedi'. Rivolgendosi ai paesi membri del Consiglio di Sicurezza, Zanier ha spiegato che la situazione in Kosovo resta relativamente stabile anche se al nord vi e' ancora un potenziale per le violenze e avverte che la mancanza del processo di riconciliazione «oltre alle difficolta' economiche, rappresenta anche un rischio per i disordini sociali». Ma Belgrado e' critica e in rappresentanza del capo della diplomazia serba, Vuk Jeremic, partecipa al dibattito aperto del Consiglio di sicurezza puntando citicamente su alcuni aspetti dell'illustrazione della situazione in Kosovo da parte di Ban Ki Moon.
«Purtroppo questo rapporto trascura un numero di crescenti sfide, dalla criminalita' organizzata e corruzione, all'inadeguato lavoro della polizia fino all'infunzionalita' della giustizia in Kosovo» ha detto Jeremic. Secondo il ministro degli esteri della Serbia, l'ultimo rapporto della Commissione europea ha offerto un'immagine molto piu' reale della realta' kosovara di quella del segreatario generale dell'Onu nel suo rapporto. In piu', per la prima volta, il ministro serbo ha tirato fuori una offerta di, come lo ha qualificato, «compromesso strategico». Una proposta che comunque e' gia' stata giudicata inaccettabile, anche se le sue parole sono state accolte come nuove e pragmatiche. Per alcuni, si tratta invece di aperte ingerenze della Serbia nelle questioni interne dei paesi confinanti e si avverte sul tentativo di Belgrado di sollecitare la divisione del Kosovo.
«Voglio convincere il Consiglio di sicurezza che la Serbia resta pronta ad impegnarsi flessibilmente e sinceramente nella nostra intenzione che non e' quella di congelare il conflitto, di trionfare o di metterlo sotto controllo» ha detto Jeremic a New York aggiungendo che «la soluzione e' nel dialogo e non nell'unilateralismo». Con queste parole, il capo della diplomazia serba ha cercato di spiegare per la 'Deutsche welle' tedesca la proposta della Serbia che lo stesso Jeremic ha definito come «compromesso strategico».
Nonostante gli eventi negativi in Kosovo, stanno arrivando i tempi che promettono di piu', ha detto Jeremic al Palazzo di Vetro e si e' detto convinto che il parere consultativo della Corte internazionale di Giustizia sara' una occasione senza precedenti per raggiungere il compromesso strategico tra serbi ed albanesi. Jeremic ha aggiunto che quest'anno potrebbe essere l'anno del comune successo e ha ricordato che la Corte tra breve prendera' la decisione sull'autoproclamata indipendenza del Kosovo. «E' un fatto che tutti siamo obbligati ad accogliere seriamente. Ai giudici dovrebbe essere acconsentito di compiere il loro lavoro senza pressioni politiche quali i nuovi riconoscimenti dell'indipendenza unilaterale, ha rilevato Jeremic. Il ministro degli esteri serbo ha puntato sul fatto che la maggioranza dei membri dell'Onu e del Consiglio di Sicurezza si oppone fermamente ad una divisione forzata della Serbia e ha ripetuto la posizione di Belgrado che non riconoscera' mai l'indipendenza di Pristina. Quanto alla situazione sul terreno, Jeremic ha indicato che e' di importanza cruciale che il Consiglio di Sicurezza continui ad appoggiare l'UNMIK come «il pilastro principale di pace e sicurezza» nella regione. «Noi apprezziamo molto l'aproccio costruttivo dell'Unmik e delle organizzazioni che operano sotto la sua autorita' come l'Eulex» ha detto il ministro serbo sottolineando che i disaccordi sullo status non possono ostacolare la soluzione di questioni pratiche. Jeremic ha avvertito che il rapporto del segretario generale dell'Onu diminuisce la serieta' delle crescenti sfide in Kosovo puntando sulla realta' che nel corso dello scorso anno soltanto alcune centinaia di serbi kosovari sono tornati alle loro case.
Il capo della diplomazia serba, scrivono in questi giorni i media serbi, ha dichiarato che e' stato raggiunto l'accordo che le autorita' di Pristina saranno rappresentate alla conferenza regionale di Sarajevo, in calendario il prossimo 2 giugno, in base alla Risoluzione 1244 insieme alla missione ONU – l'UNMIK. Ma il presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiju replica che Pristina sara' presente soltanto se i partecipanti saranno rappresentati con i pieni simboli statali. Fatmir Sejdiu, altrettanto presente a New York, ha replicato che «sicuramente non ci sara' ritorno al tavolo negoziale sullo status del Kosovo» e ha rigettato categoricamente ogni tipo di divisione del Kosovo.
A favore di questa posizione anche gli Stati Uniti che nel Consiglio di Sicurezza, per voce dell'ambasciatrice americana Bruck Anderson, hanno ribadito che i confini kosovari sono stabiliti e non verranno cambiati. Lo stesso vale per l'indipendenza del Kosovo che e' un processo dal quale non c'e' ritorno, ha detto la rappresentante degli Stati Uniti. La diplomatica americana ha plaudito il governo di Pristina per «i risultati finora conseguiti nella transizione democratica delle sue istituzioni» che, come ha valutato, «nonostante i problemi continuano a progredire». La Anderson ha sottolineato che «il processo di riconoscimento del Kosovo continua e che dall'ultimo rapporto semestrale presentato al Consiglio di Sicurezza, Pristina e' stata riconosciuta da nuovi quattro stati.
C'e' da sottolineare che i diplomatici internazionali ed europeei a Bruxelles hanno valutato che la nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu ed i negoziati sullo status del Kosovo in base al parere della Corte internazionale di Giustizia sono difficilmente realizzabili cosi' come la divisione del Kosovo poiche', allo stato attuale, ne sono contrari i paesi mondiali influenti.
Alla riunione del Consiglio di Sicurezza sulla situazione del Kosovo, Cina e Russia hanno valutato che la situazione in Kosovo resta complessa e si sono impeganti affinche' il ruolo principale nella regione resti nelle mani dell'UNMIK. Secondo l'ambasciatore russo alle Nazioni Unite la situazione in Kosovo provoca preoccupazione e sottolinea che l'Onu deve avere un ruolo chiave in Kosovo condividendo al tempo stesso l'opinione del ministro degli esteri serbo e ribadendo che Mosca non accetta l'indipendenza unilaterale di Pristina. Il rappresentante permanente russo ha ricordato che la Risoluzione 1244 e' ancora in vigore e che nessuno puo' sostituire l'UNMIK nella missione di stabilire gli standard internazionali. Ha criticato la Nato perche' ha trasferito la responsabilita' per salvaguardare i monumenti serbi culturali e sacrali in Kosovo alla polizia kosovara ricordando che l'Eulex puo' operare soltanto in base alla Risoluzione ONU sul Kosovo.
Anche il rappresentante della Cina ha valutato che la situazione in Kosovo e' complessa e delicata ma che le cose restano generalmente stabili, grazie alla presenza dell'UNMIK. L'ambasciatore cinese ha invitato i membri dell'Onu di appoggiare l'UNMIK e ha ribadito che Pechino rispetta l'integrita' territoriale della Serbia e che i problemi devono essere risolti in base alla Carta delle Nazioni Unite.
«L'indipendenza del Kosovo proclamata unilateralmente e' la piu' grande minaccia alla sicurezza della Serbia», afferma in questi giorni il comandante dell'esercito della Serbia, il generale Miloje Miletic. Come riportato dall'emittente B92, il generale Miletic avverte che il territorio del Kosovo e' una forte base di criminalita' organizzata e questo rappresenta la piu' grande sfida per la Serbia. Secondo le sue parole, «le esperienze fino ad adesso hanno dimostrato che ogni instabilita' in Kosovo si riflette indirettamente sulla sicurezza dell'intera regione, e in particolare al sud della Serbia centrale». L'esercito serbo e' pronto per un tale scenario e ha sufficienti capacita' ad assicurere la pace sul territorio, assicura Miletic e alla domanda se si aspettano nuove ondate di violenze in Kosovo dopo la decisione della Corte internazionale di Giustizia, risponde che le minacce con violenza sono «un metodo gia' sperimentato che gli albanesi utilizzano per fare pressione sulla comunita' internazionale. «Se la decisione della corte non soddisfera' i loro interessi, e io spero sinceramente di no, ci puo' essere destabilizzazione e violenze. Ho le garanzie da parte del comandante della Kfor che le forze delle Nazioni Unite dispiegate in Kosovo ostacoleranno questi tentativi» ha detto il comandante dell'esercito serbo. Parlando della sua recente visita negli Stati Uniti, Miletic ha detto che non ci sono state pressioni affinche' Belgrado cambi posizione sull'eventuale adesione della Serbia alla NATO ma ha aggiunto che la proclamata neutralita' non e' un problema per la cooperazione con gli Stati Uniti o altri paesi membri della Nato.
«Due anni dopo la proclamazione dell'indipendenza, in Kosovo non e' ancora iniziato il processo di vera riconciliazione. Ma questo, nonche' la grave situazione economica, continua ad essere soltanto una parte del problema per l'amministrazione delle Nazioni Unite (UNMIK)» ha detto tra l'altro martedi' Lamberto Zanier, rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu Ban Ki-Moon in occasione della presentazione del rapporto semestrale del segretario generale sul Kosovo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite lunedi'. Rivolgendosi ai paesi membri del Consiglio di Sicurezza, Zanier ha spiegato che la situazione in Kosovo resta relativamente stabile anche se al nord vi e' ancora un potenziale per le violenze e avverte che la mancanza del processo di riconciliazione «oltre alle difficolta' economiche, rappresenta anche un rischio per i disordini sociali». Ma Belgrado e' critica e in rappresentanza del capo della diplomazia serba, Vuk Jeremic, partecipa al dibattito aperto del Consiglio di sicurezza puntando citicamente su alcuni aspetti dell'illustrazione della situazione in Kosovo da parte di Ban Ki Moon.
«Purtroppo questo rapporto trascura un numero di crescenti sfide, dalla criminalita' organizzata e corruzione, all'inadeguato lavoro della polizia fino all'infunzionalita' della giustizia in Kosovo» ha detto Jeremic. Secondo il ministro degli esteri della Serbia, l'ultimo rapporto della Commissione europea ha offerto un'immagine molto piu' reale della realta' kosovara di quella del segreatario generale dell'Onu nel suo rapporto. In piu', per la prima volta, il ministro serbo ha tirato fuori una offerta di, come lo ha qualificato, «compromesso strategico». Una proposta che comunque e' gia' stata giudicata inaccettabile, anche se le sue parole sono state accolte come nuove e pragmatiche. Per alcuni, si tratta invece di aperte ingerenze della Serbia nelle questioni interne dei paesi confinanti e si avverte sul tentativo di Belgrado di sollecitare la divisione del Kosovo.
«Voglio convincere il Consiglio di sicurezza che la Serbia resta pronta ad impegnarsi flessibilmente e sinceramente nella nostra intenzione che non e' quella di congelare il conflitto, di trionfare o di metterlo sotto controllo» ha detto Jeremic a New York aggiungendo che «la soluzione e' nel dialogo e non nell'unilateralismo». Con queste parole, il capo della diplomazia serba ha cercato di spiegare per la 'Deutsche welle' tedesca la proposta della Serbia che lo stesso Jeremic ha definito come «compromesso strategico».
Nonostante gli eventi negativi in Kosovo, stanno arrivando i tempi che promettono di piu', ha detto Jeremic al Palazzo di Vetro e si e' detto convinto che il parere consultativo della Corte internazionale di Giustizia sara' una occasione senza precedenti per raggiungere il compromesso strategico tra serbi ed albanesi. Jeremic ha aggiunto che quest'anno potrebbe essere l'anno del comune successo e ha ricordato che la Corte tra breve prendera' la decisione sull'autoproclamata indipendenza del Kosovo. «E' un fatto che tutti siamo obbligati ad accogliere seriamente. Ai giudici dovrebbe essere acconsentito di compiere il loro lavoro senza pressioni politiche quali i nuovi riconoscimenti dell'indipendenza unilaterale, ha rilevato Jeremic. Il ministro degli esteri serbo ha puntato sul fatto che la maggioranza dei membri dell'Onu e del Consiglio di Sicurezza si oppone fermamente ad una divisione forzata della Serbia e ha ripetuto la posizione di Belgrado che non riconoscera' mai l'indipendenza di Pristina. Quanto alla situazione sul terreno, Jeremic ha indicato che e' di importanza cruciale che il Consiglio di Sicurezza continui ad appoggiare l'UNMIK come «il pilastro principale di pace e sicurezza» nella regione. «Noi apprezziamo molto l'aproccio costruttivo dell'Unmik e delle organizzazioni che operano sotto la sua autorita' come l'Eulex» ha detto il ministro serbo sottolineando che i disaccordi sullo status non possono ostacolare la soluzione di questioni pratiche. Jeremic ha avvertito che il rapporto del segretario generale dell'Onu diminuisce la serieta' delle crescenti sfide in Kosovo puntando sulla realta' che nel corso dello scorso anno soltanto alcune centinaia di serbi kosovari sono tornati alle loro case.
Il capo della diplomazia serba, scrivono in questi giorni i media serbi, ha dichiarato che e' stato raggiunto l'accordo che le autorita' di Pristina saranno rappresentate alla conferenza regionale di Sarajevo, in calendario il prossimo 2 giugno, in base alla Risoluzione 1244 insieme alla missione ONU – l'UNMIK. Ma il presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiju replica che Pristina sara' presente soltanto se i partecipanti saranno rappresentati con i pieni simboli statali. Fatmir Sejdiu, altrettanto presente a New York, ha replicato che «sicuramente non ci sara' ritorno al tavolo negoziale sullo status del Kosovo» e ha rigettato categoricamente ogni tipo di divisione del Kosovo.
A favore di questa posizione anche gli Stati Uniti che nel Consiglio di Sicurezza, per voce dell'ambasciatrice americana Bruck Anderson, hanno ribadito che i confini kosovari sono stabiliti e non verranno cambiati. Lo stesso vale per l'indipendenza del Kosovo che e' un processo dal quale non c'e' ritorno, ha detto la rappresentante degli Stati Uniti. La diplomatica americana ha plaudito il governo di Pristina per «i risultati finora conseguiti nella transizione democratica delle sue istituzioni» che, come ha valutato, «nonostante i problemi continuano a progredire». La Anderson ha sottolineato che «il processo di riconoscimento del Kosovo continua e che dall'ultimo rapporto semestrale presentato al Consiglio di Sicurezza, Pristina e' stata riconosciuta da nuovi quattro stati.
C'e' da sottolineare che i diplomatici internazionali ed europeei a Bruxelles hanno valutato che la nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu ed i negoziati sullo status del Kosovo in base al parere della Corte internazionale di Giustizia sono difficilmente realizzabili cosi' come la divisione del Kosovo poiche', allo stato attuale, ne sono contrari i paesi mondiali influenti.
Alla riunione del Consiglio di Sicurezza sulla situazione del Kosovo, Cina e Russia hanno valutato che la situazione in Kosovo resta complessa e si sono impeganti affinche' il ruolo principale nella regione resti nelle mani dell'UNMIK. Secondo l'ambasciatore russo alle Nazioni Unite la situazione in Kosovo provoca preoccupazione e sottolinea che l'Onu deve avere un ruolo chiave in Kosovo condividendo al tempo stesso l'opinione del ministro degli esteri serbo e ribadendo che Mosca non accetta l'indipendenza unilaterale di Pristina. Il rappresentante permanente russo ha ricordato che la Risoluzione 1244 e' ancora in vigore e che nessuno puo' sostituire l'UNMIK nella missione di stabilire gli standard internazionali. Ha criticato la Nato perche' ha trasferito la responsabilita' per salvaguardare i monumenti serbi culturali e sacrali in Kosovo alla polizia kosovara ricordando che l'Eulex puo' operare soltanto in base alla Risoluzione ONU sul Kosovo.
Anche il rappresentante della Cina ha valutato che la situazione in Kosovo e' complessa e delicata ma che le cose restano generalmente stabili, grazie alla presenza dell'UNMIK. L'ambasciatore cinese ha invitato i membri dell'Onu di appoggiare l'UNMIK e ha ribadito che Pechino rispetta l'integrita' territoriale della Serbia e che i problemi devono essere risolti in base alla Carta delle Nazioni Unite.
«L'indipendenza del Kosovo proclamata unilateralmente e' la piu' grande minaccia alla sicurezza della Serbia», afferma in questi giorni il comandante dell'esercito della Serbia, il generale Miloje Miletic. Come riportato dall'emittente B92, il generale Miletic avverte che il territorio del Kosovo e' una forte base di criminalita' organizzata e questo rappresenta la piu' grande sfida per la Serbia. Secondo le sue parole, «le esperienze fino ad adesso hanno dimostrato che ogni instabilita' in Kosovo si riflette indirettamente sulla sicurezza dell'intera regione, e in particolare al sud della Serbia centrale». L'esercito serbo e' pronto per un tale scenario e ha sufficienti capacita' ad assicurere la pace sul territorio, assicura Miletic e alla domanda se si aspettano nuove ondate di violenze in Kosovo dopo la decisione della Corte internazionale di Giustizia, risponde che le minacce con violenza sono «un metodo gia' sperimentato che gli albanesi utilizzano per fare pressione sulla comunita' internazionale. «Se la decisione della corte non soddisfera' i loro interessi, e io spero sinceramente di no, ci puo' essere destabilizzazione e violenze. Ho le garanzie da parte del comandante della Kfor che le forze delle Nazioni Unite dispiegate in Kosovo ostacoleranno questi tentativi» ha detto il comandante dell'esercito serbo. Parlando della sua recente visita negli Stati Uniti, Miletic ha detto che non ci sono state pressioni affinche' Belgrado cambi posizione sull'eventuale adesione della Serbia alla NATO ma ha aggiunto che la proclamata neutralita' non e' un problema per la cooperazione con gli Stati Uniti o altri paesi membri della Nato.
mercoledì 19 maggio 2010
IN KOSOVO CI SONO ANCHE I CROATI
In Kosovo non ci sono solo albanesi e serbi. Ci sono anche croati. Non molti per la verità: sono 55, in maggioranza anziani, cattolici, e vivono tutti nel villaggio di Letnica. Ne ha scritto il 12 maggio scorso Matteo Zola su East Journal, un blog interessante che vi consiglio di seguire se vi interessa la situazione dell'Europa orientale e sud-orientale.
I 55 croati kosovari hanno visto insediarsi numerosi albanesi nella loro zona e stanno rapidamente diventando una "specie in via di estinzione", a causa anche del sostanziale disinteresse della polizia locale, ma anche delle pattuglie americane che presidiano l'area. Scrive Matteo Zola che di qui a pochi anni i croati di Letnica, eredi di una storia plurisecolare, saranno scomparsi.
La cosa appare singolare perché i croati di Letnica non rappresentano alcun pericolo per i nazionalisti albanesi. Il motivo forse però è un altro. Il villaggio, infatti, si trova a qualche ora di cammino da Brest, altro villaggio isolato ma sulla montagna macedone, zona al centro di traffici di armi e droga, a cavallo di una frontiera "controllata", evidentemente in maniera molto morbida dall’esercito americano.
I 55 croati kosovari hanno visto insediarsi numerosi albanesi nella loro zona e stanno rapidamente diventando una "specie in via di estinzione", a causa anche del sostanziale disinteresse della polizia locale, ma anche delle pattuglie americane che presidiano l'area. Scrive Matteo Zola che di qui a pochi anni i croati di Letnica, eredi di una storia plurisecolare, saranno scomparsi.
La cosa appare singolare perché i croati di Letnica non rappresentano alcun pericolo per i nazionalisti albanesi. Il motivo forse però è un altro. Il villaggio, infatti, si trova a qualche ora di cammino da Brest, altro villaggio isolato ma sulla montagna macedone, zona al centro di traffici di armi e droga, a cavallo di una frontiera "controllata", evidentemente in maniera molto morbida dall’esercito americano.
martedì 18 maggio 2010
IL KOSOVO E IL RISCHIO DELLA SPARTIZIONE
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha presentato ieri al Consiglio di sicurezza il rapporto sull'attività della missione Onu in Kosovo (Unmik) a cui è annesso quello della missione civile dell'Ue (Eulex). Il segretario generale ha espresso "preoccupazione" per la politica messa in atto recentemente dalle autorità di Pristina che punta a smantellare le istituzioni "parallele" messe in piedi dai serbi nel Nord del Kosovo con il sostegno di Belgrado. L'invito al governo kosovaro è dunque quello di "operare con cautela nel mettere in campo la nuova strategia in questa parte del territorio". Il capo dell'Unmik, l'ambasciatore italiano Lamberto Zannier, nel suo intervento ha ammonito sia Belgrado che Pristina che "poco è stato fatto per la soluzione dei problemi quotidiani dei cittadini".
Nei prossimi mesi la Corte internazionale di giustizia dell'Onu dovrà pronunciarsi sulla legittimità secondo il diritto internazionale della dichiarazione di indipendenza del Kosovo. La Corte, che rappresenta il massimo organo istituzionale delle Nazioni Unite, è stata investita della questione dall'Assemblea Generale che ha accolto una richiesta in tal senso avanzata dalla Serbia. Il ministro degli esteri serbo Vuk Jeremic nel suo intervento al Consiglio di sicurezza, ha sostenuto che nel momento in cui la Corte internazionale di giustizia avrà espresso il suo parere ci sarà l'opportunità di raggiungere un "compromesso strategico" tra Belgrado e Pristina. "Penso che siamo che vicini ad un nuovo, promettente momento in Kosovo. Noi siamo pronti a discutere tutte le questioni, incluse quelle che sono al cuore del problema: il futuro status del Kosovo", ha sostenuto Jeremic, precisando comunque che "nessun progresso può essere compiuto attraverso azioni unilaterali".
In attesa della decisione dei giudici - che non sarà vincolante, ma che avrà ovviamente un notevole peso politico e diplomatico - si torna però a parlare dell'ipotesi di una divisione del Kosovo: la parte settentrionale del Paese (a nord del fiume Ibar, dove i serbi sono in maggioranza) tornerebbe a Belgrado, mentre Pristina potrebbe ottenere in cambio parte del territorio della Serbia meridionale a maggioranza albanese. Questo almeno potrebbe essere uno degli scenari possibili.
Durante il suo viaggio in Norvegia, all'inizio di maggio, il presidente serbo Boris Tadic ha riaffermato che uno degli assi principali della sua politica è la difesa del Kosovo. Di fronte all'Assemblea generale dell'Onu, nell'estate di due anni fa, Tadic aveva evocato l'ipotesi di una partizione del Kosovo dopo aver inviato all'Unmik una proposta di accordo per la creazione delle condizioni di separazione funzionale tra i serbi e gli albanesi in Kosovo. Diversi diplomatici occidentali evocano ora questa ipotesi sottintendendo che Belgrado avrebbe preso la sua decisione. In effetti, la costituzione serba non impedisce la variazione dei confini del Paese tramite negoziati anche se da Belgrado si limitano a rispondere che la Corte internazionale di giustizia deve ancora pronunciarsi.
La domanda è: quella della partizione è un'ipotesi fondata, oppure si tratta di un "balloon d'essai" nella prospettiva di una ripresa dei negoziati sullo status del Kosovo?
In un articolo pubblicato recentemente dal giornale kosovaro Koha Ditore, Augustin Palokaj scrive che a Bruxelles e nelle capitali di altri Paesi c'è preoccupazione per una posizione della Serbia favorevole alla divisione. Fonti diplomatiche occidentali non meglio specificate hanno dichiarato al giornale che la autorità serbe "al più alto livello" si sono dichiarate a favore di questa ipotesi. L'alto livello, sempre secondo le fonti citate da Koha Ditore, è quello del ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic e del presidente Tadic che, se hanno divergenze su altre questioni, sono invece in totale accordo quando si tratta del Kosovo. Secondo le fonti di Koha Ditore, Tadic e Jeremic sono stati molto chiari: essi vogliono la divisione del Kosovo. La spartizione però sarebbe pericolosa: secondo gli interlocutori del giornale kosovaro molti Stati (in particolare Francia, Germania e Usa) hanno fatto sapere alla Serbia che l'ipotesi è inaccettabile, che creerebbe nuovi problemi e che sarebbe pericolosa per gli stessi serbi kosovari, la maggioranza dei quali non vive a nord dell'Ibar.
Le molte ragioni contrarie alla divisione erano state ricordate anche dall'ambasciatore italiano a Pristina, Michael L. Giffoni, in un'intervista a Francesco Gradari pubblicata il 14 gennaio scorso da Osservatorio Balcani e Caucaso. L'ambasciatore italiano spiegava, prima di tutto, che "in realtà nessun governo occidentale ha mai dichiarato sino ad oggi il suo sostegno all'ipotesi di partizione del territorio della Repubblica del Kosovo" e ricordava di essere intervenuto varie volte sulla questione per ribadire la sua convinzione che "la partizione non è una soluzione". "Se concordiamo sul fatto che l'obiettivo fondamentale sia quello di stabilizzare i Balcani occidentali, anche attraverso il loro avvicinamento a Bruxelles, l'ipotesi di una partizione o di uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia non può essere nemmeno presa in considerazione" perché, spiegava l'ambasciatore, "mettendo di nuovo mano ai confini, infatti, si creerebbe solamente una escalation di rivendicazioni e potenziali tensioni a livello regionale difficilmente ricomponibile". In altre parole, "la partizione non risolverebbe il problema, ma ne genererebbe di nuovi perché verrebbe rimessa nuovamente al centro la questione dei confini, rendendola ancora più acuta e importante invece di marginalizzarla come la logica dell'integrazione vorrebbe". Non solo: la partizione, secondo Giffoni, non soddisferebbe nemmeno la Serbia "per la quale la soluzione del problema kosovaro non può coincidere con l'annessione di una striscia di terra. A Belgrado dovrebbe interessare unicamente il benessere ed il progresso delle comunità serbe del Kosovo e la stessa cosa dicasi per i serbi di Bosnia, o per gli albanesi della Macedonia, e così via".
Le preoccupazioni dell'ambasciatore Giffoni sulle conseguenze negative che un'eventuale divisione del Kosovo potrebbe avere in altri Paesi della regione è condivisa a Bruxelles, sia nei palazzi dell'Ue che al quartier generale della Nato. I timori riguardano prima di tutto Bosnia Erzegovina e Macedonia che presentano un quadro politico molto fragile. Per questo si sollecita da più parti la necessità di stringere i tempi circa l'integrazione euro-atlantica di questi due Paesi.
Tornando al Kosovo, in realtà l'ipotesi della divisione nasconderebbe il tentativo di Belgrado di non perdere la faccia, ben sapendo che non è più possibile tornare indietro rispetto allo status della sua ex provincia, che non è pensabile che i Paesi che ne hanno riconosciuto l'indipendenza possano rivedere la decisione e che i riconoscimenti internazionali non potranno che crescere con il tempo. Così almeno affermano alcuni dei diplomatici interpellati da Koha Ditore. L'unica carta che la Serbia a questo punto potrebbe giocare è dunque quella della divisione: una situazione "win-win" in cui né serbi, né albanesi vincono tutto, ma entrambi hanno qualcosa da guadagnare e in cui Belgrado punterebbe anche a negoziare una maggiore rappresentanza dei serbi nelle istituzioni kosovare. Ma il comportamento delle autorità serbe e dei rappresentanti serbi del nord del Kosovo dimostra anche, sempre secondo la fonti diplomatiche citate da Koha Ditore, la loro preoccupazione per il numero relativamente significativo dei serbi kosovari che hanno votato alle recenti elezioni amministrative nonostante gli appelli al boicottaggio e alle minacce di ritorsioni.
Tuttavia, la divisione del Kosovo, così come la riapertura dei negoziati sullo status dell'ex provincia serba, ma anche una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza che sostituisca la 1244 del 1999, sono tutte ipotesi difficili da realizzare. E' l'opinione di diplomatici internazionali e dell'Ue riportata dall'agenzia di stampa Beta il 18 maggio. Una soluzione che contribuirebbe alla stabilità potrebbe essere allora una vera autonomia per i serbi del nord del Kosovo unita ad uno status garantito per i serbi delle enclave: in questo senso diventa cruciale la politica che Belgrado porterà avanti. Secondo fonti non nominate citate dall'agenzia Beta, le informazioni provenienti dal Consiglio di sicurezza mostrano che i sostenitori dell'indipendenza del Kosovo stanno irrigidendo il loro atteggiamento in attesa della decisione della Corte internazionale di giustizia, sottolineando il carattere irreversibile della proclamazione di indipendenza
Nei prossimi mesi la Corte internazionale di giustizia dell'Onu dovrà pronunciarsi sulla legittimità secondo il diritto internazionale della dichiarazione di indipendenza del Kosovo. La Corte, che rappresenta il massimo organo istituzionale delle Nazioni Unite, è stata investita della questione dall'Assemblea Generale che ha accolto una richiesta in tal senso avanzata dalla Serbia. Il ministro degli esteri serbo Vuk Jeremic nel suo intervento al Consiglio di sicurezza, ha sostenuto che nel momento in cui la Corte internazionale di giustizia avrà espresso il suo parere ci sarà l'opportunità di raggiungere un "compromesso strategico" tra Belgrado e Pristina. "Penso che siamo che vicini ad un nuovo, promettente momento in Kosovo. Noi siamo pronti a discutere tutte le questioni, incluse quelle che sono al cuore del problema: il futuro status del Kosovo", ha sostenuto Jeremic, precisando comunque che "nessun progresso può essere compiuto attraverso azioni unilaterali".
In attesa della decisione dei giudici - che non sarà vincolante, ma che avrà ovviamente un notevole peso politico e diplomatico - si torna però a parlare dell'ipotesi di una divisione del Kosovo: la parte settentrionale del Paese (a nord del fiume Ibar, dove i serbi sono in maggioranza) tornerebbe a Belgrado, mentre Pristina potrebbe ottenere in cambio parte del territorio della Serbia meridionale a maggioranza albanese. Questo almeno potrebbe essere uno degli scenari possibili.
Durante il suo viaggio in Norvegia, all'inizio di maggio, il presidente serbo Boris Tadic ha riaffermato che uno degli assi principali della sua politica è la difesa del Kosovo. Di fronte all'Assemblea generale dell'Onu, nell'estate di due anni fa, Tadic aveva evocato l'ipotesi di una partizione del Kosovo dopo aver inviato all'Unmik una proposta di accordo per la creazione delle condizioni di separazione funzionale tra i serbi e gli albanesi in Kosovo. Diversi diplomatici occidentali evocano ora questa ipotesi sottintendendo che Belgrado avrebbe preso la sua decisione. In effetti, la costituzione serba non impedisce la variazione dei confini del Paese tramite negoziati anche se da Belgrado si limitano a rispondere che la Corte internazionale di giustizia deve ancora pronunciarsi.
La domanda è: quella della partizione è un'ipotesi fondata, oppure si tratta di un "balloon d'essai" nella prospettiva di una ripresa dei negoziati sullo status del Kosovo?
In un articolo pubblicato recentemente dal giornale kosovaro Koha Ditore, Augustin Palokaj scrive che a Bruxelles e nelle capitali di altri Paesi c'è preoccupazione per una posizione della Serbia favorevole alla divisione. Fonti diplomatiche occidentali non meglio specificate hanno dichiarato al giornale che la autorità serbe "al più alto livello" si sono dichiarate a favore di questa ipotesi. L'alto livello, sempre secondo le fonti citate da Koha Ditore, è quello del ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic e del presidente Tadic che, se hanno divergenze su altre questioni, sono invece in totale accordo quando si tratta del Kosovo. Secondo le fonti di Koha Ditore, Tadic e Jeremic sono stati molto chiari: essi vogliono la divisione del Kosovo. La spartizione però sarebbe pericolosa: secondo gli interlocutori del giornale kosovaro molti Stati (in particolare Francia, Germania e Usa) hanno fatto sapere alla Serbia che l'ipotesi è inaccettabile, che creerebbe nuovi problemi e che sarebbe pericolosa per gli stessi serbi kosovari, la maggioranza dei quali non vive a nord dell'Ibar.
Le molte ragioni contrarie alla divisione erano state ricordate anche dall'ambasciatore italiano a Pristina, Michael L. Giffoni, in un'intervista a Francesco Gradari pubblicata il 14 gennaio scorso da Osservatorio Balcani e Caucaso. L'ambasciatore italiano spiegava, prima di tutto, che "in realtà nessun governo occidentale ha mai dichiarato sino ad oggi il suo sostegno all'ipotesi di partizione del territorio della Repubblica del Kosovo" e ricordava di essere intervenuto varie volte sulla questione per ribadire la sua convinzione che "la partizione non è una soluzione". "Se concordiamo sul fatto che l'obiettivo fondamentale sia quello di stabilizzare i Balcani occidentali, anche attraverso il loro avvicinamento a Bruxelles, l'ipotesi di una partizione o di uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia non può essere nemmeno presa in considerazione" perché, spiegava l'ambasciatore, "mettendo di nuovo mano ai confini, infatti, si creerebbe solamente una escalation di rivendicazioni e potenziali tensioni a livello regionale difficilmente ricomponibile". In altre parole, "la partizione non risolverebbe il problema, ma ne genererebbe di nuovi perché verrebbe rimessa nuovamente al centro la questione dei confini, rendendola ancora più acuta e importante invece di marginalizzarla come la logica dell'integrazione vorrebbe". Non solo: la partizione, secondo Giffoni, non soddisferebbe nemmeno la Serbia "per la quale la soluzione del problema kosovaro non può coincidere con l'annessione di una striscia di terra. A Belgrado dovrebbe interessare unicamente il benessere ed il progresso delle comunità serbe del Kosovo e la stessa cosa dicasi per i serbi di Bosnia, o per gli albanesi della Macedonia, e così via".
Le preoccupazioni dell'ambasciatore Giffoni sulle conseguenze negative che un'eventuale divisione del Kosovo potrebbe avere in altri Paesi della regione è condivisa a Bruxelles, sia nei palazzi dell'Ue che al quartier generale della Nato. I timori riguardano prima di tutto Bosnia Erzegovina e Macedonia che presentano un quadro politico molto fragile. Per questo si sollecita da più parti la necessità di stringere i tempi circa l'integrazione euro-atlantica di questi due Paesi.
Tornando al Kosovo, in realtà l'ipotesi della divisione nasconderebbe il tentativo di Belgrado di non perdere la faccia, ben sapendo che non è più possibile tornare indietro rispetto allo status della sua ex provincia, che non è pensabile che i Paesi che ne hanno riconosciuto l'indipendenza possano rivedere la decisione e che i riconoscimenti internazionali non potranno che crescere con il tempo. Così almeno affermano alcuni dei diplomatici interpellati da Koha Ditore. L'unica carta che la Serbia a questo punto potrebbe giocare è dunque quella della divisione: una situazione "win-win" in cui né serbi, né albanesi vincono tutto, ma entrambi hanno qualcosa da guadagnare e in cui Belgrado punterebbe anche a negoziare una maggiore rappresentanza dei serbi nelle istituzioni kosovare. Ma il comportamento delle autorità serbe e dei rappresentanti serbi del nord del Kosovo dimostra anche, sempre secondo la fonti diplomatiche citate da Koha Ditore, la loro preoccupazione per il numero relativamente significativo dei serbi kosovari che hanno votato alle recenti elezioni amministrative nonostante gli appelli al boicottaggio e alle minacce di ritorsioni.
Tuttavia, la divisione del Kosovo, così come la riapertura dei negoziati sullo status dell'ex provincia serba, ma anche una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza che sostituisca la 1244 del 1999, sono tutte ipotesi difficili da realizzare. E' l'opinione di diplomatici internazionali e dell'Ue riportata dall'agenzia di stampa Beta il 18 maggio. Una soluzione che contribuirebbe alla stabilità potrebbe essere allora una vera autonomia per i serbi del nord del Kosovo unita ad uno status garantito per i serbi delle enclave: in questo senso diventa cruciale la politica che Belgrado porterà avanti. Secondo fonti non nominate citate dall'agenzia Beta, le informazioni provenienti dal Consiglio di sicurezza mostrano che i sostenitori dell'indipendenza del Kosovo stanno irrigidendo il loro atteggiamento in attesa della decisione della Corte internazionale di giustizia, sottolineando il carattere irreversibile della proclamazione di indipendenza
lunedì 17 maggio 2010
CONFERENZA DI SARAJEVO: LA SERBIA CI SARA'
Il ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic ha annunciato ieri che è stato raggiunta un'intesa sulla partecipazione di rappresentanti del Kosovo alla conferenza internazionale Unione Europea-Balcani che si terrà a Sarajevo il 2 giugno organizzata dalla presidenza di turno spagnola dell'Ue con il supporto dell'Italia. L'accordo è stato raggiunto negli incontri con il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini a Belgrado e Ancona: la Serbia ha accettato che i rappresentanti di Pristina partecipino in conformità con la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, tutt'ora valida, che considera il Kosovo una provincia serba sottoposta a controllo internazionale. Jeremic ha ribadito ancora una volta che Belgrado non intende cedere sul fatto che il Kosovo a Sarajevo non deve essere presentato come stato indipendente.
Nelle sue dichiarazioni Jeremic ha messo in evidenza l’importanza della conferenza del 2 giugno, in particolare alla luce della crisi attuale per la quale "in alcune parti dell’Unione cresce lo scetticismo verso il proseguimento del processo di allargamento". Jeremic ha aggiunto che la Serbia farà di tutto perché la conferenza abbia successo e ha espresso la speranza che i rappresentanti di Pristina decidano di partecipare. Tuttavia, Jeremic ha anche sottolineato che la Serbia non rinuncerà mai alla sua posizione contraria all'indipendenza del Kosovo: "Ciò per noi rappresenta una linea rossa sia in senso giuridico sia in quello politico. Non oltrepasseremo mai la linea rossa. In qualsiasi forma alla fine sarà presente Pristina, non potrà essere presente come un paese sovrano”, ha detto Jeremic.
Nelle sue dichiarazioni Jeremic ha messo in evidenza l’importanza della conferenza del 2 giugno, in particolare alla luce della crisi attuale per la quale "in alcune parti dell’Unione cresce lo scetticismo verso il proseguimento del processo di allargamento". Jeremic ha aggiunto che la Serbia farà di tutto perché la conferenza abbia successo e ha espresso la speranza che i rappresentanti di Pristina decidano di partecipare. Tuttavia, Jeremic ha anche sottolineato che la Serbia non rinuncerà mai alla sua posizione contraria all'indipendenza del Kosovo: "Ciò per noi rappresenta una linea rossa sia in senso giuridico sia in quello politico. Non oltrepasseremo mai la linea rossa. In qualsiasi forma alla fine sarà presente Pristina, non potrà essere presente come un paese sovrano”, ha detto Jeremic.
sabato 15 maggio 2010
MACEDONIA: RISCHIO DI SEPARATISMO ARMATO ALBANESE?
In Macedonia torna a salire la preoccupazione per una possibile destabilizzazione del Paese ad opera dei gruppi separatisti armati albanesi a causa di alcuni episodi avvenuti nelle ultime settimane, con la scoperta di depositi illegali di armi e una sparatoria che ha fatto quattro morti. Quest'ultima è avvenuta nei pressi del villaggio di Radusha, al confine tra Macedonia e Kosovo, nelle prime ore di martedì 11 maggio. Il portavoce della polizia, Ivo Kotevski, ha spiegato che le forze dell'ordine avevano avuto informazioni sul trasporto di armi illegali e quando gli agenti hanno cercato di fermare il furgone dal suo interno è stato aperto il fuoco. Risultato della sparatoria: morti tutti e quattro gli occupanti del furgone, nessuna vittima, né feriti tra i poliziotti. Una grande quantità di armi ed esplosivi è stata poi ritrovata all'interno del veicolo.
Il possesso delle armi è stato rivendicato dal disciolto Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo che fece la sua comparsa nel 2001 quando la Macedonia si trovò sull'orlo di un conflitto armato tra le forze governative e i ribelli albanesi, che fu soffocato sul nascere dall'intervento della comunità internazionale. Successivamente, l'accordo di Ohrid mise fine alle ostilità concedendo maggiori diritti alla minoranza albanese, che rappresenta circa un quarto della popolazione della Macedonia. A seguito dell'accordo il gruppo armato si trasformò in un partito politico e ha fatto parte di coalizioni di governo dal 2002.
Albert Musliu, un analista politico macedone citato da WAZ.EUobserver, parla di "deja-vu" e si dice preoccupato per la grande quantità di armi che circola ancora nove anni dopo il conflitto, ma avanza dubbi anche sulla ricostruzione degli eventi fornita dalla polizia. Secondo Musliu una sparatoria con un gruppo armato i cui componenti finiscono tutti morti senza nemmeno un ferito tra i membri delle forze di polizia non è molto credibile.
L'episodio di martedì viene dopo la scoperta da parte della polizia di grandi nascondigli di armi tra fine aprile e inizio maggio: nel secondo caso il luogo era sorvegliato da uomini in uniforme. E un nuovo sequestro di armi, munizioni ed esplosivi è stato messo a segno giovedì dalla polizia macedone che ha anche arrestato quattro persone, un uomo di 59 anni ed i suoi tre figli, nel villaggio di Novo Selo, nei pressi della città nord occidentale di Tetovo. Secondo i media locali il gruppo arrestato a Novo Selo sarebbe stato in contatto con i trafficanti di armi uccisi martedì.
L'operazione di polizia dell'altro ieri ha coinciso con l'annuncio della visita a Skopje di una delegazione di alto livello del governo kosovaro guidata dal ministro degli Interni, Bajram Rexhepi, che con la sua collega macedone, Gordana Jankulovska, discuterà della sicurezza nella regione. Intanto, l'ex ministro macedone della Difesa, Trajan Gocevski, interpellato dal quotidiano macedone Dnevnik e da WAZ.EUobserver, ha parlato di una situazione grave per la regione auspicando che le strutture di sicurezza macedonia non siano lasciate sole, ma operino in coordinamento con l'Ue, l'Osce e le altre organizzazioni internazionali.
Alla fine di aprile, poco prima della scoperta del deposito illegale, la Nato, l'Osce, l'Ue e gli Usa avevano rilasciato una dichiarazione congiunta in cui esprimevano serie preoccupazioni per le recenti dichiarazioni di alcuni esponenti politici che sono tornati a parlare di separatismo, di conflitto e di abbandono degli assetti stabiliti con l'accordo di Ohrid in un quadro di indebolimento complessivo del dialogo politico. I quattro firmatari della dichiarazione hanno ribadito il loro sostegno all'integrazione europea ed atlantica della Macedonia, candidata all'adesione sia all'Ue che alla Nato.
Il possesso delle armi è stato rivendicato dal disciolto Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo che fece la sua comparsa nel 2001 quando la Macedonia si trovò sull'orlo di un conflitto armato tra le forze governative e i ribelli albanesi, che fu soffocato sul nascere dall'intervento della comunità internazionale. Successivamente, l'accordo di Ohrid mise fine alle ostilità concedendo maggiori diritti alla minoranza albanese, che rappresenta circa un quarto della popolazione della Macedonia. A seguito dell'accordo il gruppo armato si trasformò in un partito politico e ha fatto parte di coalizioni di governo dal 2002.
Albert Musliu, un analista politico macedone citato da WAZ.EUobserver, parla di "deja-vu" e si dice preoccupato per la grande quantità di armi che circola ancora nove anni dopo il conflitto, ma avanza dubbi anche sulla ricostruzione degli eventi fornita dalla polizia. Secondo Musliu una sparatoria con un gruppo armato i cui componenti finiscono tutti morti senza nemmeno un ferito tra i membri delle forze di polizia non è molto credibile.
L'episodio di martedì viene dopo la scoperta da parte della polizia di grandi nascondigli di armi tra fine aprile e inizio maggio: nel secondo caso il luogo era sorvegliato da uomini in uniforme. E un nuovo sequestro di armi, munizioni ed esplosivi è stato messo a segno giovedì dalla polizia macedone che ha anche arrestato quattro persone, un uomo di 59 anni ed i suoi tre figli, nel villaggio di Novo Selo, nei pressi della città nord occidentale di Tetovo. Secondo i media locali il gruppo arrestato a Novo Selo sarebbe stato in contatto con i trafficanti di armi uccisi martedì.
L'operazione di polizia dell'altro ieri ha coinciso con l'annuncio della visita a Skopje di una delegazione di alto livello del governo kosovaro guidata dal ministro degli Interni, Bajram Rexhepi, che con la sua collega macedone, Gordana Jankulovska, discuterà della sicurezza nella regione. Intanto, l'ex ministro macedone della Difesa, Trajan Gocevski, interpellato dal quotidiano macedone Dnevnik e da WAZ.EUobserver, ha parlato di una situazione grave per la regione auspicando che le strutture di sicurezza macedonia non siano lasciate sole, ma operino in coordinamento con l'Ue, l'Osce e le altre organizzazioni internazionali.
Alla fine di aprile, poco prima della scoperta del deposito illegale, la Nato, l'Osce, l'Ue e gli Usa avevano rilasciato una dichiarazione congiunta in cui esprimevano serie preoccupazioni per le recenti dichiarazioni di alcuni esponenti politici che sono tornati a parlare di separatismo, di conflitto e di abbandono degli assetti stabiliti con l'accordo di Ohrid in un quadro di indebolimento complessivo del dialogo politico. I quattro firmatari della dichiarazione hanno ribadito il loro sostegno all'integrazione europea ed atlantica della Macedonia, candidata all'adesione sia all'Ue che alla Nato.
venerdì 14 maggio 2010
SITUAZIONE POLITICA IN TURCHIA: L'ANALISI DI JEAN MARCOU
Sull'attuale situazione politica in Turchia segnalo l'intervista di Ada Pagliarulo per Radio Radicale al professor Jean Marcou, professore di Diritto pubblico a Grenoble, componente dell'Ifea, l'Istituto francese di studi anatolici di Istanbul e responsabile di Ovipot, l'Osservatorio politico della vita politica turca, il cui blog è una lettura sempre interessante e utile per capire cosa accade a cavallo del Bosforo.
Nell'intervista si parla delle modifiche costituzionali approvate dal Parlamento turco, delle riforme che riguardano il potere giudiziario e dello scontro tra l'Akp di Erdogan e l'establishment politico-giudiziario, ma anche delle dimissioni di Deniz Baykal dalla guida del Chp, delle reazioni del partito allo scandalo, della linea politica imposta da Baykal al Chp e dell'atteggiamento tenuto in occasione del dibattito sulle modifiche costituzionali.
Ascolta qui l'intervista o vai al sito di Radio Radicale
Nell'intervista si parla delle modifiche costituzionali approvate dal Parlamento turco, delle riforme che riguardano il potere giudiziario e dello scontro tra l'Akp di Erdogan e l'establishment politico-giudiziario, ma anche delle dimissioni di Deniz Baykal dalla guida del Chp, delle reazioni del partito allo scandalo, della linea politica imposta da Baykal al Chp e dell'atteggiamento tenuto in occasione del dibattito sulle modifiche costituzionali.
Ascolta qui l'intervista o vai al sito di Radio Radicale
TURCHIA: IL LEADER DELL'OPPOSIZIONE SI DIMETTE A CAUSA DI UN VIDEO HARD
Non sono giorni sereni questi per la Turchia. Nel già solitamente poco tranquillo mare della politica turca, ad agitare ulteriormente le acque è arrivato lo scandalo sessuale che ha costretto alle dimissioni il leader del Chp, Deniz Baykal. La causa è un video, per altro di pessima qualità, pubblicato sul sito habervaktim.com, che lo mostrerebbe nudo in compagnia della sua ex segretaria, e ora deputata, Nesrin Baytok, anche lei discinta. Ma non finisce qui: la comparsa del video coincide con un presunto tentativo di assassinare Baykal che sarebbe stato ordito dal suo rivale politico, Mustafa Sarigul. Secondo il segretario generale del Chp, Önder Sav, Sarigul avrebbe pagato svariate centinaia di migliaia euro ad un mercenario per eliminare Baykal durante la sua recente visita a Bruxelles il 13 aprile scorso. Sarigul ovviamente ha respinto ogni addebito e danno del matto a Say.
Riguardo al video, Baykal ha subito parlato di complotto e ha accusato il governo di aver favorito la diffusione del filmato. Secca la replica del premier Erdogan che, prima di partire per la sua visita ufficiale in Grecia, ha liquidato le accuse dicendo che "chi tradisce la moglie in quel modo non può fare la vittima". La tesi di Baykal non convince nemmeno alcuni commentatori. Oltre al panorama di critiche da parte della stampa, c'è per esempio il quotidiano "Habertürk" che sostiene che il video è stato girato per volere del partito di Baykal e che i servizi segreti hanno svolto un importante ruolo nello scandalo. Il quotidiano "Zaman", vicino al partito del premier, ipotizza che il video sia stato pubblicato per volere del Chp per farlo fuori prima del congresso del 22 maggio che lo avrebbe dovuto indicare come candidato premier per le elezioni del prossimo anno.
La vicenda del video sta creando anche un incidente con la stampa internazionale: il governo turco ha infatti minacciato di bloccare l’accesso all’interno del paese al sito web di El Mundo che ha a sua volta pubblicato il video. Inutile dire che al quotidiano spagnolo non hanno nessuna intenzione di accettare quella che definiscono una censura ed il video è tutt'ora on-line.
Riguardo al video, Baykal ha subito parlato di complotto e ha accusato il governo di aver favorito la diffusione del filmato. Secca la replica del premier Erdogan che, prima di partire per la sua visita ufficiale in Grecia, ha liquidato le accuse dicendo che "chi tradisce la moglie in quel modo non può fare la vittima". La tesi di Baykal non convince nemmeno alcuni commentatori. Oltre al panorama di critiche da parte della stampa, c'è per esempio il quotidiano "Habertürk" che sostiene che il video è stato girato per volere del partito di Baykal e che i servizi segreti hanno svolto un importante ruolo nello scandalo. Il quotidiano "Zaman", vicino al partito del premier, ipotizza che il video sia stato pubblicato per volere del Chp per farlo fuori prima del congresso del 22 maggio che lo avrebbe dovuto indicare come candidato premier per le elezioni del prossimo anno.
La vicenda del video sta creando anche un incidente con la stampa internazionale: il governo turco ha infatti minacciato di bloccare l’accesso all’interno del paese al sito web di El Mundo che ha a sua volta pubblicato il video. Inutile dire che al quotidiano spagnolo non hanno nessuna intenzione di accettare quella che definiscono una censura ed il video è tutt'ora on-line.
TURCHIA: REFERENDUM IL 12 SETTEMBRE. FORSE.
Il referendum sulla riforma costituzionale in Turchia si terra' il 12 settembre e non entro la fine di luglio come si pensava in un primo momento. La Commissione elettorale suprema ha infatti ritenuto opportuno applicare la vecchia legge elettorale, che prevede un preavviso di 120 giorni, e non quella recentemente approvata, che dimezzava a 60 giorni questo termine.
Il processo polito-istituzionale messo in moto una settimana fa con l'approvazione da parte del Parlamento di Ankara degli emendamenti alla Costituzione voluti dal governo dei Recep Tayyp Erdogan, dunque procede. Dopo la firma da parte del presidente della Repubblica, Abdullah Gul, la riforma è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e la Suprema Corte Elettorale ha stabilito che la data per la consultazione popolare resa necessaria dal fatto che in Parlamento la riforma non ha ottenuto il voto favorevole dei 2/3 dei deputati.
La nuova carta costituzionale dovrebbe sostituire quella del 1982, figlia del colpo di stato militare del 1980 e tocca soprattutto i poteri della magistratura e dei militari. Secondo l'Akp, il partito di maggioranza che fa capo a Erdogan, si tratta di una grande opportunità per garantire maggiore democrazia e mettere il Paese in linea con gli standard dell'Ue, secondo l'opposizione non è che una manovra per limitare il potere dei militari e dei giudici, vale a dire i due bastioni dello stato laico voluto da Kemal Ataturk.
Al momento comunque non è ancora certo che il referendum si tenga. Come annunciato subito dopo il voto parlamentare il Chp, il Partito repubblicano del Popolo, la principale voce dell'opposizione turca, ha presentato alla Corte costituzionale il suo ricorso contro la riforma della Costituzione. La Corte dovrà decidere prima che si vada alle urne e se dovesse accogliere il ricorso dell'opposizione è facile immaginare il caos che potrebbe determinarsi in Turchia: non solo andrebbe a monte il tentativo di riforma costituzionale, ma per Erdogan sarebbe una sconfitta politica pesantissima che potrebbe indurlo ad andare alle elezioni in anticipo rispetto alla scadenza naturale del luglio 2011.
C'è anche da notare una singolare coincidenza: il 12 settembre ricorrerà il trentesimo anniversario del golpe del 1980. Una data, dunque, altamente significativa, il cui valore simbolico potrebbe fare molto gioco a Erdogan. La riforma costituzionale, infatti, tra le varie cose prevede anche la possibilità per i militari di essere giudicati dalla magistratura civile, inclusi gli esecutori materiali del golpe del 1980.
Il processo polito-istituzionale messo in moto una settimana fa con l'approvazione da parte del Parlamento di Ankara degli emendamenti alla Costituzione voluti dal governo dei Recep Tayyp Erdogan, dunque procede. Dopo la firma da parte del presidente della Repubblica, Abdullah Gul, la riforma è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e la Suprema Corte Elettorale ha stabilito che la data per la consultazione popolare resa necessaria dal fatto che in Parlamento la riforma non ha ottenuto il voto favorevole dei 2/3 dei deputati.
La nuova carta costituzionale dovrebbe sostituire quella del 1982, figlia del colpo di stato militare del 1980 e tocca soprattutto i poteri della magistratura e dei militari. Secondo l'Akp, il partito di maggioranza che fa capo a Erdogan, si tratta di una grande opportunità per garantire maggiore democrazia e mettere il Paese in linea con gli standard dell'Ue, secondo l'opposizione non è che una manovra per limitare il potere dei militari e dei giudici, vale a dire i due bastioni dello stato laico voluto da Kemal Ataturk.
Al momento comunque non è ancora certo che il referendum si tenga. Come annunciato subito dopo il voto parlamentare il Chp, il Partito repubblicano del Popolo, la principale voce dell'opposizione turca, ha presentato alla Corte costituzionale il suo ricorso contro la riforma della Costituzione. La Corte dovrà decidere prima che si vada alle urne e se dovesse accogliere il ricorso dell'opposizione è facile immaginare il caos che potrebbe determinarsi in Turchia: non solo andrebbe a monte il tentativo di riforma costituzionale, ma per Erdogan sarebbe una sconfitta politica pesantissima che potrebbe indurlo ad andare alle elezioni in anticipo rispetto alla scadenza naturale del luglio 2011.
C'è anche da notare una singolare coincidenza: il 12 settembre ricorrerà il trentesimo anniversario del golpe del 1980. Una data, dunque, altamente significativa, il cui valore simbolico potrebbe fare molto gioco a Erdogan. La riforma costituzionale, infatti, tra le varie cose prevede anche la possibilità per i militari di essere giudicati dalla magistratura civile, inclusi gli esecutori materiali del golpe del 1980.
mercoledì 12 maggio 2010
TURCHIA: LA RIFORMA COSTITUZIONALE VERSO IL REFERENDUM
"Il presidente ha inviato il pacchetto all'ufficio del primo ministro perchè sia sottoposto a un voto pubblico": con questa nota ufficiale la presidenza turca ha reso noto che il presidente Abdullah Gül ha dato il via libera alla riforma della Costituzione approvata dal Parlamento e alla sua ratifica popolare con un referendum. Venerdì scorso, al termine di una vera e propria maratona, il Parlamento turco ha approvato il pacchetto di riforme costituzionali elaborato dal partito Akp del premier Recep Tayyip Erdogan che della riforma della Carta ha fatto uno dei punti qualificanti della sua iniziativa politica e di governo. La modifica della Costituzione è infatti necessaria secondo il governo per adeguarsi agli standard richiesti per l'adesione all'Ue che resta (almeno ufficialmente) un altro degli obiettivi prioritari di Erdogan. Il pacchetto ha raccolto 336 voti favorevoli su 550, cioè più dei 330 necessari all'approvazione, ma meno dei due terzi occorrenti per evitare la consultazione popolare, a cui per altro Erdogan non ha mai fatto mistero di puntare. "La nostra nuova tappa - ha infatti detto il premier - sarà quella di entrare nella campagna referendaria. Abbiamo già cominciato i preparativi. Ci presenteremo di fronte alla nazione".
La riforma, secondo le opposizioni, limita i poteri della magistratura e delle forze armate che, agli occhi dei laici e dei nazionalisti, rappresentano il baluardo dello stato laico e repubblicano voluto da Kemal Ataturk. Delle riforme su cui puntava Erdogan ne sono passate in due: la possibilità che i militari coinvolti in reati contro la sicurezza nazionale (leggi tentati golpe) vengano processati dai tribunali ordinari e non militari e la modifica della composizione del Consiglio superiore della magistratura, organismo che nomina i giudici e i procuratori e adotta misure disciplinari e che in questi anni si è spesso trovato in linea di collisione con il governo. E' stato invece depennato l'emendamento all'articolo 8 che avrebbe privato il Procuratore generale del potere di fare ricorso alla Corte Costituzionale per avviare la procedura di chiusura di un partito politico imponendo il parere preventivo di una commissione parlamentare. L'Akp è stato accusato dalle opposizioni di voler far passare a tutti i costi questo articolo per evitare che il Procuratore generale, come aveva già fatto due anni fa, possa avviare nuovamente la procedura per la chiusura dell'Akp per attentato alla laicità del Paese sancita dalla Costituzione.
Il principale partito dell'opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo (Chp) fondato da Kemal ha già annunciato che presenterà ricorso alla Corte costituzionale per impedire il referendum sostenendo che questo consoliderebbe in maniera definitiva il potere dell'Akp. Per avviare il ricorso il Chp deve raccogliere le firme di 110 deputati, cosa non difficile contando anche sulla disponibilità di altri esponenti dell'opposizione. La procedura di ricorso non ha una durata stabilita ma poiché alcuni articoli del pacchetto di riforme modificherebbero profondamente la struttura della stessa Corte costituzionale è possibile che i giudici si pronuncino prima del referendum. Il problema è che se la Corte dovesse emettere un verdetto di anticostituzionalità dopo la consultazione popolare, l'eventuale risultato favorevole alla riforma sarebbe automaticamente annullato e ciò causerebbe una paralisi istituzionale tale da aprire la strada ad elezioni anticipate rispetto alla scadenza naturale del 2011. Elezioni che potrebbero dare all'Akp un grande successo come nel 2007 (e quindi segnare una lo stesso una sconfitta per le opposizioni). Oppure, nonostante la vittoria, l'Akp potrebbe però avere un calo di consensi come alle amministrative del 2009 obbligando Erdogan ad un governo di coalizione. In ogni caso, ancora una volta si preparano per la Turchia settimane di notevole incertezza.
La riforma, secondo le opposizioni, limita i poteri della magistratura e delle forze armate che, agli occhi dei laici e dei nazionalisti, rappresentano il baluardo dello stato laico e repubblicano voluto da Kemal Ataturk. Delle riforme su cui puntava Erdogan ne sono passate in due: la possibilità che i militari coinvolti in reati contro la sicurezza nazionale (leggi tentati golpe) vengano processati dai tribunali ordinari e non militari e la modifica della composizione del Consiglio superiore della magistratura, organismo che nomina i giudici e i procuratori e adotta misure disciplinari e che in questi anni si è spesso trovato in linea di collisione con il governo. E' stato invece depennato l'emendamento all'articolo 8 che avrebbe privato il Procuratore generale del potere di fare ricorso alla Corte Costituzionale per avviare la procedura di chiusura di un partito politico imponendo il parere preventivo di una commissione parlamentare. L'Akp è stato accusato dalle opposizioni di voler far passare a tutti i costi questo articolo per evitare che il Procuratore generale, come aveva già fatto due anni fa, possa avviare nuovamente la procedura per la chiusura dell'Akp per attentato alla laicità del Paese sancita dalla Costituzione.
Il principale partito dell'opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo (Chp) fondato da Kemal ha già annunciato che presenterà ricorso alla Corte costituzionale per impedire il referendum sostenendo che questo consoliderebbe in maniera definitiva il potere dell'Akp. Per avviare il ricorso il Chp deve raccogliere le firme di 110 deputati, cosa non difficile contando anche sulla disponibilità di altri esponenti dell'opposizione. La procedura di ricorso non ha una durata stabilita ma poiché alcuni articoli del pacchetto di riforme modificherebbero profondamente la struttura della stessa Corte costituzionale è possibile che i giudici si pronuncino prima del referendum. Il problema è che se la Corte dovesse emettere un verdetto di anticostituzionalità dopo la consultazione popolare, l'eventuale risultato favorevole alla riforma sarebbe automaticamente annullato e ciò causerebbe una paralisi istituzionale tale da aprire la strada ad elezioni anticipate rispetto alla scadenza naturale del 2011. Elezioni che potrebbero dare all'Akp un grande successo come nel 2007 (e quindi segnare una lo stesso una sconfitta per le opposizioni). Oppure, nonostante la vittoria, l'Akp potrebbe però avere un calo di consensi come alle amministrative del 2009 obbligando Erdogan ad un governo di coalizione. In ogni caso, ancora una volta si preparano per la Turchia settimane di notevole incertezza.
DELEGAZIONE DEL PARTITO RADICALE IN ALBANIA E KOSOVO
Una delegazione del Partito Radicale Transnazionale si è recata nei Balcani da venerdì a martedì scorsi in preparazione del Consiglio generale del partito che si terrà a Roma dal 28 al 30 giugno prossimo. Della delegazione facevano parte il senatore Marco Perduca e Artur Nura (corrispondente di Radio Radicale e collaboratore di Passaggio a Sud Est), alla quale si è unito Marco Pannella nella serata di domenica.
Perduca e Nura hanno hanno prima di tutto incontrato i deputati del Partito Socialista, Pandeli Majko e Ermelinda Meksi (iscritti storici al PR), per preparare la riunione che si è poi tenuta lunedì mattina con Marco Pannella e il sindaco di Tirana e leader dell'opposizione Edi Rama. Successivamente si è tenuta una lunga riunione con la leadership della comunità dei Cami, adesso presente in Parlamento, sulla situazione della quale Maurizio Turco e Marco Cappato, quando erano deputati europei, avevano presentato mozioni al Parlamento europeo, e sulle cui discriminazioni in Grecia il PR aveva presentato documenti anche alla Commissione diritti umani dell'Onu. Il deputato Shpetim Idrisi, del Partito per la Giustizia e l'Unità, membro della delegazione albanese all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e due suoi collaboratori, si sono iscritti al Partito Radicale. Idrisi, che ha tenuto una conferenza stampa con Perduca ieri mattina, parteciperà al Consiglio generale di Roma.
Sabato la delegazione radicale si è invece spostata in Kosovo dove, grazie a Bujiar Dugolli, ministro dell'Industria e già tra i leader del movimento studentesco, nonché iscritto radicale, Perduca e Nura hanno incontrato il presidente del Parlamento, Jakup Krasniqi, e il ministro per l'Integrazione europea, Besim Beqaj. Si sono iscritti per la prima volta al Partito Radicale anche Ismet Beqiri della Lega Democratica del Kosovo, presidente della Commissione Diritti umani e Pari opportunità del Parlamento, Naser Rugova, dirigente della Lega Democratica della Dardania, e la deputata Sula Gjylnaze dell'Alleanza per il Kosovo. La visita in Kosovo è proseguita con incontri con rappresentanti di organizzazioni non-governative e imprenditori. Domenica, nuovamente in Albania, la delegazione radicale ha avuto altre riunioni con rappresentati di maggioranza e opposizione incluso anche un incontro col vice-premier. I radicali hanno comoiuto anche una visita al carcere di Durazzo e hanno avuto un incontro con gli uiguri già detenuti a Guantanamo e poi rilasciati dalla eutorità statunitensi e che da tre anni sono ospitati dall'Albania.
Perduca e Nura hanno hanno prima di tutto incontrato i deputati del Partito Socialista, Pandeli Majko e Ermelinda Meksi (iscritti storici al PR), per preparare la riunione che si è poi tenuta lunedì mattina con Marco Pannella e il sindaco di Tirana e leader dell'opposizione Edi Rama. Successivamente si è tenuta una lunga riunione con la leadership della comunità dei Cami, adesso presente in Parlamento, sulla situazione della quale Maurizio Turco e Marco Cappato, quando erano deputati europei, avevano presentato mozioni al Parlamento europeo, e sulle cui discriminazioni in Grecia il PR aveva presentato documenti anche alla Commissione diritti umani dell'Onu. Il deputato Shpetim Idrisi, del Partito per la Giustizia e l'Unità, membro della delegazione albanese all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e due suoi collaboratori, si sono iscritti al Partito Radicale. Idrisi, che ha tenuto una conferenza stampa con Perduca ieri mattina, parteciperà al Consiglio generale di Roma.
Sabato la delegazione radicale si è invece spostata in Kosovo dove, grazie a Bujiar Dugolli, ministro dell'Industria e già tra i leader del movimento studentesco, nonché iscritto radicale, Perduca e Nura hanno incontrato il presidente del Parlamento, Jakup Krasniqi, e il ministro per l'Integrazione europea, Besim Beqaj. Si sono iscritti per la prima volta al Partito Radicale anche Ismet Beqiri della Lega Democratica del Kosovo, presidente della Commissione Diritti umani e Pari opportunità del Parlamento, Naser Rugova, dirigente della Lega Democratica della Dardania, e la deputata Sula Gjylnaze dell'Alleanza per il Kosovo. La visita in Kosovo è proseguita con incontri con rappresentanti di organizzazioni non-governative e imprenditori. Domenica, nuovamente in Albania, la delegazione radicale ha avuto altre riunioni con rappresentati di maggioranza e opposizione incluso anche un incontro col vice-premier. I radicali hanno comoiuto anche una visita al carcere di Durazzo e hanno avuto un incontro con gli uiguri già detenuti a Guantanamo e poi rilasciati dalla eutorità statunitensi e che da tre anni sono ospitati dall'Albania.
QUANTO PESA LA CRISI GRECA SUL RESTO DEI BALCANI?
Malgrado le rassicurazione la crisi greca investe gli altri Paesi del''area balcanica. Le nazioni più esposte sono la Serbia, la Bulgaria e la Macedonia, nonostante il contenzioso che da anni la oppone alla Grecia sulla questione del nome: sono ben 280, infatti, le aziende greche che investono nel Paese. Inoltre, le banche greche partecipano al 28% nelle banche bulgare, al 27% in quelle rumene e al 25% in quelle turche (anche qui, da notare, nonostante i tanti motivi di attrito che ancora esistono tra i due Paesi).
La crisi greca pone serie questioni sul futuro dell'Unione Europea e si ripercuote sulle sue prospettive di allargamento che, dopo quello del 2004 verso est, avrebbe dovuto procedere in direzione sud-est e riguardare quei Balcani troppo spesso dimenticati da Bruxelles e che ora, nonostante il rinnovato e ribadito impegno dell'Ue per garantire il processo di adesione a tutti i Paesi dell'area, rischia di essere reso ulteriormente rinviato nel tempo dalla difficile, rischiosa e complicata situazione economica generale.
Del peso della crisi greca sul resto dei Balcani ci siamo occupati diverse volte a Passaggio a Sud Est su Radio Radicale con Marina Szikora e Artur Nura e alla questione abbiamo dedicato anche alcuni Speciali.
Oggi invece segnalo l'articolo di Matteo Zola sul blog EastJournal
La crisi greca pone serie questioni sul futuro dell'Unione Europea e si ripercuote sulle sue prospettive di allargamento che, dopo quello del 2004 verso est, avrebbe dovuto procedere in direzione sud-est e riguardare quei Balcani troppo spesso dimenticati da Bruxelles e che ora, nonostante il rinnovato e ribadito impegno dell'Ue per garantire il processo di adesione a tutti i Paesi dell'area, rischia di essere reso ulteriormente rinviato nel tempo dalla difficile, rischiosa e complicata situazione economica generale.
Del peso della crisi greca sul resto dei Balcani ci siamo occupati diverse volte a Passaggio a Sud Est su Radio Radicale con Marina Szikora e Artur Nura e alla questione abbiamo dedicato anche alcuni Speciali.
Oggi invece segnalo l'articolo di Matteo Zola sul blog EastJournal
lunedì 10 maggio 2010
FOSSA COMUNE CON 250 CADAVERI DI ALBANESI SCOPERTA IN SERBIA
Le autorità serbe hanno annunciato oggi il ritrovamento di una fossa comune con i resti di almeno 250 vittime nel vilaggio di Rudnica, nei pressi di Raska, 180 km a sud di Belgrado, a pochi chilometri dal confine con il Kosovo. Sarebbero tutti albanesi, uccisi durante la guerra del 1999. Sul terreno, nei pressi di una strada tra le colline, secondo alcuni testimoni sono stati costruiti nel frattempo una casa ed un parcheggio. Secondo la tv pubblica serba, quella di Raska è la sesta fossa comune ad essere rinvenuta dopo la fine della guerra del Kosovo e la caduta di Slobodan Milosevic nel 2000 e potrebbe essere la seconda per grandezza localizzata in Serbia. Il macabro primato spetta all'altra città della Serbia meridionale, Batajnica, dove sono stati rinvenuti i resti di 750 cadaveri.
La fossa comune è stata individuata grazie al contributo degli uomini di Eulex, la missione civile dell'Ue che opera in Kosovo. Nel corso di una conferenza stampa convocata d'urgenza a Belgrado, il capo della Procura speciale serba per i crimini di guerra, Vladimir Vukcevic, ha fornito maggiori dettagli sul ritrovamento e ha spiegato che le indagini delle autorità di Belgrado erano in corso da due anni. Il vice di Vukcevic e portavoce della procura, Bruno Vekaric, ha assicurato che le autorità faranno "il possibile per estrarre tutti i corpi e riconsegnarli alle famiglie nel minor tempo possibile" e ha aggiunto che il ritrovamento "rappresenta la prova che la Serbia intende stabilire la verità su tutti i crimini di guerra avvenuti, indipendentemente dalla nazionalità degli assassini o delle vittime".
"La Serbia ha la capacità democratica di affrontare il passato: è un nostro dovere verso le vittime che hanno il diritto di seppellire i morti" ha dichiarato il procuratore Vukcevic. "Allo stesso tempo - ha aggiunto - penso che questa sia la strada migliore verso la riconciliazione regionale". Parole che non hanno convinto il portavoce della presidenza della Republica kosovara, Xhavit Beqiri, che dopo aver definito "terrificante" la notizia del ritrovamento, non ha mancato di polemizzare con le autorità serbe: "Sospettiamo che ci siano altre vittime del Kosovo sepolte in altre fosse comuni in giro per la Serbia di cui Belgrado è sempre stata a conoscenza, ma che ha selettivamente rinvenuto al fine di ridurre la portata dei crimini commessi in Kosovo". Vukcevic per altro non aveva mancato di dichiarare di aspettarsi "una risposta alla domanda su cosa sia successo ai circa 500 serbi ancora dispersi".
Sia da parte serba che da parte kosovara il rinvenimento di oggi riapre le ferite mai rimarginatesi dall'epoca della guerra costata migliaia di morti e fermata dai bombardamenti Nato nel 1999. Durante il conflitto centinaia di albanesi furono trasportati in Serbia, uccisi e sepolti in fosse comuni per nascondere le prove dei crimini di guerra commessi dai militari e paramilitari serbi. Di crimini di guerra sono stati accusati nel corso degli anni anche i guerriglieri albanesi dell'Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) e i loro capi, alcuni dei quali, come l'attuale premier Hashim Thaci o i suoi predecessori Agim Ceku e Ramush Haradinaj, hanno o hanno avuto importanti ruoli politici. Come scrive il sito PeaceReporter, la sensazione è però che si stia aprendo una nuova stagione nei rapporti tra la magistratura serba e quella albanese.
A partire dal 2001 sono stati scoperti almeno 800 cadaveri di albanesi in varie zone della Serbia, ma poi tutto si era fermato. Ora il processo di integrazione euro-atlantica della Serbia e dell'Albania pone alle autorità di Belgrado e a quelle di Tirana la necessità di superare le tensioni anche per non ostacolare la ricerca di un compormesso tra la Serbia e la sua provincia del Kosovo che nel 2008 ha dichiarato l'indipendenza unilaterale. "In quest'ottica - scrive PeaceReporter - si può leggere l'arresto, avvenuto a Kukes in Albania il 6 maggio scorso, di Sabit Geci. L'uomo è un ex miliziano dell'Uck, ritenuto un elemento chiave all'epoca della guerra nella rete che ha rapito ed eliminato cittadini serbi. I servizi di sicurezza di Tirana, in questi undici anni, hanno sempre saputo dove si trovasse Geci, ma solo adesso lo arrestano". Questo potrebbe portare anche ad affrontare la vicenda della "Casa gialla" che, secondo l'ex procuratrice del tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia, Carla Del Ponte, sarebbe stata la sede di un traffico illegale di organi, gestito da elementi dell'Uck, di cui sarebbero stati vittime prigionieri serbi.
La fossa comune è stata individuata grazie al contributo degli uomini di Eulex, la missione civile dell'Ue che opera in Kosovo. Nel corso di una conferenza stampa convocata d'urgenza a Belgrado, il capo della Procura speciale serba per i crimini di guerra, Vladimir Vukcevic, ha fornito maggiori dettagli sul ritrovamento e ha spiegato che le indagini delle autorità di Belgrado erano in corso da due anni. Il vice di Vukcevic e portavoce della procura, Bruno Vekaric, ha assicurato che le autorità faranno "il possibile per estrarre tutti i corpi e riconsegnarli alle famiglie nel minor tempo possibile" e ha aggiunto che il ritrovamento "rappresenta la prova che la Serbia intende stabilire la verità su tutti i crimini di guerra avvenuti, indipendentemente dalla nazionalità degli assassini o delle vittime".
"La Serbia ha la capacità democratica di affrontare il passato: è un nostro dovere verso le vittime che hanno il diritto di seppellire i morti" ha dichiarato il procuratore Vukcevic. "Allo stesso tempo - ha aggiunto - penso che questa sia la strada migliore verso la riconciliazione regionale". Parole che non hanno convinto il portavoce della presidenza della Republica kosovara, Xhavit Beqiri, che dopo aver definito "terrificante" la notizia del ritrovamento, non ha mancato di polemizzare con le autorità serbe: "Sospettiamo che ci siano altre vittime del Kosovo sepolte in altre fosse comuni in giro per la Serbia di cui Belgrado è sempre stata a conoscenza, ma che ha selettivamente rinvenuto al fine di ridurre la portata dei crimini commessi in Kosovo". Vukcevic per altro non aveva mancato di dichiarare di aspettarsi "una risposta alla domanda su cosa sia successo ai circa 500 serbi ancora dispersi".
Sia da parte serba che da parte kosovara il rinvenimento di oggi riapre le ferite mai rimarginatesi dall'epoca della guerra costata migliaia di morti e fermata dai bombardamenti Nato nel 1999. Durante il conflitto centinaia di albanesi furono trasportati in Serbia, uccisi e sepolti in fosse comuni per nascondere le prove dei crimini di guerra commessi dai militari e paramilitari serbi. Di crimini di guerra sono stati accusati nel corso degli anni anche i guerriglieri albanesi dell'Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) e i loro capi, alcuni dei quali, come l'attuale premier Hashim Thaci o i suoi predecessori Agim Ceku e Ramush Haradinaj, hanno o hanno avuto importanti ruoli politici. Come scrive il sito PeaceReporter, la sensazione è però che si stia aprendo una nuova stagione nei rapporti tra la magistratura serba e quella albanese.
A partire dal 2001 sono stati scoperti almeno 800 cadaveri di albanesi in varie zone della Serbia, ma poi tutto si era fermato. Ora il processo di integrazione euro-atlantica della Serbia e dell'Albania pone alle autorità di Belgrado e a quelle di Tirana la necessità di superare le tensioni anche per non ostacolare la ricerca di un compormesso tra la Serbia e la sua provincia del Kosovo che nel 2008 ha dichiarato l'indipendenza unilaterale. "In quest'ottica - scrive PeaceReporter - si può leggere l'arresto, avvenuto a Kukes in Albania il 6 maggio scorso, di Sabit Geci. L'uomo è un ex miliziano dell'Uck, ritenuto un elemento chiave all'epoca della guerra nella rete che ha rapito ed eliminato cittadini serbi. I servizi di sicurezza di Tirana, in questi undici anni, hanno sempre saputo dove si trovasse Geci, ma solo adesso lo arrestano". Questo potrebbe portare anche ad affrontare la vicenda della "Casa gialla" che, secondo l'ex procuratrice del tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia, Carla Del Ponte, sarebbe stata la sede di un traffico illegale di organi, gestito da elementi dell'Uck, di cui sarebbero stati vittime prigionieri serbi.
sabato 8 maggio 2010
ONU: MINISTRO CROATO VICE-SEGRETARIO AI DIRITTI UMANI
Il segretario generale dell'Onu, Ban-Ki Moon, ha nominato il ministro della Giustizia croato, Ivan Simonovic, vice-segretario per i diritti umani. La decisione di nominare un vice-segretario generale sottolinea l'importanza che il Palazzo di vetro attribuisce alla questione dei diritti umani e rappresenta un riconoscimento prestigioso per la Croazia, anche se Simonovic dovrà lasciare il suo incarico di governo in un momento molto delicato del negoziato per l'adesione di Zagabria all'Unione Europea in cui la questione della giustizia (dalla lotta alla corruzione a quella alla criminalità) rappresenta uno dei temi più scottanti.
Sulla nomina di Simonovic riporto qui di seguito il testo della corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di questa sera di Passaggio a Sud Est in onda a Radio Radicale alle 22,30.
Il ministro della Giustizia croato Ivan Simonovic nominato vice-segretario Onu per i Diritti umani - di Marina Szikora
Una delle principali notizie della settimana in Croazia, e’ la decisione sulla scelta del ministro della giustizia Ivan Simonovic a nuovo incarico del vice segretario generale dell’Onu per i diritti umani. La scelta di Simonovic da parte del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon tra 128 candidati a questo prestigioso incarico all’Onu di New York e’ stata ufficializzata questa settimana offrendo cosi’ spazio per molti commenti in Croazia. Ragione principale il fatto che da giugno, il ministro della giustizia croato lasciera’ il suo incarico istituzionale, proprio in un momento molto delicato per il processo di negoziati di adesione della Croazia all’Ue.
E’ per la prima volta che si apre l’Ufficio per i diritti umani ad un livello cosi’ alto poiche’ i diritti umani diventano sempre piu’ importanti e rappresentano uno dei tre pilastri delle Nazioni Unite, commenta il ministro Simonovic il suo nuovo incarico e spiega che e’ stato deciso che Ginevra, sede ONU del Consiglio per i diritti umani, e’ troppo lontana e che vi e’ la necessita’ di una persona altamente posizionata a New York che potra’ decidere su tutte le questioni ad alto livello. La premier croata Jadranka Kosor vorrebbe che il ministro del suo governo rimanesse piu’ a lungo, soprattutto perche’ la Croazia sta’ affrontando proprio ora un momento molto delicato del processo di negoziati di adesione: l’incognita sull’apertura dello spinoso capitolo 23 relativo alla giustizia e diritti fondamentali il cui rinvio potrebbe trascinare i negoziati anche nell’anno prossimo e quindi ulteriormente far ritardare l’ingresso della Croazia nell’Ue.
Come spiegato dal futuro direttore dell’Ufficio per i diritti umani, la prestigiosa posizione del vice segretario generale e’ stata istituita lo scorso dicembre all’Assemblea Generale dell’Onu. Il nuovo alto funzionario per i diritti umani deve innanzitutto essere una specie di legame con l’Alto caommissario per i diritti umani, Navanathemu Pillayu. Il nuovo incarico e’ la risposta alle critiche nei confronti del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon di non aver sufficientemente e in modo agressivo promosso i diritti umani negli ultimi tre anni, da quando ha assunto l’incarico a capo delle Nazioni Unite. C’e’ da dire che accanto a Simonovic, nella concorrenza finale degli ultimi quattro in gara, c’erano Karin Ladgren, rappresentante dell’Onu che per 20 anni si e’ occupata di rifugiati, Paulo Sergio Pinheiro, diplomatico brasiliano, relatore Onu per i diritti umani in Burma e Juan Mendez, ex prigioniero politico argentino che per 15 anni ha lavorato per Human Rights Watch.
Nella fase ormai finale del suo impegno a capo del ministero della giustizia croata, Simonovic si e’ recato giovedi’ a Bruxelles per incontrare il commissario europeo per la giustizia, Viviane Rending. Tema di colloqui, l’apertura dei negoziati relativi al capitolo giustizia e diritti fondamentali. Dalla commissaria Rending, Simonovic ha saputo la lista delle misure che la Croazia deve soddisfare per poter chiudere queto capitolo. Secondo il ministro croato nelle misure presentate non ci dovrebbero essere delle richieste che la Croazia non potrebbe adempiere entro la fine dell’anno. Ha detto di aspettarsi che il capitolo giustizia possa essere aperto a giugno. Simonovic e’ convinto che il delicato capitolo 23 verra’ aperto entro l’ultimo mese del suo incarico ministeriale.
Va sottolineato che la Commissione europea ancora un anno e mezzo fa aveva valutato che la Croazia soddisfa le misure per aprire i negoziati in questo capitolo, ma alcuni stati membri hanno deciso di bloccarlo dopo che il procuratore generale dell’Aja Serge Brammertz aveva espresso insoddisfazione con la collaborazione di Zagabria in materia dei cosidetti diari di artiglieria, documenti militari relativi ai bombardamenti della citta’ di Knin durante l’operazione Tempesta con la quale l’esercito croato libero’ una gran parte del territorio sotto occupazione serba. Settimana scorsa, Simonovic aveva dichiarato che il blocco del capitolo giustizia adesso e’ del tutto politicamente motivato e che non ha niente a che fare con la situazione della giustizia in Croazia.
In una intervista alla Reuters di giovedi’, Simonovic ha avvertito che qualsiasi rinvio dei negoziati di adesione croati con l’Ue potrebbero destabilizzare il governo di Zagabria e sollecitare i nazionalismi antieuropei nella regione. "L’ Europa e’ un sogno. Se pero’ non e’ reale, ci saranno quelli che diranno, torniamo alla nostra agenda nazionalista. In Bosnia e in Serbia e’ una minaccia seria” ha detto Šimonovic.
Quanto alla Croazia, il ministro della giustizia croato ha assicurato che non si tratta della stessa minaccia ma se i negoziati non si concluderanno felicemente entro quest’anno, contribuiranno notevolmente all’instabilita’ del governo di Zagabria. “Se i negoziati non si muovono, tutta l’amarezza relativa alla situazione economica potrebbe emergere alla superfice” ha spiegato Simonovic.
Sulla nomina di Simonovic riporto qui di seguito il testo della corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di questa sera di Passaggio a Sud Est in onda a Radio Radicale alle 22,30.
Il ministro della Giustizia croato Ivan Simonovic nominato vice-segretario Onu per i Diritti umani - di Marina Szikora
Una delle principali notizie della settimana in Croazia, e’ la decisione sulla scelta del ministro della giustizia Ivan Simonovic a nuovo incarico del vice segretario generale dell’Onu per i diritti umani. La scelta di Simonovic da parte del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon tra 128 candidati a questo prestigioso incarico all’Onu di New York e’ stata ufficializzata questa settimana offrendo cosi’ spazio per molti commenti in Croazia. Ragione principale il fatto che da giugno, il ministro della giustizia croato lasciera’ il suo incarico istituzionale, proprio in un momento molto delicato per il processo di negoziati di adesione della Croazia all’Ue.
E’ per la prima volta che si apre l’Ufficio per i diritti umani ad un livello cosi’ alto poiche’ i diritti umani diventano sempre piu’ importanti e rappresentano uno dei tre pilastri delle Nazioni Unite, commenta il ministro Simonovic il suo nuovo incarico e spiega che e’ stato deciso che Ginevra, sede ONU del Consiglio per i diritti umani, e’ troppo lontana e che vi e’ la necessita’ di una persona altamente posizionata a New York che potra’ decidere su tutte le questioni ad alto livello. La premier croata Jadranka Kosor vorrebbe che il ministro del suo governo rimanesse piu’ a lungo, soprattutto perche’ la Croazia sta’ affrontando proprio ora un momento molto delicato del processo di negoziati di adesione: l’incognita sull’apertura dello spinoso capitolo 23 relativo alla giustizia e diritti fondamentali il cui rinvio potrebbe trascinare i negoziati anche nell’anno prossimo e quindi ulteriormente far ritardare l’ingresso della Croazia nell’Ue.
Come spiegato dal futuro direttore dell’Ufficio per i diritti umani, la prestigiosa posizione del vice segretario generale e’ stata istituita lo scorso dicembre all’Assemblea Generale dell’Onu. Il nuovo alto funzionario per i diritti umani deve innanzitutto essere una specie di legame con l’Alto caommissario per i diritti umani, Navanathemu Pillayu. Il nuovo incarico e’ la risposta alle critiche nei confronti del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon di non aver sufficientemente e in modo agressivo promosso i diritti umani negli ultimi tre anni, da quando ha assunto l’incarico a capo delle Nazioni Unite. C’e’ da dire che accanto a Simonovic, nella concorrenza finale degli ultimi quattro in gara, c’erano Karin Ladgren, rappresentante dell’Onu che per 20 anni si e’ occupata di rifugiati, Paulo Sergio Pinheiro, diplomatico brasiliano, relatore Onu per i diritti umani in Burma e Juan Mendez, ex prigioniero politico argentino che per 15 anni ha lavorato per Human Rights Watch.
Nella fase ormai finale del suo impegno a capo del ministero della giustizia croata, Simonovic si e’ recato giovedi’ a Bruxelles per incontrare il commissario europeo per la giustizia, Viviane Rending. Tema di colloqui, l’apertura dei negoziati relativi al capitolo giustizia e diritti fondamentali. Dalla commissaria Rending, Simonovic ha saputo la lista delle misure che la Croazia deve soddisfare per poter chiudere queto capitolo. Secondo il ministro croato nelle misure presentate non ci dovrebbero essere delle richieste che la Croazia non potrebbe adempiere entro la fine dell’anno. Ha detto di aspettarsi che il capitolo giustizia possa essere aperto a giugno. Simonovic e’ convinto che il delicato capitolo 23 verra’ aperto entro l’ultimo mese del suo incarico ministeriale.
Va sottolineato che la Commissione europea ancora un anno e mezzo fa aveva valutato che la Croazia soddisfa le misure per aprire i negoziati in questo capitolo, ma alcuni stati membri hanno deciso di bloccarlo dopo che il procuratore generale dell’Aja Serge Brammertz aveva espresso insoddisfazione con la collaborazione di Zagabria in materia dei cosidetti diari di artiglieria, documenti militari relativi ai bombardamenti della citta’ di Knin durante l’operazione Tempesta con la quale l’esercito croato libero’ una gran parte del territorio sotto occupazione serba. Settimana scorsa, Simonovic aveva dichiarato che il blocco del capitolo giustizia adesso e’ del tutto politicamente motivato e che non ha niente a che fare con la situazione della giustizia in Croazia.
In una intervista alla Reuters di giovedi’, Simonovic ha avvertito che qualsiasi rinvio dei negoziati di adesione croati con l’Ue potrebbero destabilizzare il governo di Zagabria e sollecitare i nazionalismi antieuropei nella regione. "L’ Europa e’ un sogno. Se pero’ non e’ reale, ci saranno quelli che diranno, torniamo alla nostra agenda nazionalista. In Bosnia e in Serbia e’ una minaccia seria” ha detto Šimonovic.
Quanto alla Croazia, il ministro della giustizia croato ha assicurato che non si tratta della stessa minaccia ma se i negoziati non si concluderanno felicemente entro quest’anno, contribuiranno notevolmente all’instabilita’ del governo di Zagabria. “Se i negoziati non si muovono, tutta l’amarezza relativa alla situazione economica potrebbe emergere alla superfice” ha spiegato Simonovic.
PROTEGGERE I MONASTERI DEL KOSOVO
Il Kosovo ospita, com'è noto, i più importanti luoghi sacri della chiesa ortodossa serba e anche per questo è considerato la culla della nazione. I tragici avvenimenti degli anni '90, il conflitto del 1998-99, l'esodo di gran parte dei serbi kosovari dopo la fine delle ostitilità e le difficoltà in cui vive la minoranza serba rimasta, hanno in questi anni posto il problema della tutela e della conservazione di un patrimonio che non è solo religioso ma anche storico e culturale. L'indipendenza proclamata unilateralmente dagli albanesi kosovari nel febbraio 2008 ha posto nuovi problemi senza che siano state trovate soluzioni: problemi che aumenteranno via via che verrà ridotto il contingente della Kfor che in questi anni, in particolare con la presenza dei militari italiani, aveva garantito un minimo di sicurezza delle enclave serbe dove si trovano i monumenti maggiori.
Sulla questione della protezione dei siti ortodossi serbi del Kosovo segnalo una mia intervista per Radio Radicale a Elisabetta Valgiusti, regista e documentarista, presidente dell'Associazione Salva i Monasteri. L'intervista risale allo scorso febbraio, quando ricorreva il secondo anniversario dell'indipendenza kosovara, ma non è che nel frattempo la situazione sia cambiata. Salva i Monasteri è nata qualche anno fa attorno ad un appello a favore della salvaguardia dei monasteri ortodossi e del patrimonio artistico-religioso del Kosovo e Metohija sottoscritto più di duecento studiosi, artisti, donne e uomini di cultura. L'associazione si occupa della salvaguardia del patrimonio culturale anche in altre aree di crisi come l'Iraq.
Qui è possibile riascoltare l'intervista a Elisabetta Valgiusti
Il sito dell'Associazione Salva i Monasteri
Comunque si giudichi la situazione in Kosovo e la questione dell'indipendenza io credo che tutti coloro che hanno a cuore il futuro dei Balcani dovrebbero porsi il problema della protezione e della conservazione di un patrimonio artistico, culturale e religioso che come tale appartiene non solo alla comunità serba, ma a tutta l'Europa e all'intera umanità.
Sulla questione della protezione dei siti ortodossi serbi del Kosovo segnalo una mia intervista per Radio Radicale a Elisabetta Valgiusti, regista e documentarista, presidente dell'Associazione Salva i Monasteri. L'intervista risale allo scorso febbraio, quando ricorreva il secondo anniversario dell'indipendenza kosovara, ma non è che nel frattempo la situazione sia cambiata. Salva i Monasteri è nata qualche anno fa attorno ad un appello a favore della salvaguardia dei monasteri ortodossi e del patrimonio artistico-religioso del Kosovo e Metohija sottoscritto più di duecento studiosi, artisti, donne e uomini di cultura. L'associazione si occupa della salvaguardia del patrimonio culturale anche in altre aree di crisi come l'Iraq.
Qui è possibile riascoltare l'intervista a Elisabetta Valgiusti
Il sito dell'Associazione Salva i Monasteri
Comunque si giudichi la situazione in Kosovo e la questione dell'indipendenza io credo che tutti coloro che hanno a cuore il futuro dei Balcani dovrebbero porsi il problema della protezione e della conservazione di un patrimonio artistico, culturale e religioso che come tale appartiene non solo alla comunità serba, ma a tutta l'Europa e all'intera umanità.
DISTRUZIONI E RICOSTRUZIONI IN EX-JUGOSLAVIA
Approfitto di questi giorni di convalescenza e forzata inattività per vagabondare per la rete alla ricerca di siti interessanti. Ve ne segnalo uno che ho scoperto per caso e che mi sembra interessante, caso mai non lo conosciate già. Il sito si chiama Balkan_Scapes, sottotitolo Distruzioni e Ricostruzioni in Ex-Jugoslavia. L'autore si chiama Francesco Mazzucchelli ed è ricercatore di semiotica all'università di Bologna.
Come spiega nelle note introduttive al blog, il suo lavoro si incentra sul problema del restauro architettonico e urbano affrontato dal punto di vista semiotico, ma anche da quello culturologico affrontando le questioni relative al restauro non solo sotto l'aspetto estetico, ma anche etico e politico. L'intento è quello di paragonare ogni intervento di restauro architettonico, soprattutto quando riguarda beni di particolare valore simbolico, ad una vera e propria pratica di scrittura che agisce su quel particolare testo che sono le nostre città. Da qui deriva l'interesse per gli aspetti politici del restauro, quelli legati ai tentativi di ricollegarsi al passato della comunità che li attua e di inscrivere in esso la propria identità e la propria idea di presente e di futuro. "Visto così, il restauro - scrive Francesco Mazzucchelli - diventa una forma di scrittura, e non solo una scrittura nella memoria, nel retroterra condiviso che fa da collante ad una società; ma anche e soprattutto una scrittura della memoria, attraverso cui una società 'costruisce' il proprio passato, stabilisce una continuità con i suoi eventi passati e si appropria di una identità".
Partendo da queste premesse Mazzucchelli ha deciso di restringere il campo e focalizzare l'attenzione su un tipo specifico di interventi di restauro quali sono i restauri post-bellici perché "uno dei momenti storici in cui le questioni relative alle ricostruzioni e ai restauri urbani si impongono con più forza [...] è quello in cui un paese esce da un evento catastrofico e distruttivo come un conflitto armato. La distruzione causata da un evento bellico è paragonabile ad un trauma collettivo e l'intervento di restauro, in questi casi, assume il significato di una sorta di 'cerimoniale di riparazione all'evento luttuoso subito', per usare le parole dell'architetto/restauratore Paolo Marconi".
Il passaggio successivo all'esame della realtà balcanica è stato a questo punto naturale. "Uno degli aspetti più centrali delle guerre jugoslave risiede nel fatto che esse sono diventate [...] l'emblema di un tipo di guerra e di aggressione diretta soprattutto ai valori civici, sociali, cosmopoliti rappresentati dai centri urbani jugoslavi", scrive Mazzucchelli ricordando una parola coniata da Bogdan Bogdanovic, importante architetto serbo, ex sindaco di Begrado nei primi anni '90 e acceso contestatore di Milosevic: urbicidio. "L'urbicidio a cui sono state sottoposte le città jugoslave - spiega Mazzucchelli - ha fatto scattare in me un interesse insano per il tessuto sociale e urbano delle martoriate città (ex-)jugoslave, un tessuto che non è mai sfondo inerte, né una scenografia, abitata e affollata dai suoi cittadini, ma che sembra, forse qui più che in altri posti, la carne viva, anche se scarnificata, di quel che resta della società (una volta) jugoslava".
Come spiega nelle note introduttive al blog, il suo lavoro si incentra sul problema del restauro architettonico e urbano affrontato dal punto di vista semiotico, ma anche da quello culturologico affrontando le questioni relative al restauro non solo sotto l'aspetto estetico, ma anche etico e politico. L'intento è quello di paragonare ogni intervento di restauro architettonico, soprattutto quando riguarda beni di particolare valore simbolico, ad una vera e propria pratica di scrittura che agisce su quel particolare testo che sono le nostre città. Da qui deriva l'interesse per gli aspetti politici del restauro, quelli legati ai tentativi di ricollegarsi al passato della comunità che li attua e di inscrivere in esso la propria identità e la propria idea di presente e di futuro. "Visto così, il restauro - scrive Francesco Mazzucchelli - diventa una forma di scrittura, e non solo una scrittura nella memoria, nel retroterra condiviso che fa da collante ad una società; ma anche e soprattutto una scrittura della memoria, attraverso cui una società 'costruisce' il proprio passato, stabilisce una continuità con i suoi eventi passati e si appropria di una identità".
Partendo da queste premesse Mazzucchelli ha deciso di restringere il campo e focalizzare l'attenzione su un tipo specifico di interventi di restauro quali sono i restauri post-bellici perché "uno dei momenti storici in cui le questioni relative alle ricostruzioni e ai restauri urbani si impongono con più forza [...] è quello in cui un paese esce da un evento catastrofico e distruttivo come un conflitto armato. La distruzione causata da un evento bellico è paragonabile ad un trauma collettivo e l'intervento di restauro, in questi casi, assume il significato di una sorta di 'cerimoniale di riparazione all'evento luttuoso subito', per usare le parole dell'architetto/restauratore Paolo Marconi".
Il passaggio successivo all'esame della realtà balcanica è stato a questo punto naturale. "Uno degli aspetti più centrali delle guerre jugoslave risiede nel fatto che esse sono diventate [...] l'emblema di un tipo di guerra e di aggressione diretta soprattutto ai valori civici, sociali, cosmopoliti rappresentati dai centri urbani jugoslavi", scrive Mazzucchelli ricordando una parola coniata da Bogdan Bogdanovic, importante architetto serbo, ex sindaco di Begrado nei primi anni '90 e acceso contestatore di Milosevic: urbicidio. "L'urbicidio a cui sono state sottoposte le città jugoslave - spiega Mazzucchelli - ha fatto scattare in me un interesse insano per il tessuto sociale e urbano delle martoriate città (ex-)jugoslave, un tessuto che non è mai sfondo inerte, né una scenografia, abitata e affollata dai suoi cittadini, ma che sembra, forse qui più che in altri posti, la carne viva, anche se scarnificata, di quel che resta della società (una volta) jugoslava".
venerdì 7 maggio 2010
GRECIA: LA STORIA PRESENTA IL CONTO. CHI PAGHERA'?
Il Parlamento di Atene ha approvato il nuovo piano che grazie ai prestiti dell'Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale dovrebbe evitare il fallimento della Grecia. Come previsto il piano è stato votato dal solo Partito Socialista (Pasok) a cui si è aggiunto il piccolo partito di estrema destra Laos: in totale 172 voti a favore e 121 contrari. Hanno votato contro la manovra Nea Demokratia (il partito di centrodestra il cui governo, al potere fino allo scorso ottobre, è accusato di aver di fatto truccato i bilanci nascondendo il baratro che si stava aprendo nei conti pubblici del Paese), i comunisti del Kke e la sinistra radicale di Syriza. Da segnalare il voto a favore del piano dell’ex ministro degli Esteri Dora Bakoyannis, deputata di Nd, che per questo è stata subito espulsa dal gruppo parlamentare. Stessa sorte toccata ai tre deputati del Pasok che si sono astenuti: un provvedimento che assottiglia la maggioranza socialista che ora dispone di 157 voti su 300, margine non troppo rassicurante in vista delle prove che il governo dovrà ancora superare in Parlamento.
Forse anche per questo Papandreou ha invitato tutte le forze politiche ad assumersi le proprie responsabilità, rivolgendosi in particolare al leader di Nd, Antonis Samaras, ma così non è stato. La seduta trasmessa in diretta tv ha mostrato i parlamentari che si rinfacciavano a vicenda le colpe della situazione, non dando certo prova di quella unità nazionale che forse sarebbe necessaria in momento così difficile. Il piano di risanamento è effettivamente molto duro: in cambio di 110 miliardi di euro da Ue e Fmi in tre anni, la Grecia deve tagliare pesantemente salari e pensioni dei dipendenti pubblici, imporre nuove tasse, congelare le assunzioni e ridurre le garanzie e gli stipendi ai lavoratori del settore privato. Inoltre, l’età pensionabile sarà elevata a 65 anni, le indennità saranno indicizzate all’inflazione e nei prossimi tre anni verrà mantenuta la tassa «una tantum» sugli utili delle imprese. L'obiettivo è di ridurre il deficit sotto il 3% entro il 2013.
Fuori dal palazzo, nonostante lo choc provocato dalla morte dei tre impiegati rimasti intrappolati nell'incendio appiccato alla Marfin Egnatia Bank in cui stavano lavorando, le tensioni sociali non accennano a spegnersi e con esse le proteste anche violente: ancora ieri sera ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti davanti al Parlamento. Le manifestazioni sono proseguite anche oggi durante il voto sul piano di austerità. La Grecia è divisa, le misure imposte di fatto dalla comunità internazionale per dare via libera ai prestiti suscitano l'ira di molti, ma Papandreou si è mostrato deciso ad andare avanti per "salvare il Paese dalla bancarotta". "Votiamo e applichiamo l'accordo, altrimenti condanniamo la Grecia al fallimento", ha dichiarato il premier prima del voto. "Alcuni lo vogliono, speculano e sperano che arrivi. Noi, io, non lo permetteremo. Non permetteremo né la speculazione contro il nostro Paese, né che arrivi il fallimento".
Nonostante le proteste Papandreou si è detto quindi pronto ad andare avanti anche se questo fosse il suo ultimo mandato e ha annunciato che porterà in tribunale "i responsabili della crisi economica" a partire dall’ex premier Costas Karamanlis. Quando quest'ultimo andò al governo, nel 2004, la Grecia aveva 180 miliardi di euro di debito. Nel 2009, quando ha dovuto cedere la poltrona a Papandreou, si è scoperto che il rosso era salito a 300 miliardi. Sorge inevitabile la domanda: che fine hanno fatto i restanti 120 miliardi? Forse anche per questo il nuovo leader del partito conservatore, Antonis Samaras, non ha raccolto l'appello all'unità nazionale temendo di dover cedere all'istituzione di una commissione d'inchiesta parlamentare sugli ultimi dieci anni di gestione dei conti pubblici.
Papandreou, da parte sua, si trova anche politicamente in una posizione molto scomoda e delicata. Le tre astensioni parlamentari indicano che ci sono malumori nel suo stesso partito, mentre i sindacati pur condannando le violenze hanno intensificato i loro appelli alla lotta contro misure che giudicano ingiuste. Intanto oggi il premier è potuto però andare al vertice di Bruxelles con l'obiettivo dell'approvazione del piano di austerità raggiunto, come aveva promesso, e cercando di presentare una Grecia intenzionata a mantenere gli impegni e a non truccare più le carte, nonostante una durissima opposizione sociale e con il rischio di far pagare un costo politico enorme al Partito socialista dopo l'ampia vittoria con cui era tornato al governo in ottobre infliggendo una dura sconfitta a Nea Demokratia. Ma al di là dei problemi contingenti e delle scelte tattiche della politica, resta la necessità non più rinviabile di mettere mano ai problemi di fondo della società greca: corruzione, clientelismo, economia sommersa, evasione fiscale, espansione abnorme del settore pubblico. Un groviglio inestricabile che con l'esplodere della crisi globale non è riuscito più a sostenersi e sta crollando pesantemente. Come dire che la storia sta ancora una volta presentando il conto: i lavoratori greci non vorrebbero però essere lasciati soli a pagare per tutti.
Forse anche per questo Papandreou ha invitato tutte le forze politiche ad assumersi le proprie responsabilità, rivolgendosi in particolare al leader di Nd, Antonis Samaras, ma così non è stato. La seduta trasmessa in diretta tv ha mostrato i parlamentari che si rinfacciavano a vicenda le colpe della situazione, non dando certo prova di quella unità nazionale che forse sarebbe necessaria in momento così difficile. Il piano di risanamento è effettivamente molto duro: in cambio di 110 miliardi di euro da Ue e Fmi in tre anni, la Grecia deve tagliare pesantemente salari e pensioni dei dipendenti pubblici, imporre nuove tasse, congelare le assunzioni e ridurre le garanzie e gli stipendi ai lavoratori del settore privato. Inoltre, l’età pensionabile sarà elevata a 65 anni, le indennità saranno indicizzate all’inflazione e nei prossimi tre anni verrà mantenuta la tassa «una tantum» sugli utili delle imprese. L'obiettivo è di ridurre il deficit sotto il 3% entro il 2013.
Fuori dal palazzo, nonostante lo choc provocato dalla morte dei tre impiegati rimasti intrappolati nell'incendio appiccato alla Marfin Egnatia Bank in cui stavano lavorando, le tensioni sociali non accennano a spegnersi e con esse le proteste anche violente: ancora ieri sera ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti davanti al Parlamento. Le manifestazioni sono proseguite anche oggi durante il voto sul piano di austerità. La Grecia è divisa, le misure imposte di fatto dalla comunità internazionale per dare via libera ai prestiti suscitano l'ira di molti, ma Papandreou si è mostrato deciso ad andare avanti per "salvare il Paese dalla bancarotta". "Votiamo e applichiamo l'accordo, altrimenti condanniamo la Grecia al fallimento", ha dichiarato il premier prima del voto. "Alcuni lo vogliono, speculano e sperano che arrivi. Noi, io, non lo permetteremo. Non permetteremo né la speculazione contro il nostro Paese, né che arrivi il fallimento".
Nonostante le proteste Papandreou si è detto quindi pronto ad andare avanti anche se questo fosse il suo ultimo mandato e ha annunciato che porterà in tribunale "i responsabili della crisi economica" a partire dall’ex premier Costas Karamanlis. Quando quest'ultimo andò al governo, nel 2004, la Grecia aveva 180 miliardi di euro di debito. Nel 2009, quando ha dovuto cedere la poltrona a Papandreou, si è scoperto che il rosso era salito a 300 miliardi. Sorge inevitabile la domanda: che fine hanno fatto i restanti 120 miliardi? Forse anche per questo il nuovo leader del partito conservatore, Antonis Samaras, non ha raccolto l'appello all'unità nazionale temendo di dover cedere all'istituzione di una commissione d'inchiesta parlamentare sugli ultimi dieci anni di gestione dei conti pubblici.
Papandreou, da parte sua, si trova anche politicamente in una posizione molto scomoda e delicata. Le tre astensioni parlamentari indicano che ci sono malumori nel suo stesso partito, mentre i sindacati pur condannando le violenze hanno intensificato i loro appelli alla lotta contro misure che giudicano ingiuste. Intanto oggi il premier è potuto però andare al vertice di Bruxelles con l'obiettivo dell'approvazione del piano di austerità raggiunto, come aveva promesso, e cercando di presentare una Grecia intenzionata a mantenere gli impegni e a non truccare più le carte, nonostante una durissima opposizione sociale e con il rischio di far pagare un costo politico enorme al Partito socialista dopo l'ampia vittoria con cui era tornato al governo in ottobre infliggendo una dura sconfitta a Nea Demokratia. Ma al di là dei problemi contingenti e delle scelte tattiche della politica, resta la necessità non più rinviabile di mettere mano ai problemi di fondo della società greca: corruzione, clientelismo, economia sommersa, evasione fiscale, espansione abnorme del settore pubblico. Un groviglio inestricabile che con l'esplodere della crisi globale non è riuscito più a sostenersi e sta crollando pesantemente. Come dire che la storia sta ancora una volta presentando il conto: i lavoratori greci non vorrebbero però essere lasciati soli a pagare per tutti.
domenica 2 maggio 2010
LA GRECIA E LA CRISI VISTA DAI GRECI
La Grecia è sull'orlo del baratro e rischia di trascinare altri Paesi nel suo disastro economico e di mettere in forse il futuro della stessa moneta unica europea. Sulle cause, le conseguenze e i possibili rimedi di questa situazione politici ed economisti si confrontano e polemizzano da mesi. Proprio oggi il primo ministro, George Papandreou, ha annunciato che il suo governo ha raggiunto l'accordo con l'Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale per un piano di salvataggio che eviterà al suo paese la bancarotta. L'accordo, ha spiegato il premier socialista, comporterà "grandi sacrifici". I provvedimenti saranno molto duri: ai lavoratori del settore pubblico saranno congelati stipendi e pensioni e tagliate le indennità e la13ma e 14ma mensilità, mentre per nel settore privato saranno ridotti straordinari e indennità di licenziamento e sarà resa più elastica la possibilità di mandare a casa i lavoratori. A questi provevdimenti si accompagneranno l'aumento dell'iva e delle tasse su molti beni di consumo.
Oltre alle analisi degli esperti di economia e alle decisioni politiche, è interessante quindi capire anche quali sono i sentimenti e gli umori dei greci. In che modo vivono la crisi e come stanno affrontando la situazione coloro che dovranno farsi carico delle misure preannunciate dal governo socialista per uscire da una situazione pesantissima. A questo proposito segnalo una mia intervista per Radio Radicale a Gilda Lyghounis, corrispondente da Atene di Osservatorio Balcani e Caucaso e del Foglio. Il quadro della realtà che esce dall'intervista rivela alcuni aspetti sorprendenti e inaspettati pur tra le grandi difficoltà del momento.
I greci vivono la situazione con rabbia, dolore e rassegnazione, ma si rendono conto che i sacrifici sono necessari e inevitabili e che è necessario mettere mano ai problemi. Vorrebbero però che i sacrifici fossero distribuiti in maniera equa e che a tirare la cinghia non fossero sempre i soliti. Anche gli aiuti internazionali sono ritenuti necessari, ma viene vissuto con fastidio l'intervento del Fondo Monetario Internazionale. Il Fmi è visto come una "longa manus" degli Usa, non particolarmente ben visti da molti greci che li ritengono pur sempre i responsabili della dittatura dei colonnelli. Di contro, nonostante la politica "lacrime e sangue" annunciata dal governo socialista, il Pasok mantiene dieci punti di vantaggio su Nea Demokratia e Papandreou viene ritenuto il più adatto per riportare la Grecia in carreggiata.
Certo la crisi c'è e si fa sentire, nonostante gli esperti del Fmi ritengano che le pensioni (che attualmente in media viaggiano sui 600 euro al mese) possano essere ridotte. Lo si capisce dalle 75mila abitazioni pignorate dalle banche perché i proprietari non riescono più a pagare i mutui (e sono abitazioni medio-piccole). Oppure dal fatto che ben pochi fanno il pieno alla macchina preferendo fare rifornimenti da 10/15 euro per volta, calcolando in anticipo il tragitto più breve per risparmiare benzina e non più, come una volta, per trovare il tragitto migliore nel proverbiale caos del traffico di Atene. Che per altro comincia a non essere più così congestionato.
Altri segnali che la crisi morde dolorosamente: il maggior numero di persone che si rivolgono ai pronto soccorso degli ospedali invece che affrontare la spesa di una visita specialistica, l'aumento delle automobili abbandonate dai proprietari non più in grado di mantenerle, il crollo del prezzo delle case e la conseguente difficoltà di molti piccoli proprietari che avrebbero bisogno di vendere la casetta al mare o in campagna magari per poter continuare a mantenere i figli all'università. Il timore di molti, a questo punto, è che la difficile situazione economica possa esasperare le tensioni sociali e provocare uno scoppio di violenza uguale o maggiore di quello che sconvolse le città greche nell'inverno 2008-2009. Fino ad ora non è successo e gli incidenti che hanno accompagnato le manifestazioni sindacali, anche ieri 1° maggio, sono stati piuttosto contenuti.
E' interessante anche notare come non sia venuto meno il sentimento europeista dei greci, fieri di essere stati in grado di entrare nell'euro, ma che soprattutto hanno beneficiato in maniera consistente dei fondi europei. Mentre fuori dai suoi confini si discute se la Grecia possa ancora fare parte o no dell'euro, all'interno, tranne i comunisti duri e puri del Kke (che comunque è il quarto partito), nessuno chiede il ritorno alla dracma o l'uscita dall'UE. Piuttosto forte, invece, il risentimento verso i tedeschi che si traduce anche in un boicottaggio di prodotti "made in Germany". E nonostante tutto molti greci (l'80% secondo un sondaggio) pensano che questa crisi possa anche essere salutare per il Paese e 2/3 fanno addirittura progetti per il futuro. Certo, sono sondaggi da prendere per quello che sono, ma accanto al risentimento e alla rabbia verso una classe politica che non ha saputo evitare la crisi, non di meno questi dati rivelano aspetti interessanti degli umori dell'opinione pubblica greca alla prese con una crisi che non ha paragoni nella storia dell'unità europea.
L'intervista a Gilda Lyghounis è ascoltabile direttamente qui
Oltre alle analisi degli esperti di economia e alle decisioni politiche, è interessante quindi capire anche quali sono i sentimenti e gli umori dei greci. In che modo vivono la crisi e come stanno affrontando la situazione coloro che dovranno farsi carico delle misure preannunciate dal governo socialista per uscire da una situazione pesantissima. A questo proposito segnalo una mia intervista per Radio Radicale a Gilda Lyghounis, corrispondente da Atene di Osservatorio Balcani e Caucaso e del Foglio. Il quadro della realtà che esce dall'intervista rivela alcuni aspetti sorprendenti e inaspettati pur tra le grandi difficoltà del momento.
I greci vivono la situazione con rabbia, dolore e rassegnazione, ma si rendono conto che i sacrifici sono necessari e inevitabili e che è necessario mettere mano ai problemi. Vorrebbero però che i sacrifici fossero distribuiti in maniera equa e che a tirare la cinghia non fossero sempre i soliti. Anche gli aiuti internazionali sono ritenuti necessari, ma viene vissuto con fastidio l'intervento del Fondo Monetario Internazionale. Il Fmi è visto come una "longa manus" degli Usa, non particolarmente ben visti da molti greci che li ritengono pur sempre i responsabili della dittatura dei colonnelli. Di contro, nonostante la politica "lacrime e sangue" annunciata dal governo socialista, il Pasok mantiene dieci punti di vantaggio su Nea Demokratia e Papandreou viene ritenuto il più adatto per riportare la Grecia in carreggiata.
Certo la crisi c'è e si fa sentire, nonostante gli esperti del Fmi ritengano che le pensioni (che attualmente in media viaggiano sui 600 euro al mese) possano essere ridotte. Lo si capisce dalle 75mila abitazioni pignorate dalle banche perché i proprietari non riescono più a pagare i mutui (e sono abitazioni medio-piccole). Oppure dal fatto che ben pochi fanno il pieno alla macchina preferendo fare rifornimenti da 10/15 euro per volta, calcolando in anticipo il tragitto più breve per risparmiare benzina e non più, come una volta, per trovare il tragitto migliore nel proverbiale caos del traffico di Atene. Che per altro comincia a non essere più così congestionato.
Altri segnali che la crisi morde dolorosamente: il maggior numero di persone che si rivolgono ai pronto soccorso degli ospedali invece che affrontare la spesa di una visita specialistica, l'aumento delle automobili abbandonate dai proprietari non più in grado di mantenerle, il crollo del prezzo delle case e la conseguente difficoltà di molti piccoli proprietari che avrebbero bisogno di vendere la casetta al mare o in campagna magari per poter continuare a mantenere i figli all'università. Il timore di molti, a questo punto, è che la difficile situazione economica possa esasperare le tensioni sociali e provocare uno scoppio di violenza uguale o maggiore di quello che sconvolse le città greche nell'inverno 2008-2009. Fino ad ora non è successo e gli incidenti che hanno accompagnato le manifestazioni sindacali, anche ieri 1° maggio, sono stati piuttosto contenuti.
E' interessante anche notare come non sia venuto meno il sentimento europeista dei greci, fieri di essere stati in grado di entrare nell'euro, ma che soprattutto hanno beneficiato in maniera consistente dei fondi europei. Mentre fuori dai suoi confini si discute se la Grecia possa ancora fare parte o no dell'euro, all'interno, tranne i comunisti duri e puri del Kke (che comunque è il quarto partito), nessuno chiede il ritorno alla dracma o l'uscita dall'UE. Piuttosto forte, invece, il risentimento verso i tedeschi che si traduce anche in un boicottaggio di prodotti "made in Germany". E nonostante tutto molti greci (l'80% secondo un sondaggio) pensano che questa crisi possa anche essere salutare per il Paese e 2/3 fanno addirittura progetti per il futuro. Certo, sono sondaggi da prendere per quello che sono, ma accanto al risentimento e alla rabbia verso una classe politica che non ha saputo evitare la crisi, non di meno questi dati rivelano aspetti interessanti degli umori dell'opinione pubblica greca alla prese con una crisi che non ha paragoni nella storia dell'unità europea.
L'intervista a Gilda Lyghounis è ascoltabile direttamente qui