A livello ufficiale, per ora, ci sono solo dichiarazioni ottimistiche, ma la mediazione di Frattini sembrerebbe riuscita: Belgrado e Pristina dovrebbero partecipare insieme al vertice internazionale sui Balcani in programma il 2 giugno prossimo a Sarajevo. Come dichiarato mercoledì dal nostro ministero degli Esteri nella nota che ho riportato nel post precedente il riferimento è al cosiddetto "formato Gymnich" adottato nelle riunioni informali dei ministri degli Esteri dell'Ue e proposto da Frattini ai suoi omologhi serbo e kosovaro, Vuk Jeremic e Skender Hyseni, per aggirare l'ostacolo dei veti incrociati tra Serbia e Kosovo per cui Belgrado rifiuta di partecipare agli incontri internazionali in cui il Kosovo si presenti come stato indipendente e sovrano, considerandolo tutt'ora una provincia serba sotto protettorato Onu in base alla risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, mentre Pristina non si considera più tale dal 17 febbraio 2008, giorno in cui ha proclamato unilateralmente la sua indipendenza.
La formula proposta dal ministro degli esteri italiano prevede che i partecipanti al vertice si siedano intorno al tavolo come persone e non come rappresentanti di Paesi, senza bandiere o simboli ufficiali. Secondo il quotidiano kosovaro Express "l'Unione europea pensa di aver trovato la formula che assicurerà la partecipazione di tutti gli Stati della regione" e in effetti, secondo l'emittente balgradese B92, il compromesso sarebbe accettato sia da Belgrado, sia da Pristina. Ieri il quotidano serbo serbo Blic titolava "Belgrado e Pristina allo stesso tavolo a Sarajevo" in maniera pressoché identica a quello kosovaro Zeri che scriveva "Pristina e Belgrado al summit di Sarajevo". E mentre il principale giornale di Pristina, Koha Ditore, parlava di "Conferenza informale a Sarajevo", Radio Kim, l'emittente dei serbi del Kosovo, apriva i suoi notiziari annunciando che Serbia e Kosovo saranno "a Sarajevo senza i simboli statali".
In realtà restano ancora diverse questioni ancora da definire, come per esempio la definizione del ruolo dell'ambasciatore Lamberto Zannier, capo di Unmik, la missione Onu in Kosovo che esercita il protettorato internazionale sul Paese. Pristina non gradisce, ovviamente, di partecipare al vertice sotto tutela, come invece pretende Belgrado. Ci sono, dunque, ancora varie questioni, non di poco conto, da definire e risolvere, ma certo il lavorio diplomatico in corso sembra far ben sperare sull'esito del summit di Sarajevo. Intanto è da notare una certa comunanza di opinioni tra la stampa serba e quella kosovara. E' probabile, per non dire sicuro, che dalla conferenza internazionale del 2 giugno non usciranno risultati concreti, ma già mettere attorno ad un tavolo tutti gli attori della regione per la prima volta dopo i conflitti degli anni '90, se così sarà, costituisce di per sé un successo. A Sarajevo, oltra ai Paesi balcanici e all'Ue, ci saranno anche Usa, Russia e Turchia. Se anche loro mostreranno una volontà concreta di contribuire alla stabilizzazione e alla pacificazione dell'area, forse potremo dire che una pagina nuova è stata aperta.
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venerdì 30 aprile 2010
mercoledì 28 aprile 2010
CONFERENZA SUI BALCANI: IN VISTA ACCORDO SERBIA-KOSOVO
Da una nota pubblicata sul sito del ministero degli Esteri
28 Aprile 2010 - Si va verso una "soluzione tecnica" che permetta di trovare un accordo tra Kosovo e Serbia "affinché tutti possano contribuire al successo della Conferenza internazionale" UE-Balcani del 2 giugno a Sarajevo, "in piena dignità e rispetto per ciascun partecipante". Lo ha detto il Ministro Franco Frattini nel corso della sua missione in Serbia e Kosovo. L’Italia ha infatti proposto che i due Paesi siedano al tavolo di Sarajevo secondo il modello 'Gymnich', dove si può “prendere la parola ognuno per sé, ognuno in quanto tale” e non come Paese. E sia il Kosovo sia la Serbia, ha annunciato il Ministro, si sono detti disponibili a questa formula.
Alla Conferenza di Sarajevo ci saranno anche rappresentanti di USA, Russia, Turchia e di importanti organizzazioni internazionali. Il significato della conferenza, ha spiegato Frattini, sarà di “confermare che i Balcani occidentali non hanno altra alternativa a quella di aderire gradualmente all'Unione europea”. E l’Europa “deve prendere l’iniziativa” altrimenti “ci saranno forze centrifughe che porteranno la regione verso altri centri”.
L’Italia è il principale sponsor dell’ingresso della Serbia nell’UE. A Belgrado, incontrando il Presidente serbo Boris Tadic, il Vicepremier Bozidar Djelic e il Ministro degli Esteri Vuk Jeremic, Frattini ha puntualizzato che il Kosovo non deve essere una condizione per l'ulteriore cammino della Serbia verso l'Unione europea. Poi, ha ribadito che l’obiettivo è che per l’inizio del 2011 vi sia una decisione sullo status di Paese candidato. Al tempo stesso, ha aggiunto, “dobbiamo decidere la ratifica dell'Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA) tra la Serbia e l’UE, che è sospeso, e “l'Italia vuole essere il primo Paese europeo a ratificare l'ASA dopo il via libera della Commissione”. Il Ministro Jeremic ha ringraziato ancora una volta il collega Frattini e il governo italiano per il costante appoggio dimostrato per l'integrazione europea della Serbia.
Per quanto riguarda i rapporti bilaterali, Frattini ha assicurato: “Vogliamo mantenere il primo posto come partner commerciale” raggiunto quest'anno. Di rapporti “ottimi” ha parlato anche Jeremic: “Abbiamo convenuto di accelerare la collaborazione politica ed economica - ha affermato - ed è un piacere confermare che il secondo vertice italo-serbo si terrà a Belgrado in ottobre”. E L'Italia apprezza molto l'idea della Serbia di un progetto '2020' per lo sviluppo economico dei Balcani, ossia una strategia regionale in linea con le priorità adottate dalla strategia Ue2020, ha spiegato Frattini dopo l’incontro con il vicepremier serbo Djelic.
Anche “il futuro del Kosovo è nell’Unione Europea”, ha detto a Pristina il Ministro Frattini, ricordando ai vertici kosovari che "l'Italia ha da sempre sostenuto il Kosovo, anche in momenti difficili”. Il primo passo è di "fare ogni sforzo per arrivare il prima possibile a un accordo commerciale tra l'UE e il Kosovo" e di concedere la liberalizzazione dei visti ai cittadini kosovari "non appena tutte le riforme richieste saranno state implementate”. Sul fronte dei rapporti bilaterali, “l’Italia è il secondo partner commerciale tra i paesi europei ma vogliamo fare di più”. Per questo “la prossima settimana il viceministro con delega al commercio Estero Adolfo Urso verrà qui a Pristina con una delegazione di imprenditori italiani per rafforzare la presenza dei nostri investimenti”.
28 Aprile 2010 - Si va verso una "soluzione tecnica" che permetta di trovare un accordo tra Kosovo e Serbia "affinché tutti possano contribuire al successo della Conferenza internazionale" UE-Balcani del 2 giugno a Sarajevo, "in piena dignità e rispetto per ciascun partecipante". Lo ha detto il Ministro Franco Frattini nel corso della sua missione in Serbia e Kosovo. L’Italia ha infatti proposto che i due Paesi siedano al tavolo di Sarajevo secondo il modello 'Gymnich', dove si può “prendere la parola ognuno per sé, ognuno in quanto tale” e non come Paese. E sia il Kosovo sia la Serbia, ha annunciato il Ministro, si sono detti disponibili a questa formula.
Alla Conferenza di Sarajevo ci saranno anche rappresentanti di USA, Russia, Turchia e di importanti organizzazioni internazionali. Il significato della conferenza, ha spiegato Frattini, sarà di “confermare che i Balcani occidentali non hanno altra alternativa a quella di aderire gradualmente all'Unione europea”. E l’Europa “deve prendere l’iniziativa” altrimenti “ci saranno forze centrifughe che porteranno la regione verso altri centri”.
L’Italia è il principale sponsor dell’ingresso della Serbia nell’UE. A Belgrado, incontrando il Presidente serbo Boris Tadic, il Vicepremier Bozidar Djelic e il Ministro degli Esteri Vuk Jeremic, Frattini ha puntualizzato che il Kosovo non deve essere una condizione per l'ulteriore cammino della Serbia verso l'Unione europea. Poi, ha ribadito che l’obiettivo è che per l’inizio del 2011 vi sia una decisione sullo status di Paese candidato. Al tempo stesso, ha aggiunto, “dobbiamo decidere la ratifica dell'Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA) tra la Serbia e l’UE, che è sospeso, e “l'Italia vuole essere il primo Paese europeo a ratificare l'ASA dopo il via libera della Commissione”. Il Ministro Jeremic ha ringraziato ancora una volta il collega Frattini e il governo italiano per il costante appoggio dimostrato per l'integrazione europea della Serbia.
Per quanto riguarda i rapporti bilaterali, Frattini ha assicurato: “Vogliamo mantenere il primo posto come partner commerciale” raggiunto quest'anno. Di rapporti “ottimi” ha parlato anche Jeremic: “Abbiamo convenuto di accelerare la collaborazione politica ed economica - ha affermato - ed è un piacere confermare che il secondo vertice italo-serbo si terrà a Belgrado in ottobre”. E L'Italia apprezza molto l'idea della Serbia di un progetto '2020' per lo sviluppo economico dei Balcani, ossia una strategia regionale in linea con le priorità adottate dalla strategia Ue2020, ha spiegato Frattini dopo l’incontro con il vicepremier serbo Djelic.
Anche “il futuro del Kosovo è nell’Unione Europea”, ha detto a Pristina il Ministro Frattini, ricordando ai vertici kosovari che "l'Italia ha da sempre sostenuto il Kosovo, anche in momenti difficili”. Il primo passo è di "fare ogni sforzo per arrivare il prima possibile a un accordo commerciale tra l'UE e il Kosovo" e di concedere la liberalizzazione dei visti ai cittadini kosovari "non appena tutte le riforme richieste saranno state implementate”. Sul fronte dei rapporti bilaterali, “l’Italia è il secondo partner commerciale tra i paesi europei ma vogliamo fare di più”. Per questo “la prossima settimana il viceministro con delega al commercio Estero Adolfo Urso verrà qui a Pristina con una delegazione di imprenditori italiani per rafforzare la presenza dei nostri investimenti”.
PASSAGGIO SPECIALE
La situazione economica e gli effetti della crisi greca nell'Europa sud orientale
Lo Speciale di Passaggio a Sud Est, approfondimento settimanale sulla situazione dell'Europa sud orientale, in onda questa sera alle 23,30 a Radio Radicale è dedicato agli effetti della gravissima crisi econimica greca nei Balcani con particolare attenzione alla situazione in Albania, Croazia, Romania e Serbia.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura, è gia disponibile per l'ascolto o il podcasting sul sito di Radio Radicale nella sezione delle Rubriche, oppure può essere ascoltata direttamente qui sotto.
Lo Speciale di Passaggio a Sud Est, approfondimento settimanale sulla situazione dell'Europa sud orientale, in onda questa sera alle 23,30 a Radio Radicale è dedicato agli effetti della gravissima crisi econimica greca nei Balcani con particolare attenzione alla situazione in Albania, Croazia, Romania e Serbia.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura, è gia disponibile per l'ascolto o il podcasting sul sito di Radio Radicale nella sezione delle Rubriche, oppure può essere ascoltata direttamente qui sotto.
CONFERENZA SUI BALCANI: DIPLOMAZIE AL LAVORO PER GARANTIRE IL SUCCESSO
Di Marina Szikora (*)
I ministri della Spagna, a nome della presidenza europea, e della Serbia, Miguel Angel Moratinos e Vuk Jeremic, hanno valutato mercoledi’ [21 aprile, ndr] in un incontro bilaterale svoltosi a Belgrado che le relazioni tra i due paesi sono molto buone e si sono detti fiduciosi che alla prossima, tanto attesa conferenza ministeriale che si svolgera’ a Sarajevo, organizzata dalla presidenza spagnola all’Ue, sara’ raggiunto un pieno successo. Secondo Jeremic, il parere dei due capi di diplomazia e’ che bisogna dare un nuovo impulso alla cooperazione regionale e alle integrazioni europee della regione. Pero’ il ministro degli esteri serbo ha ribadito anche la posizione della Serbia relativa alla partecipazione delle “istituzioni temporanee di Pristina” a questa conferenza, il che implica il pieno rispetto del diritto internazionale e la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. “E’ una posizione ferma della Serbia che non cambiera’. “La voce di Pristina deve essere sentita nelle organizzazioni di carattere regionale come si e’ sentita anche prima della proclamazione unilaterale dell’indipendenza, ma questa partecipazione non puo’ in nessun modo implicare alcun cambiamento dello status della regione meridionale serba” e’ stato esplicito Vuk Jeremic. Il ministro Moratinos da parte sua ha detto che le posizioni di tutti i Paesi della regione sono note e non cambieranno, ma si tratta di impegnare gli sforzi affinche’ sia possibile una migliore cooperazione regionale. “La presidenza spagnola all’Ue e’ convinta che la conferenza avra’ pieno successo e che Sarajevo sara’ una svolta nel contesto dell’impegno europeo nei Balcani occidentali”, ha detto il ministro degli esteri spagnolo Moratinos.
C’e’ da dire che il capo della diplomazia spagnola in questi giorni e’ stato in missione nell’ambito di una specie di tour regionale. Dopo aver visitato Skoplje, dalla capitale della Macedonia si e’ recato a Belgrado, insieme al ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu per incontrare il presidente serbo Boris Tadic e il ministro Jeremic. Dalla Serbia il viaggio e’ proseguito poi in Montenegro. Alla riunione trilaterale tra Serbia, Spagna e Turchia a Belgrado, come scrive il quotidiano serbo ‘Blic’, sono stati considerati diversi modelli per la partecipazione dei rappresentanti del Kosovo alla conferenza ministeriale che si terra’ il prossimo 2 giungo a Sarajevo. I ministri spagnolo e turco hanno accettato il compito di chiedere l’approvazione di Bruxelles e Pristina per l’attuazione di alcuni di questi modelli. Ma detagli concreti relativi a questi “modelli di compromesso” restano per ora un segreto, come viene spiegato “per non far fallire la missione di negoziati”. Dall’Ufficio del ministro Jeremic arrivano pero’ informazioni che gli interlocutori hanno concordato che il Kosovo non potra’ presentare i simboli dello stato, che la partecipazione della Serbia e del Kosovo deve essere chiaramente asimetrica e che il formato di partecipazione di Pristina deve essere pienamente conforme alla Risoluzione 1244. Secondo le informazioni di ‘Blic’ “e’ stata accolta la posizione della Serbia di non acconsentire al Kosovo di presentarsi a nessuna delle riunioni internazionali come uno Stato, mentre la bandiera e la scritta ci saranno quando il Paese sara’ rappresentato in quanto Stato alle Nazioni Unite.
Dopo le consultazioni a Bruxelles e Pristina e successivamente, di seguito alla visita del ministro degli esteri italiano Franco Frattini a Belgrado prevista per il prossimo martedi’, molto probabilmente si sapra’ di piu’ se le proposte di Belgrado verranno accettate da Pristina. Comunque vada, pare che adesso si fanno pressioni su Pristina piuttosto che su Belgrado, a differenza della recente riunione regionale che si e’ svolta in Slovenia, a Brdo kod Kranj, quando e’ fallito il tentativo di convincere il presidente serbo Tadic a partecipare a questo appuntamento insieme ai rappresentanti kosovari. Sempre secondo il ‘Blic’ di Belgrado, a Bruxelles si sta’ gia’ creando un’atmosfera che prevede il fallimento della conferenza di Sarajevo per l’impossibilita’ di riunire allo stesso tavolo Belgrado e Pristina. Con questo – naturalmente – si manda un segnale negativo all’Ue sulla prontezza della regione alla collaborazione nel momento in cui molti membri dell’Ue si dichiarano apertamente contrari all’allargamento dell’Europa, scrive ‘Blic’. Nonostante l’ottimismo spagnolo e in partiolare le dichairazioni del ministro Moratinos sulla buon’uscita della conferenza di Sarajevo, continuano le riserve relative al successo di questo importante appuntamento. Il portavoce del Governo kosovaro, Mimli Krasnici ha dichiarato che le autorita’ di Pristina parteciperanno alla conferenza regionale soltanto come rappresentanti del Kosovo indipendente.
Il ministro degli esteri serbo Vuk Jeremic, in occasione della visita del capo della diplomazia turca Ahmet Davutoglu a Belgrado, ha rilevato che la Turchia e’ attualmente un partner regionale importante che ha influenze nell’area e con la quale la Serbia collabora strettamente. La Turchia e la Serbia sono pronte a lavorare insieme per garantire stabilita’ e pace nei Balcani e si impegnano per il progresso della comune cooperazione economica, ha detto Ahmet Davutoglu di seguito ai suoi colloqui con Jeremic, tenutisi succesivmante ad Ankara. Jeremic ha incontrato anche il presidente Abdullah Gul. Un accordo sul commercio libero tra Turchia e Serbia che contribuira’ allo sviluppo della collaborazione economica tra i due paesi verra’ ratificato settimana prossima nel parlamento turco. Davutoglu ha dichiarato alla conferenza stampa congiunta che i due paesi lavoreranno anche su alcuni progetti infrastrutturali in Serbia e in piu’ si e’ parlato anche di cooperazione nella regione, in particolare per quanto riguarda la soluzione della crisi politica in BiH. Il ministro Jeremic ha salutato le iniziative degli imprenditori turchi che sono pronti ad investire in Serbia e nella regione.
(*) Collaboratrice di Radio Radicale. Il testo è la trascrizione di parte della corrispondenza andata in onda a Radio Radicale nella puntata del 24 aprile di Passaggio a Sud Est
I ministri della Spagna, a nome della presidenza europea, e della Serbia, Miguel Angel Moratinos e Vuk Jeremic, hanno valutato mercoledi’ [21 aprile, ndr] in un incontro bilaterale svoltosi a Belgrado che le relazioni tra i due paesi sono molto buone e si sono detti fiduciosi che alla prossima, tanto attesa conferenza ministeriale che si svolgera’ a Sarajevo, organizzata dalla presidenza spagnola all’Ue, sara’ raggiunto un pieno successo. Secondo Jeremic, il parere dei due capi di diplomazia e’ che bisogna dare un nuovo impulso alla cooperazione regionale e alle integrazioni europee della regione. Pero’ il ministro degli esteri serbo ha ribadito anche la posizione della Serbia relativa alla partecipazione delle “istituzioni temporanee di Pristina” a questa conferenza, il che implica il pieno rispetto del diritto internazionale e la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. “E’ una posizione ferma della Serbia che non cambiera’. “La voce di Pristina deve essere sentita nelle organizzazioni di carattere regionale come si e’ sentita anche prima della proclamazione unilaterale dell’indipendenza, ma questa partecipazione non puo’ in nessun modo implicare alcun cambiamento dello status della regione meridionale serba” e’ stato esplicito Vuk Jeremic. Il ministro Moratinos da parte sua ha detto che le posizioni di tutti i Paesi della regione sono note e non cambieranno, ma si tratta di impegnare gli sforzi affinche’ sia possibile una migliore cooperazione regionale. “La presidenza spagnola all’Ue e’ convinta che la conferenza avra’ pieno successo e che Sarajevo sara’ una svolta nel contesto dell’impegno europeo nei Balcani occidentali”, ha detto il ministro degli esteri spagnolo Moratinos.
C’e’ da dire che il capo della diplomazia spagnola in questi giorni e’ stato in missione nell’ambito di una specie di tour regionale. Dopo aver visitato Skoplje, dalla capitale della Macedonia si e’ recato a Belgrado, insieme al ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu per incontrare il presidente serbo Boris Tadic e il ministro Jeremic. Dalla Serbia il viaggio e’ proseguito poi in Montenegro. Alla riunione trilaterale tra Serbia, Spagna e Turchia a Belgrado, come scrive il quotidiano serbo ‘Blic’, sono stati considerati diversi modelli per la partecipazione dei rappresentanti del Kosovo alla conferenza ministeriale che si terra’ il prossimo 2 giungo a Sarajevo. I ministri spagnolo e turco hanno accettato il compito di chiedere l’approvazione di Bruxelles e Pristina per l’attuazione di alcuni di questi modelli. Ma detagli concreti relativi a questi “modelli di compromesso” restano per ora un segreto, come viene spiegato “per non far fallire la missione di negoziati”. Dall’Ufficio del ministro Jeremic arrivano pero’ informazioni che gli interlocutori hanno concordato che il Kosovo non potra’ presentare i simboli dello stato, che la partecipazione della Serbia e del Kosovo deve essere chiaramente asimetrica e che il formato di partecipazione di Pristina deve essere pienamente conforme alla Risoluzione 1244. Secondo le informazioni di ‘Blic’ “e’ stata accolta la posizione della Serbia di non acconsentire al Kosovo di presentarsi a nessuna delle riunioni internazionali come uno Stato, mentre la bandiera e la scritta ci saranno quando il Paese sara’ rappresentato in quanto Stato alle Nazioni Unite.
Dopo le consultazioni a Bruxelles e Pristina e successivamente, di seguito alla visita del ministro degli esteri italiano Franco Frattini a Belgrado prevista per il prossimo martedi’, molto probabilmente si sapra’ di piu’ se le proposte di Belgrado verranno accettate da Pristina. Comunque vada, pare che adesso si fanno pressioni su Pristina piuttosto che su Belgrado, a differenza della recente riunione regionale che si e’ svolta in Slovenia, a Brdo kod Kranj, quando e’ fallito il tentativo di convincere il presidente serbo Tadic a partecipare a questo appuntamento insieme ai rappresentanti kosovari. Sempre secondo il ‘Blic’ di Belgrado, a Bruxelles si sta’ gia’ creando un’atmosfera che prevede il fallimento della conferenza di Sarajevo per l’impossibilita’ di riunire allo stesso tavolo Belgrado e Pristina. Con questo – naturalmente – si manda un segnale negativo all’Ue sulla prontezza della regione alla collaborazione nel momento in cui molti membri dell’Ue si dichiarano apertamente contrari all’allargamento dell’Europa, scrive ‘Blic’. Nonostante l’ottimismo spagnolo e in partiolare le dichairazioni del ministro Moratinos sulla buon’uscita della conferenza di Sarajevo, continuano le riserve relative al successo di questo importante appuntamento. Il portavoce del Governo kosovaro, Mimli Krasnici ha dichiarato che le autorita’ di Pristina parteciperanno alla conferenza regionale soltanto come rappresentanti del Kosovo indipendente.
Il ministro degli esteri serbo Vuk Jeremic, in occasione della visita del capo della diplomazia turca Ahmet Davutoglu a Belgrado, ha rilevato che la Turchia e’ attualmente un partner regionale importante che ha influenze nell’area e con la quale la Serbia collabora strettamente. La Turchia e la Serbia sono pronte a lavorare insieme per garantire stabilita’ e pace nei Balcani e si impegnano per il progresso della comune cooperazione economica, ha detto Ahmet Davutoglu di seguito ai suoi colloqui con Jeremic, tenutisi succesivmante ad Ankara. Jeremic ha incontrato anche il presidente Abdullah Gul. Un accordo sul commercio libero tra Turchia e Serbia che contribuira’ allo sviluppo della collaborazione economica tra i due paesi verra’ ratificato settimana prossima nel parlamento turco. Davutoglu ha dichiarato alla conferenza stampa congiunta che i due paesi lavoreranno anche su alcuni progetti infrastrutturali in Serbia e in piu’ si e’ parlato anche di cooperazione nella regione, in particolare per quanto riguarda la soluzione della crisi politica in BiH. Il ministro Jeremic ha salutato le iniziative degli imprenditori turchi che sono pronti ad investire in Serbia e nella regione.
(*) Collaboratrice di Radio Radicale. Il testo è la trascrizione di parte della corrispondenza andata in onda a Radio Radicale nella puntata del 24 aprile di Passaggio a Sud Est
lunedì 26 aprile 2010
IL BOSCO DOPO IL MARE
In occasione del 25 aprile, la casa editrice Infinito Edizioni ha messo a disposizione un testo scritto dal grande intellettuale Predrag Matvejevic per presentare "Il bosco dopo il mare" il libro di Giacomo Scotti, dedicato alla lotta antifascista e antinazista nei Balcani e al sacrificio di migliaia di italiani, a fianco delle forze di liberazione partigiane jugoslave. Buona lettura.
Di Giacomo Scotti, poeta, narratore e favolista, instancabile ricercatore, pubblicista e traduttore in italiano di non so quante opere letterarie nostre e dall’italiano nella nostra lingua, ho già scritto in diverse occasioni. La sua energia e i risultati letterari da essa scaturiti suscitano il mio profondo rispetto e alimentano la nostra pluriennale amicizia.
Ambedue siamo venuti a trovarci spesso in situazioni non proprio piacevoli, che io definisco come posizioni “fra il tradimento e l’offesa”. Negli ambienti plurinazionali nei quali abbiamo operato per lunghissimi anni – Giacomo Scotti a Fiume, nel Quarnero, in Istria e a Trieste, a tutela e nelle file della comunità italiana, io nella Jugoslavia multietnica e soprattutto nella Croazia in cui ho vissuto e nella Bosnia-Erzegovina dove sono nato – qualsiasi parola critica indirizzata alla propria comunità nazionale, maggioritaria o minoritaria che sia, viene interpretata sovente come un tradimento, mentre la critica rivolta a un esponente di un’altra cerchia o di un’altra nazione è vista e respinta come un’offesa. Queste reazioni restringono lo spazio della parola critica, lo trasformano via via in una fenditura sempre più stretta, nella quale il significato della stessa critica si esaurisce, si perde.
Più volte mi è capitato di prendere le difese di Scotti e del suo diritto alla “critica di tutto l’esistente” come essa veniva definita dalla sinistra nell’ex Jugoslavia. Scotti non mi è rimasto debitore, venendomi in aiuto soprattutto quando, dopo essere emigrato in Francia, andai a vivere in Italia in volontario esilio. Ci eravamo dati reciprocamente la mano già mezzo secolo addietro.
Il bosco dopo il mare, il libro di Scotti sugli Italiani che passarono nelle file partigiane nei Balcani, un terreno nel quale l’autore scava con ottimi risultati sin dagli inizi degli anni Sessanta del secolo da poco tramontato, ha lasciato in me una profonda impressione, mi ha commosso. Ha ridestato i ricordi di un tempo che segnò la mia tarda infanzia e la mia prima giovinezza, vissute nella nativa Mostar occupata dall’esercito italiano. Perciò, invece di ricorrere a un discorsetto d’occasione e di scrivere parole di elogio, di ammirazione sulla vita e sull’opera di una persona come solitamente si usa in occasione degli anniversari – e Scotti ha appena festeggiato gli 80 anni di vita e i 60 di una feconda scrittura senza aver perso la freschezza intellettuale e tanto meno l’entusiasmo creativo – mi sembra più appropriato dedicargli un brano della mia biografia molto strettamente legato all’Italia e a questo nuovo racconto partigiano di Scotti, nel quale il narratore e il ricercatore/storico si confondono. Il brano è intitolato Mario, e Mario è in qualche maniera il parente più prossimo, forse un fratello, sia per Giacomo che per me, ma soprattutto per il protagonista principale – Clemente Vavassori – del libro di Scotti.
A volte, sia in Jugoslavia che in Italia, si è evitato di parlare dei “garibaldini”, come noi chiamavamo quei soldati italiani che, disertando l’esercito occupatore di Mussolini, scelsero di entrare nelle file della Resistenza antifascista jugoslava, nelle file dell’esercito partigiano di Tito. Riproporre nuovamente questo tema oggi, quando anche in Italia varie mitologie del passato cercano di ribaltare e stravolgere la realtà storica, mi sembra giustificato e opportuno.
* * *
Si tratta di alcuni episodi di un tempo lontano, che influirono fra l’altro sul mio rapporto con l’Italia. Senza di loro, forse, non mi sarei deciso a stabilirmi in questo Paese emigrando dall’ex Jugoslavia in guerra. La mia testimonianza potrebbe essere intitolata Come ho conosciuto l’italiano. Il ragazzino di allora non distingueva “un italiano” dall’italiano in genere.
Era primavera, primi giorni di aprile. Allora cominciò la guerra nel nostro Paese. Ricordo uno strano contrasto: da una parte le giornate luminose e serene, dall’altra i volti scuri e preoccupati. Nel cielo volavano aerei e sganciavano bombe sulla città dove vivevo con mia madre e una sorellina. Mio padre era stato mobilitato nell’esercito e mandato al fronte. All’epoca, nel 1941, non conoscevo neppure il significato della parola fronte, né sapevo dove potesse trovarsi.
A Mostar ci sono diversi ponti sul fiume, tra questi lo Stari Most (il ponte vecchio), che dà il nome alla città. Vi correvo quasi ogni giorno per osservare la Neretva che continuava a scorrere, come aveva sempre fatto, come scorre tuttora. Guardavo nell’acqua e, nell’aria, i gabbiani che venivano dal mare per posarsi accanto a me sul parapetto in pietra. In Erzegovina ci sono più pietre che terra. E la vita è dura.
La nostra città fu occupata dalle truppe italiane. Guardavo quei soldati con sospetto e timore. Il primo che incontrai aveva in testa un elmetto dal quale scendeva un ciuffo di penne: sentii che quei soldati con svolazzanti piume di gallo erano chiamati bersaglieri. Ne fui spaventato, avevo appena compiuto otto anni. Mi parve che fosse mio dovere proteggere la famiglia, essendo “l’unico maschio di casa”. Soprattutto difendere mia sorella, di alcuni anni più piccola di me. Divenni, ai miei stessi occhi, il suo protettore. Mi sentivo molto più adulto, più grande della mia età. La sera, prima di addormentarmi, pregavo con sincero ardore. Smisi di giocare. Evitavo d’incontrare i compagni di giochi. Avevo un cagnolino bianco che si chiamava Buška, divenne il mio migliore amico. Soffrivo nel vedere mia madre costretta a faticare tutta la giornata fuori casa. Era ancora giovane e bella, per me la più bella madre del mondo. Diventavo geloso quando si fermava a parlare con qualcuno: “Andiamo via, su!”, la tiravo per la gonna.
Mio padre non ci dava notizie; presto venimmo a sapere che era finito in un campo di lavori forzati, in qualche parte della lontana Germania. Avevano scoperto che era nato a Odessa e questo bastò per sbatterlo nel lager. Cominciai a scrivergli lettere, le spedivo a un indirizzo che, accanto al nome e al cognome, comprendeva soltanto due parole: “lager” e “Deutchland”. Nella mia innocenza pensavo che i postini sapessero certamente dove si trovava mio padre. Fu così che cominciai a scrivere. Talvolta, ripensandoci, ho l’impressione di non aver fatto altro che scrivere lettere per tutta la vita. Spesso spedite a indirizzi sbagliati…
Eravamo privi di tutto: mancavano il pane e il vestiario, la legna e il carbone per scaldarsi. Mia sorella si faceva sempre più pallida col passare dei giorni. La prese in cura un anziano dottore che da poco era riuscito a fuggire dalla “zona di occupazione” tedesca in Croazia trovando rifugio nella “zona italiana”, dove gli ebrei – e lui era un ebreo – si sentivano più sicuri. Il dottor Jungwiert – così si chiamava, ricordo bene il suo nome – pronunciò un giorno una parola che al solo sentirla mi gelò il sangue nelle vene: “Tubercolosi”. C’era un solo rimedio, spiegò: “Bisogna nutrirla bene”. E con cosa, dottore?
Poi successe qualcosa di peggio: nostra madre tornò dal lavoro con alcuni denti in meno. L’unica merce che si poteva vendere o scambiare per procurarsi dei generi alimentari era l’oro. Mia madre aveva alcuni denti d’oro e se li era fatti estrarre per venderli in cambio di cibo. Ma non bastarono. Tutto quello che era stato comprato fu ben presto consumato. E mia sorella non era ancora guarita.
Qui comincia appunto la storia che voglio raccontare.
Nelle vicinanze della nostra abitazione si trovava una caserma nella quale si sistemarono i soldati italiani. Cercavo di non badarci. Giravo alla larga per non incontrarli, la loro presenza mi era sgradita. Ma un giorno mia madre m’incoraggiò: “È gente che canta. Alcuni pregano pure, certamente ci sono delle brave persone anche fra di loro”. Mi suggerì di avvicinarmi a quei soldati per pregare qualcuno di loro di darci un po’ di riso per la mia piccola sorella. Imparai alcune parole italiane: dare, riso, sorellina, malata. Passai accanto a un soldato, poi a un secondo e a un terzo, farfugliando quelle parole, ma nessuno alzò gli occhi su di me. Probabilmente pensarono che fossi un mendicante. Il primo suonava l’armonica a bocca, il secondo guardava delle fotografie, il terzo era semplicemente immerso nei suoi pensieri. Fermatomi davanti al terzo, pronunciai per la seconda volta le quattro parole imparate a memoria, stavolta spiccicando meglio le sillabe. Mancavano le preposizioni, il verbo non era coniugato. La grammatica era assente ma speravo d’essere capito. Il soldato, infatti, trasalì, mi guardò, mi accarezzò i capelli, disse qualcosa che non capivo. Compresi però di essere di fronte a un uomo mite. Mi fece segno di aspettare, mi avrebbe portato qualcosa.
Tornò presto con una piccola gavetta militare, di color verde, con il coperchio di latta zincata. Il recipiente era pieno di riso cotto e condito. Non lo assaggiai nemmeno, portai subito tutto a casa. Tornai davanti alla caserma l’indomani, ci tornai anche dopodomani, e poi ogni giorno, per farmi riempire la gavetta con la minestra di riso.
Mia sorella, cibandosi di quel rancio militare, prese a star meglio. Ecco, conobbi così “l’italiano”, un soldato che si chiamava Mario. E questa fu la più bella storia in una triste infanzia.
Nell’autunno del Quarantatrè l’esercito italiano in Erzegovina e negli altri territori occupati cessò di combattere. I soldati fuggirono da varie parti, si dispersero. Alcuni passarono nelle file partigiane, altri si arresero ai tedeschi e finirono nello Stalag. Oppure furono trasferiti forzosamente sul fronte orientale, verso l’inverno russo che i giovani mediterranei non sopportavano; altri ancora vagarono qua e là per sfuggire alla cattura, decisi a raggiungere la costa adriatica, mettere le mani su qualche trabaccolo e passare sulla sponda opposta. Tornare a casa. A quell’epoca avevo ormai compiuto undici anni e mi rendevo conto di quello che stava succedendo.
Una sera, sul tardi, qualcuno bussò alla porta della nostra abitazione. Chi è?
“Mario”.
Entrò in casa silenzioso e guardingo. A mio zio, che si trovava nel corridoio d’ingresso, rivolse alcune parole: il soldato cercava un rifugio, una salvezza. Dietro la nostra casa c'era un piccolo locale che serviva da lavanderia. Lo sistemammo “provvisoriamente” in quel vano. Ma trepidavamo per lui e per noi stessi, nel timore che potessero scoprirlo. Ogni giorno, verso l’ora di pranzo, di nascosto, portavo a Mario una parte del poco cibo che noi si riusciva a trovare. Glielo portavo nella stessa gavetta verde che proprio lui mi aveva dato. Non so chi di noi due attendesse con maggior ansia quell’incontro: Mario che rimaneva per l’intero giorno solo e inquieto nell’angusta lavanderia, oppure io che all’improvviso ero diventato “grande”, pari agli adulti, complice del loro gioco. A quel punto sapevo già dire qualcosa di più delle quattro parole d’italiano e riuscivo anche a capire meglio. Imparai, tra l’altro, alcune parole di una canzone canticchiata da Mario, nella quale si parlava di Lugano: Addio Lugano bella… Ma dov’era Lugano? Che città meravigliosa era mai quella cantata dal mio “amico segreto”?
Non ricordo bene quanto tempo durarono quei nostri incontri. Ripensandoci, a volte mi pare che si protrassero a lungo, altre volte che passarono presto. Un giorno Mario mi spiegò che desiderava incontrare di nuovo mio zio, voleva parlargli. Mio zio aveva evitato la chiamata al fronte per una ferita alla gamba, che gli era valsa la destinazione a non so quali lavori nelle “retrovie”, a compiti sulla cui natura non osavamo chiedergli spiegazioni. S’incontrarono quella stessa sera, senza di me. L’indomani Mario sparì.
Mi sentivo triste, abbattuto. Perchè non mi aveva avvertito? Come ha potuto? Gli scrissi una lettera piena di rimproveri, ma non sapevo a quale indirizzo spedirla. Mia madre mi disse che dovevo gettarla nel fuoco, distruggerla, “per non farla trovare”, per evitare guai. Perchè, aggiunse, “Mario ha raggiunto il bosco”. E questo, a quell’epoca, significava che si era unito ai partigiani.
La guerra continuò. Continuarono anche le nostre tribolazioni, ma ormai ci eravamo abituati. I parenti che vivevano in campagna ci portavano ogni tanto quel poco di cibo che bastava a tenerci in vita. Vendemmo tutto ciò che si poteva vendere. C’indebitammo.
Trascorrevo tutto il tempo libero a suonare su un vecchio pianoforte, sognando di diventare un pianista famoso e guadagnare, così, un sacco di quattrini, tanti da poter pagare i debiti, rimettere a posto i denti della mamma, sfamare tutti i bambini della città. Mi innamorai di una giovane suora che mi dava lezioni gratuite di piano, avevo già dodici anni.
Si attendeva da un giorno all’altro che la guerra finisse. Ogni sera ascoltavamo Radio Londra. A Napoli c’erano già gli alleati. I russi si avvicinavano ormai ai confini del nostro Paese e proprio da loro mi attendevo il miracolo: ero sicuro di trovare fra i soldati russi, quando sarebbero arrivati da noi, qualcuno dei parenti di mio padre che fino ad allora non eravamo riusciti a conoscere. Un parente che sicuramente aveva una bella voce per cantare. Gli davo i nomi che trovai nella letteratura russa che cominciavo a leggere in lingua: Anatolij, Serghej, Vsevolod.
Il 13 febbraio 1945 finalmente Mostar venne liberata. In città entrarono i partigiani. In mezzo a loro c’erano numerosi combattenti italiani sparsi tra le varie brigate. C’era anche un intero battaglione chiamato Garibaldi. La sera di quel lungo e freddo giorno di febbraio qualcuno tornò a bussare alla porta della nostra casa. Il cuore mi salì in gola. Dal suono o meglio dalla cadenza e dall’intensità di quel bussare riconobbi qualcosa che già avevo sentito. Era il bussare di una mano familiare.
“Sono Mario”.
Era tornato! Mi abbracciò, mi piantò sulle sue ginocchia. Rimase con noi non so quanto nella gelida stanza della nostra casa. “Tornerò domani”, s’accomiatò. E venne ogni giorno, per tre o quattro settimane, fino a quando il suo battaglione rimase in città. Tornò ad aiutarci. Le navi alleate avevano cominciato a gettare le ancore nel porto di Dubrovnik, sbarcando armi, munizioni e viveri per l’esercito partigiano e per la popolazione. Sui pacchi degli aiuti stava scritto UNRRA. Ancora ricordo com’erano fatti. C’era di tutto in quei pacchi, dal vestiario alla cioccolata. Aspettavamo l’arrivo di Mario ogni giorno verso mezzogiorno, chiedendoci che cosa ci avrebbe portato.
Ma la guerra non era finita. I partigiani si accingevano a sfondare le linee tedesche per proseguire la marcia verso il nord del Paese. All’inizio di aprile, liberarono Sarajevo. Nel corso della primavera – l’ultima primavera di guerra – se ne andò anche Mario per partecipare alle operazioni finali. “Tornerò”, disse nella nostra lingua: “Vratit ću se!”.
Non tornò.
Non riuscimmo a sapere più nulla di lui. Le ultime operazioni belliche impegnarono l’esercito in scontri durissimi: i partigiani erano abituati alla guerriglia, non alla guerra frontale. Molti persero la vita in quelle battaglie di aprile e nei primi giorni di maggio. Se avesse potuto, Mario sarebbe certamente tornato.
Sapeva che io lo aspettavo.
Ma non tornò.
La storia che ho voluto raccontare, tuttavia, non è ancora terminata. La guerra lasciò irrisolti molti problemi su un territorio verso il quale la grande Storia non è stata molto tenera. Mi avviai agli studi superiori, ma non a quelli di musica: m’iscrissi al quadriennio di lingue e letterature romanze a Sarajevo; presi a studiare seriamente anche l’italiano. A causa dell’insonnia e della depressione – disturbi cominciati probabilmente con le notti passate in bianco durante la guerra – fui costretto a lasciare i libri. Nel frattempo mi chiamarono alla leva militare. La naia mi toccò nel periodo peggiore: era scoppiata la cosiddetta “crisi di Trieste”, che minacciava di trasformarsi in una nuova guerra. Dalla caserma di Zemun, presso Belgrado, dove si trovava il mio battaglione, fui trasferito sul monte Platak che domina la città di Rijeka/Fiume. In quella regione di frontiera il nostro addestramento militare, con tiri, finte battaglie e lunghe marce, continuò giorno dopo giorno, nelle ore mattutine e in quelle pomeridiane. Eravamo pronti a intervenire nel vicino Territorio di Trieste suddiviso nelle Zone A e B. Le marce si protraevano per diverse ore, cadevamo a terra per la stanchezza; correvamo all’assalto di immaginari fortini e trincee nemiche, eseguendo gli ordini, sparando e urlando “hurrah”. Gli allarmi si ripetevano ogni notte, lasciandoci poche ore di sonno. Servivano a tenerci pronti a qualsiasi evenienza. “Sveglia! Il nemico non dorme!”, urlavano gli ufficiali di picchetto, ma non dormivo neppure io. Anche dall’altra parte del confine le giovani reclute italiane si preparavano alla resa dei conti con “sti slavi”, anche loro si addestravano, marciavano, correvano all’assalto, sparavano contro di noi con tutte le armi. Mi tormentava un pensiero: “E se Mario avesse un figlio e quel ragazzo fosse dall’altra parte del confine? Se scoppiasse la vera guerra e lo colpissi?”. Mi consolavo pensando al fatto che ero un cattivo tiratore, avrei certamente mancato il bersaglio. Anche oggi, quando in Italia incontro qualche mio coetaneo, mi chiedo se non sia stato in mezzo a coloro che io avrei dovuto uccidere o che avrebbero potuto uccidere me.
Una sera, alla periferia di Fiume, sentii tre ragazzi e una ragazza che, seduti in disparte, cantavano in italiano la canzone Vola, colomba bianca vola… Cantavano sottovoce, con nostalgia, ma anche con una punta di orgoglio. Quando scorsero il soldato che si avvicinava – ero io – se la diedero a gambe. Non riuscivo a credere ai miei occhi: c’è qualcuno che fugge alla mia vista, cioè al cospetto di un ragazzo pallido e nervoso, studente universitario senza laurea, figlio di un emigrato di Odessa, “amico di Mario”!
Ben presto mi fu raccontata la storia dell’esodo dei nostri italiani dalle terre istroquarnerine. Venni a conoscere anche l’altra storia, quella dei massacri compiuti dalle Camicie nere in Dalmazia e in Montenegro durante l’occupazione. Non riuscivo a credere o non volevo credere né all’una né all’altra, eppure sentivo e intuivo che in entrambe c’era del vero. Fu così che divenni anch’io un componente della minoranza, non soltanto nazionale o politica, ma della minoranza in assoluto. Ignoravo dove la cosa mi avrebbe portato. Forse non soltanto nella letteratura.
Qualche anno più tardi, avendo conosciuto non pochi intellettuali della minoranza italiana del territorio istro-quarnerino, mi fu più facile capire i problemi di quegli italiani esuli e di quelli “rimasti con noi” e talvolta dimenticati dai loro connazionali. Era possibile collaborare con q uel piccolo “popolo d’Italia” nella Jugoslavia che non era ancora “ex”: ricordo in questa occasione Giacomo, Eros, Nelida, Lucio, Alessandro, Claudio e altri amici che conobbi prima di arrivare nella patria di Mario.
©Infinito edizioni 2010 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte
Di Giacomo Scotti, poeta, narratore e favolista, instancabile ricercatore, pubblicista e traduttore in italiano di non so quante opere letterarie nostre e dall’italiano nella nostra lingua, ho già scritto in diverse occasioni. La sua energia e i risultati letterari da essa scaturiti suscitano il mio profondo rispetto e alimentano la nostra pluriennale amicizia.
Ambedue siamo venuti a trovarci spesso in situazioni non proprio piacevoli, che io definisco come posizioni “fra il tradimento e l’offesa”. Negli ambienti plurinazionali nei quali abbiamo operato per lunghissimi anni – Giacomo Scotti a Fiume, nel Quarnero, in Istria e a Trieste, a tutela e nelle file della comunità italiana, io nella Jugoslavia multietnica e soprattutto nella Croazia in cui ho vissuto e nella Bosnia-Erzegovina dove sono nato – qualsiasi parola critica indirizzata alla propria comunità nazionale, maggioritaria o minoritaria che sia, viene interpretata sovente come un tradimento, mentre la critica rivolta a un esponente di un’altra cerchia o di un’altra nazione è vista e respinta come un’offesa. Queste reazioni restringono lo spazio della parola critica, lo trasformano via via in una fenditura sempre più stretta, nella quale il significato della stessa critica si esaurisce, si perde.
Più volte mi è capitato di prendere le difese di Scotti e del suo diritto alla “critica di tutto l’esistente” come essa veniva definita dalla sinistra nell’ex Jugoslavia. Scotti non mi è rimasto debitore, venendomi in aiuto soprattutto quando, dopo essere emigrato in Francia, andai a vivere in Italia in volontario esilio. Ci eravamo dati reciprocamente la mano già mezzo secolo addietro.
Il bosco dopo il mare, il libro di Scotti sugli Italiani che passarono nelle file partigiane nei Balcani, un terreno nel quale l’autore scava con ottimi risultati sin dagli inizi degli anni Sessanta del secolo da poco tramontato, ha lasciato in me una profonda impressione, mi ha commosso. Ha ridestato i ricordi di un tempo che segnò la mia tarda infanzia e la mia prima giovinezza, vissute nella nativa Mostar occupata dall’esercito italiano. Perciò, invece di ricorrere a un discorsetto d’occasione e di scrivere parole di elogio, di ammirazione sulla vita e sull’opera di una persona come solitamente si usa in occasione degli anniversari – e Scotti ha appena festeggiato gli 80 anni di vita e i 60 di una feconda scrittura senza aver perso la freschezza intellettuale e tanto meno l’entusiasmo creativo – mi sembra più appropriato dedicargli un brano della mia biografia molto strettamente legato all’Italia e a questo nuovo racconto partigiano di Scotti, nel quale il narratore e il ricercatore/storico si confondono. Il brano è intitolato Mario, e Mario è in qualche maniera il parente più prossimo, forse un fratello, sia per Giacomo che per me, ma soprattutto per il protagonista principale – Clemente Vavassori – del libro di Scotti.
A volte, sia in Jugoslavia che in Italia, si è evitato di parlare dei “garibaldini”, come noi chiamavamo quei soldati italiani che, disertando l’esercito occupatore di Mussolini, scelsero di entrare nelle file della Resistenza antifascista jugoslava, nelle file dell’esercito partigiano di Tito. Riproporre nuovamente questo tema oggi, quando anche in Italia varie mitologie del passato cercano di ribaltare e stravolgere la realtà storica, mi sembra giustificato e opportuno.
* * *
Si tratta di alcuni episodi di un tempo lontano, che influirono fra l’altro sul mio rapporto con l’Italia. Senza di loro, forse, non mi sarei deciso a stabilirmi in questo Paese emigrando dall’ex Jugoslavia in guerra. La mia testimonianza potrebbe essere intitolata Come ho conosciuto l’italiano. Il ragazzino di allora non distingueva “un italiano” dall’italiano in genere.
Era primavera, primi giorni di aprile. Allora cominciò la guerra nel nostro Paese. Ricordo uno strano contrasto: da una parte le giornate luminose e serene, dall’altra i volti scuri e preoccupati. Nel cielo volavano aerei e sganciavano bombe sulla città dove vivevo con mia madre e una sorellina. Mio padre era stato mobilitato nell’esercito e mandato al fronte. All’epoca, nel 1941, non conoscevo neppure il significato della parola fronte, né sapevo dove potesse trovarsi.
A Mostar ci sono diversi ponti sul fiume, tra questi lo Stari Most (il ponte vecchio), che dà il nome alla città. Vi correvo quasi ogni giorno per osservare la Neretva che continuava a scorrere, come aveva sempre fatto, come scorre tuttora. Guardavo nell’acqua e, nell’aria, i gabbiani che venivano dal mare per posarsi accanto a me sul parapetto in pietra. In Erzegovina ci sono più pietre che terra. E la vita è dura.
La nostra città fu occupata dalle truppe italiane. Guardavo quei soldati con sospetto e timore. Il primo che incontrai aveva in testa un elmetto dal quale scendeva un ciuffo di penne: sentii che quei soldati con svolazzanti piume di gallo erano chiamati bersaglieri. Ne fui spaventato, avevo appena compiuto otto anni. Mi parve che fosse mio dovere proteggere la famiglia, essendo “l’unico maschio di casa”. Soprattutto difendere mia sorella, di alcuni anni più piccola di me. Divenni, ai miei stessi occhi, il suo protettore. Mi sentivo molto più adulto, più grande della mia età. La sera, prima di addormentarmi, pregavo con sincero ardore. Smisi di giocare. Evitavo d’incontrare i compagni di giochi. Avevo un cagnolino bianco che si chiamava Buška, divenne il mio migliore amico. Soffrivo nel vedere mia madre costretta a faticare tutta la giornata fuori casa. Era ancora giovane e bella, per me la più bella madre del mondo. Diventavo geloso quando si fermava a parlare con qualcuno: “Andiamo via, su!”, la tiravo per la gonna.
Mio padre non ci dava notizie; presto venimmo a sapere che era finito in un campo di lavori forzati, in qualche parte della lontana Germania. Avevano scoperto che era nato a Odessa e questo bastò per sbatterlo nel lager. Cominciai a scrivergli lettere, le spedivo a un indirizzo che, accanto al nome e al cognome, comprendeva soltanto due parole: “lager” e “Deutchland”. Nella mia innocenza pensavo che i postini sapessero certamente dove si trovava mio padre. Fu così che cominciai a scrivere. Talvolta, ripensandoci, ho l’impressione di non aver fatto altro che scrivere lettere per tutta la vita. Spesso spedite a indirizzi sbagliati…
Eravamo privi di tutto: mancavano il pane e il vestiario, la legna e il carbone per scaldarsi. Mia sorella si faceva sempre più pallida col passare dei giorni. La prese in cura un anziano dottore che da poco era riuscito a fuggire dalla “zona di occupazione” tedesca in Croazia trovando rifugio nella “zona italiana”, dove gli ebrei – e lui era un ebreo – si sentivano più sicuri. Il dottor Jungwiert – così si chiamava, ricordo bene il suo nome – pronunciò un giorno una parola che al solo sentirla mi gelò il sangue nelle vene: “Tubercolosi”. C’era un solo rimedio, spiegò: “Bisogna nutrirla bene”. E con cosa, dottore?
Poi successe qualcosa di peggio: nostra madre tornò dal lavoro con alcuni denti in meno. L’unica merce che si poteva vendere o scambiare per procurarsi dei generi alimentari era l’oro. Mia madre aveva alcuni denti d’oro e se li era fatti estrarre per venderli in cambio di cibo. Ma non bastarono. Tutto quello che era stato comprato fu ben presto consumato. E mia sorella non era ancora guarita.
Qui comincia appunto la storia che voglio raccontare.
Nelle vicinanze della nostra abitazione si trovava una caserma nella quale si sistemarono i soldati italiani. Cercavo di non badarci. Giravo alla larga per non incontrarli, la loro presenza mi era sgradita. Ma un giorno mia madre m’incoraggiò: “È gente che canta. Alcuni pregano pure, certamente ci sono delle brave persone anche fra di loro”. Mi suggerì di avvicinarmi a quei soldati per pregare qualcuno di loro di darci un po’ di riso per la mia piccola sorella. Imparai alcune parole italiane: dare, riso, sorellina, malata. Passai accanto a un soldato, poi a un secondo e a un terzo, farfugliando quelle parole, ma nessuno alzò gli occhi su di me. Probabilmente pensarono che fossi un mendicante. Il primo suonava l’armonica a bocca, il secondo guardava delle fotografie, il terzo era semplicemente immerso nei suoi pensieri. Fermatomi davanti al terzo, pronunciai per la seconda volta le quattro parole imparate a memoria, stavolta spiccicando meglio le sillabe. Mancavano le preposizioni, il verbo non era coniugato. La grammatica era assente ma speravo d’essere capito. Il soldato, infatti, trasalì, mi guardò, mi accarezzò i capelli, disse qualcosa che non capivo. Compresi però di essere di fronte a un uomo mite. Mi fece segno di aspettare, mi avrebbe portato qualcosa.
Tornò presto con una piccola gavetta militare, di color verde, con il coperchio di latta zincata. Il recipiente era pieno di riso cotto e condito. Non lo assaggiai nemmeno, portai subito tutto a casa. Tornai davanti alla caserma l’indomani, ci tornai anche dopodomani, e poi ogni giorno, per farmi riempire la gavetta con la minestra di riso.
Mia sorella, cibandosi di quel rancio militare, prese a star meglio. Ecco, conobbi così “l’italiano”, un soldato che si chiamava Mario. E questa fu la più bella storia in una triste infanzia.
Nell’autunno del Quarantatrè l’esercito italiano in Erzegovina e negli altri territori occupati cessò di combattere. I soldati fuggirono da varie parti, si dispersero. Alcuni passarono nelle file partigiane, altri si arresero ai tedeschi e finirono nello Stalag. Oppure furono trasferiti forzosamente sul fronte orientale, verso l’inverno russo che i giovani mediterranei non sopportavano; altri ancora vagarono qua e là per sfuggire alla cattura, decisi a raggiungere la costa adriatica, mettere le mani su qualche trabaccolo e passare sulla sponda opposta. Tornare a casa. A quell’epoca avevo ormai compiuto undici anni e mi rendevo conto di quello che stava succedendo.
Una sera, sul tardi, qualcuno bussò alla porta della nostra abitazione. Chi è?
“Mario”.
Entrò in casa silenzioso e guardingo. A mio zio, che si trovava nel corridoio d’ingresso, rivolse alcune parole: il soldato cercava un rifugio, una salvezza. Dietro la nostra casa c'era un piccolo locale che serviva da lavanderia. Lo sistemammo “provvisoriamente” in quel vano. Ma trepidavamo per lui e per noi stessi, nel timore che potessero scoprirlo. Ogni giorno, verso l’ora di pranzo, di nascosto, portavo a Mario una parte del poco cibo che noi si riusciva a trovare. Glielo portavo nella stessa gavetta verde che proprio lui mi aveva dato. Non so chi di noi due attendesse con maggior ansia quell’incontro: Mario che rimaneva per l’intero giorno solo e inquieto nell’angusta lavanderia, oppure io che all’improvviso ero diventato “grande”, pari agli adulti, complice del loro gioco. A quel punto sapevo già dire qualcosa di più delle quattro parole d’italiano e riuscivo anche a capire meglio. Imparai, tra l’altro, alcune parole di una canzone canticchiata da Mario, nella quale si parlava di Lugano: Addio Lugano bella… Ma dov’era Lugano? Che città meravigliosa era mai quella cantata dal mio “amico segreto”?
Non ricordo bene quanto tempo durarono quei nostri incontri. Ripensandoci, a volte mi pare che si protrassero a lungo, altre volte che passarono presto. Un giorno Mario mi spiegò che desiderava incontrare di nuovo mio zio, voleva parlargli. Mio zio aveva evitato la chiamata al fronte per una ferita alla gamba, che gli era valsa la destinazione a non so quali lavori nelle “retrovie”, a compiti sulla cui natura non osavamo chiedergli spiegazioni. S’incontrarono quella stessa sera, senza di me. L’indomani Mario sparì.
Mi sentivo triste, abbattuto. Perchè non mi aveva avvertito? Come ha potuto? Gli scrissi una lettera piena di rimproveri, ma non sapevo a quale indirizzo spedirla. Mia madre mi disse che dovevo gettarla nel fuoco, distruggerla, “per non farla trovare”, per evitare guai. Perchè, aggiunse, “Mario ha raggiunto il bosco”. E questo, a quell’epoca, significava che si era unito ai partigiani.
La guerra continuò. Continuarono anche le nostre tribolazioni, ma ormai ci eravamo abituati. I parenti che vivevano in campagna ci portavano ogni tanto quel poco di cibo che bastava a tenerci in vita. Vendemmo tutto ciò che si poteva vendere. C’indebitammo.
Trascorrevo tutto il tempo libero a suonare su un vecchio pianoforte, sognando di diventare un pianista famoso e guadagnare, così, un sacco di quattrini, tanti da poter pagare i debiti, rimettere a posto i denti della mamma, sfamare tutti i bambini della città. Mi innamorai di una giovane suora che mi dava lezioni gratuite di piano, avevo già dodici anni.
Si attendeva da un giorno all’altro che la guerra finisse. Ogni sera ascoltavamo Radio Londra. A Napoli c’erano già gli alleati. I russi si avvicinavano ormai ai confini del nostro Paese e proprio da loro mi attendevo il miracolo: ero sicuro di trovare fra i soldati russi, quando sarebbero arrivati da noi, qualcuno dei parenti di mio padre che fino ad allora non eravamo riusciti a conoscere. Un parente che sicuramente aveva una bella voce per cantare. Gli davo i nomi che trovai nella letteratura russa che cominciavo a leggere in lingua: Anatolij, Serghej, Vsevolod.
Il 13 febbraio 1945 finalmente Mostar venne liberata. In città entrarono i partigiani. In mezzo a loro c’erano numerosi combattenti italiani sparsi tra le varie brigate. C’era anche un intero battaglione chiamato Garibaldi. La sera di quel lungo e freddo giorno di febbraio qualcuno tornò a bussare alla porta della nostra casa. Il cuore mi salì in gola. Dal suono o meglio dalla cadenza e dall’intensità di quel bussare riconobbi qualcosa che già avevo sentito. Era il bussare di una mano familiare.
“Sono Mario”.
Era tornato! Mi abbracciò, mi piantò sulle sue ginocchia. Rimase con noi non so quanto nella gelida stanza della nostra casa. “Tornerò domani”, s’accomiatò. E venne ogni giorno, per tre o quattro settimane, fino a quando il suo battaglione rimase in città. Tornò ad aiutarci. Le navi alleate avevano cominciato a gettare le ancore nel porto di Dubrovnik, sbarcando armi, munizioni e viveri per l’esercito partigiano e per la popolazione. Sui pacchi degli aiuti stava scritto UNRRA. Ancora ricordo com’erano fatti. C’era di tutto in quei pacchi, dal vestiario alla cioccolata. Aspettavamo l’arrivo di Mario ogni giorno verso mezzogiorno, chiedendoci che cosa ci avrebbe portato.
Ma la guerra non era finita. I partigiani si accingevano a sfondare le linee tedesche per proseguire la marcia verso il nord del Paese. All’inizio di aprile, liberarono Sarajevo. Nel corso della primavera – l’ultima primavera di guerra – se ne andò anche Mario per partecipare alle operazioni finali. “Tornerò”, disse nella nostra lingua: “Vratit ću se!”.
Non tornò.
Non riuscimmo a sapere più nulla di lui. Le ultime operazioni belliche impegnarono l’esercito in scontri durissimi: i partigiani erano abituati alla guerriglia, non alla guerra frontale. Molti persero la vita in quelle battaglie di aprile e nei primi giorni di maggio. Se avesse potuto, Mario sarebbe certamente tornato.
Sapeva che io lo aspettavo.
Ma non tornò.
La storia che ho voluto raccontare, tuttavia, non è ancora terminata. La guerra lasciò irrisolti molti problemi su un territorio verso il quale la grande Storia non è stata molto tenera. Mi avviai agli studi superiori, ma non a quelli di musica: m’iscrissi al quadriennio di lingue e letterature romanze a Sarajevo; presi a studiare seriamente anche l’italiano. A causa dell’insonnia e della depressione – disturbi cominciati probabilmente con le notti passate in bianco durante la guerra – fui costretto a lasciare i libri. Nel frattempo mi chiamarono alla leva militare. La naia mi toccò nel periodo peggiore: era scoppiata la cosiddetta “crisi di Trieste”, che minacciava di trasformarsi in una nuova guerra. Dalla caserma di Zemun, presso Belgrado, dove si trovava il mio battaglione, fui trasferito sul monte Platak che domina la città di Rijeka/Fiume. In quella regione di frontiera il nostro addestramento militare, con tiri, finte battaglie e lunghe marce, continuò giorno dopo giorno, nelle ore mattutine e in quelle pomeridiane. Eravamo pronti a intervenire nel vicino Territorio di Trieste suddiviso nelle Zone A e B. Le marce si protraevano per diverse ore, cadevamo a terra per la stanchezza; correvamo all’assalto di immaginari fortini e trincee nemiche, eseguendo gli ordini, sparando e urlando “hurrah”. Gli allarmi si ripetevano ogni notte, lasciandoci poche ore di sonno. Servivano a tenerci pronti a qualsiasi evenienza. “Sveglia! Il nemico non dorme!”, urlavano gli ufficiali di picchetto, ma non dormivo neppure io. Anche dall’altra parte del confine le giovani reclute italiane si preparavano alla resa dei conti con “sti slavi”, anche loro si addestravano, marciavano, correvano all’assalto, sparavano contro di noi con tutte le armi. Mi tormentava un pensiero: “E se Mario avesse un figlio e quel ragazzo fosse dall’altra parte del confine? Se scoppiasse la vera guerra e lo colpissi?”. Mi consolavo pensando al fatto che ero un cattivo tiratore, avrei certamente mancato il bersaglio. Anche oggi, quando in Italia incontro qualche mio coetaneo, mi chiedo se non sia stato in mezzo a coloro che io avrei dovuto uccidere o che avrebbero potuto uccidere me.
Una sera, alla periferia di Fiume, sentii tre ragazzi e una ragazza che, seduti in disparte, cantavano in italiano la canzone Vola, colomba bianca vola… Cantavano sottovoce, con nostalgia, ma anche con una punta di orgoglio. Quando scorsero il soldato che si avvicinava – ero io – se la diedero a gambe. Non riuscivo a credere ai miei occhi: c’è qualcuno che fugge alla mia vista, cioè al cospetto di un ragazzo pallido e nervoso, studente universitario senza laurea, figlio di un emigrato di Odessa, “amico di Mario”!
Ben presto mi fu raccontata la storia dell’esodo dei nostri italiani dalle terre istroquarnerine. Venni a conoscere anche l’altra storia, quella dei massacri compiuti dalle Camicie nere in Dalmazia e in Montenegro durante l’occupazione. Non riuscivo a credere o non volevo credere né all’una né all’altra, eppure sentivo e intuivo che in entrambe c’era del vero. Fu così che divenni anch’io un componente della minoranza, non soltanto nazionale o politica, ma della minoranza in assoluto. Ignoravo dove la cosa mi avrebbe portato. Forse non soltanto nella letteratura.
Qualche anno più tardi, avendo conosciuto non pochi intellettuali della minoranza italiana del territorio istro-quarnerino, mi fu più facile capire i problemi di quegli italiani esuli e di quelli “rimasti con noi” e talvolta dimenticati dai loro connazionali. Era possibile collaborare con q uel piccolo “popolo d’Italia” nella Jugoslavia che non era ancora “ex”: ricordo in questa occasione Giacomo, Eros, Nelida, Lucio, Alessandro, Claudio e altri amici che conobbi prima di arrivare nella patria di Mario.
©Infinito edizioni 2010 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte
domenica 25 aprile 2010
PASSAGGIO IN ONDA
La puntata di Passaggio a Sud Est in onda il 24 aprile alle 22,30 a Radio Radicale
L'apertura è dedicata al genocidio degli armeni di cui ricorre oggi il 95° anniversario: il 24 aprile del 1915, con la deportazione degli armeni di Istanbul, cominciava il Medz Yeghern, il "grande male", che sarebbe proseguito con le "marce della morte" e con i massacri perpetrati dall'esercito turco e dalle milizie curde. Una pagina tragica che pesa ancora oggi sul presente della Turchia, sul negoziato per l'adesione all'Unione Europea, sugli sforzi per la normalizzazione dei rapporti con l'Armenia e per la pacificazione del caicaso con la soluzione della questione del Nagorno Karabakh.
Il programma prosegue poi facendo il punto delle iniziative politico-diplomatiche per la preparazione della conferenza internazionale sui Balcani che si terrà il 2 giugno a Sarajevo, con in primo piano la questione della partecipazione del Kosovo del quale la Serbia non intende riconoscere l'indipendenza. Si continua con la situazione della Bosnia Erzegovina al centro dell'attenzione di Unione Europea e Stati Uniti e con la Macedonia che ha tra l'altro firmato alcuni accordi con l'Albania.
La seconda parte è interamente dedicata alle elezioni presidenziali del 18 aprile a Cipro Nord e alla vittoria del premier nazionalista Dervish Eroglu con le sintesi di due interviste ai parlamentari radicali Marco Perduca e Maurizio Turco, entrambi cittadini della Repubblica Turca di Cipro del Nord.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura, è riascoltabile direttamente qui
oppure scaricabile con il podcast dal sito di Radio Radicale
L'apertura è dedicata al genocidio degli armeni di cui ricorre oggi il 95° anniversario: il 24 aprile del 1915, con la deportazione degli armeni di Istanbul, cominciava il Medz Yeghern, il "grande male", che sarebbe proseguito con le "marce della morte" e con i massacri perpetrati dall'esercito turco e dalle milizie curde. Una pagina tragica che pesa ancora oggi sul presente della Turchia, sul negoziato per l'adesione all'Unione Europea, sugli sforzi per la normalizzazione dei rapporti con l'Armenia e per la pacificazione del caicaso con la soluzione della questione del Nagorno Karabakh.
Il programma prosegue poi facendo il punto delle iniziative politico-diplomatiche per la preparazione della conferenza internazionale sui Balcani che si terrà il 2 giugno a Sarajevo, con in primo piano la questione della partecipazione del Kosovo del quale la Serbia non intende riconoscere l'indipendenza. Si continua con la situazione della Bosnia Erzegovina al centro dell'attenzione di Unione Europea e Stati Uniti e con la Macedonia che ha tra l'altro firmato alcuni accordi con l'Albania.
La seconda parte è interamente dedicata alle elezioni presidenziali del 18 aprile a Cipro Nord e alla vittoria del premier nazionalista Dervish Eroglu con le sintesi di due interviste ai parlamentari radicali Marco Perduca e Maurizio Turco, entrambi cittadini della Repubblica Turca di Cipro del Nord.
La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura, è riascoltabile direttamente qui
oppure scaricabile con il podcast dal sito di Radio Radicale
sabato 24 aprile 2010
CIPRO NORD: E SE LA VITTORIA DEL NAZIONALISTA EROGLU FOSSE LA SVOLTA NECESSARIA?
Domenica 18 aprile Cipro Nord ha scelto il suo nuovo presidente. "Ha vinto il falco" hanno commentato molti organi di informazione annunciando la vittoria dell'attuale premier turco-cipriota, il nazionalista Dervish Eroglu, che non vede di buon occhio il negoziato per la riunificazione dell'isola portato avanti in questo ultimo anno e mezzo dal suo predecessore Mehmet Alì Talat dopo l'elezione a presidente della Repubblica di Cipro (la parte greco-cipriota dell'isola) di Dimitris Christofias. In effetti l'elezione di Eroglu, prevista da tempo da tutti i sondaggi, pone alcuni problemi perché il neo-presidente turco-cipriota non si oppone al proseguimento del negoziato con i greco-ciprioti, ma non vede la riunificazione come l'unico sbocco possibile e propone in alternativa la creazione di due stati in qualche modo federati. Questa ipotesi viene rifiutata dai greco-ciprioti e, ufficialmente, anche dalla comunità internazionale perché stabilirebbe definitivamente la divisione dell'isola determinata dall'intervento turco del 1974 e in seguito alla quale nacque poi la Repubblica Turca di Cirpo del Nord, entità statale riconosciuta solo da Ankara. Quella di Cipro rappresenta una delle questioni più complesse sul tavolo del negoziato per l'adesione delle Turchia all'Unione Europea ed è per questo che Bruxelles, in attesa di vedere quali saranno le prime mosse del neo-presidente turco-cipriota, ha invitato Eroglu a "proseguire in spirito costruttivo gli sforzi per un accordo ed una riunificazione". Sulla vittoria di Dervish Eroglu, il futuro del negoziato per la riunificazione, i diritti dei cittadini turco-ciprioti, l'atteggiamento dell'Unione Europea e le conseguenze sul negoziato di adesione della Turchia anche in relazione all'evoluzione della politica estera turca, segnalo una mia intervista in cui Marco Perduca, senatore radicale eletto nel Pd, analizza l'esito delle elezioni presidenziali a Cipro Nord.
Qui l'intervista a Marco Perduca per Radio Radicale
L'elezione di Dervish Eroglu alla presidenza di Cipro Nord è stata accolta con una preoccupazione appena celata dalle dichiarazioni ufficiali sia da Bruxelles che delle varie cancellerie europee. E secondo alcune voci nemmeno ad Ankara hanno gradito l'elezione del leader nazionalista temendo che un irrigidimento dei turco-ciprioti nel negoziato per la riunificazione dell'isola possa riflettersi negativamente sul negoziato di adesione della Turchia all'Ue. Ma se non fosse davvero così? Se l'elezione di Eroglu fosse la svolta per far finire l'isolamento di cui sono vittime i turco-ciprioti? La Rtcn, infatti, si trova al momento stretta nel gioco dei veti e degli embarghi incrociati tra Turchia e Repubblica di Cipro. E non bisogna nemmeno dimenticare che nel 2004, mentre i turco-ciprioti in un referendum approvarono a maggioranza il piano di riunificazione elaborato con la mediazione dell'allora segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, le autorità greco-cipriote, non appena avuta le certezza dell'ingresso nell'Ue, smentirono le promesse fatte a Bruxelles e fecero in modo che la maggioranza dei loro concittadini bocciassero il piano Annan (e di tradimento parlò apertamente l'allora commissario europeo all'Allargamento). Dopo di che Cipro (tutta l'isola di Cipro) entrò nell'Ue, ma i turco-ciprioti si sono venuti a trovare in un limbo: formalmente sono cittadini dell'Unione Europea, ma di fatto non possono accedere ai diritti che questo status garantirebbe loro in quanto appartenenti ad uno Stato che ufficialmente non esiste. La ripetizione del referendum sull'unificazione potrebbe essere allora la condizione per risolvere la divisione dell'isola garantendo l'effettiva parità fra tutti i suoi abitanti. Questa è l'opinione di Maurizio Turco, deputato radicale eletto nel Pd, secondo il quale l'atteggiamento più deciso di Eroglu rispetto al predecessore Talat, al contrario di quanto sembra pensare la maggioranza dei commentatori, potrebbe dare dare una svolta positiva al negoziato sul futuro di Cipro.
Qui l'intervista a Maurizio Turco per Radio Radicale
In una dichiarazione diffusa all'indomani delle elezioni presidenziali a Cirpo Nord e della vittoria di Dervish Eroglu, Perduca e Turco affermano che ora "occorre che la sufficienza con cui gli europei trattano i turco-ciprioti si confronti una volta per tutte con la pratica della democrazia nella Repubblica Turca di Cipro Nord confermata in occasione di queste contese elezioni". I due parlamentari radicali ricordano "agli europei che oggi si appellano al nuovo leader turco-cipriota affinché mantenga vivo il dialogo con la contro-parte che occorre praticare quanto si predica. La Commissione europea infatti, dopo aver fatto promesse di aiuti - anche economici - al nord, ha adottato un approccio burocratico verso la ricerca di una soluzione politica onnicomprensiva arrivando a dilazionare i contributi per il sostegno dello sviluppo della parte turca di Cipro". Quindi, "è sicuramente necessario tenere ingaggiate le due parti sulla piattaforma composta con anni di contatti sotto l'egida della Nazioni unite, ma occorre anche onorare gli sforzi e le dinamiche democratiche dei turco ciprioti cambiando radicalmente l'atteggiamento e mantenendo le promesse fatte quando si concesse a Nicosia di rappresentare tutta l'isola come nuovo stato membro dell'Unione Europea".
Ricordo che sia Marco Perduca che Maurizio Turco hanno chiesto e ottenuto nel 2007 la cittadinanza della Repubblica Turca di Cipro Nord.
Le interviste a Marco Perduca e Maurizio Turco sono disponibili per il podcast sul sito di Radio Radicale
Qui l'intervista a Marco Perduca per Radio Radicale
L'elezione di Dervish Eroglu alla presidenza di Cipro Nord è stata accolta con una preoccupazione appena celata dalle dichiarazioni ufficiali sia da Bruxelles che delle varie cancellerie europee. E secondo alcune voci nemmeno ad Ankara hanno gradito l'elezione del leader nazionalista temendo che un irrigidimento dei turco-ciprioti nel negoziato per la riunificazione dell'isola possa riflettersi negativamente sul negoziato di adesione della Turchia all'Ue. Ma se non fosse davvero così? Se l'elezione di Eroglu fosse la svolta per far finire l'isolamento di cui sono vittime i turco-ciprioti? La Rtcn, infatti, si trova al momento stretta nel gioco dei veti e degli embarghi incrociati tra Turchia e Repubblica di Cipro. E non bisogna nemmeno dimenticare che nel 2004, mentre i turco-ciprioti in un referendum approvarono a maggioranza il piano di riunificazione elaborato con la mediazione dell'allora segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, le autorità greco-cipriote, non appena avuta le certezza dell'ingresso nell'Ue, smentirono le promesse fatte a Bruxelles e fecero in modo che la maggioranza dei loro concittadini bocciassero il piano Annan (e di tradimento parlò apertamente l'allora commissario europeo all'Allargamento). Dopo di che Cipro (tutta l'isola di Cipro) entrò nell'Ue, ma i turco-ciprioti si sono venuti a trovare in un limbo: formalmente sono cittadini dell'Unione Europea, ma di fatto non possono accedere ai diritti che questo status garantirebbe loro in quanto appartenenti ad uno Stato che ufficialmente non esiste. La ripetizione del referendum sull'unificazione potrebbe essere allora la condizione per risolvere la divisione dell'isola garantendo l'effettiva parità fra tutti i suoi abitanti. Questa è l'opinione di Maurizio Turco, deputato radicale eletto nel Pd, secondo il quale l'atteggiamento più deciso di Eroglu rispetto al predecessore Talat, al contrario di quanto sembra pensare la maggioranza dei commentatori, potrebbe dare dare una svolta positiva al negoziato sul futuro di Cipro.
Qui l'intervista a Maurizio Turco per Radio Radicale
In una dichiarazione diffusa all'indomani delle elezioni presidenziali a Cirpo Nord e della vittoria di Dervish Eroglu, Perduca e Turco affermano che ora "occorre che la sufficienza con cui gli europei trattano i turco-ciprioti si confronti una volta per tutte con la pratica della democrazia nella Repubblica Turca di Cipro Nord confermata in occasione di queste contese elezioni". I due parlamentari radicali ricordano "agli europei che oggi si appellano al nuovo leader turco-cipriota affinché mantenga vivo il dialogo con la contro-parte che occorre praticare quanto si predica. La Commissione europea infatti, dopo aver fatto promesse di aiuti - anche economici - al nord, ha adottato un approccio burocratico verso la ricerca di una soluzione politica onnicomprensiva arrivando a dilazionare i contributi per il sostegno dello sviluppo della parte turca di Cipro". Quindi, "è sicuramente necessario tenere ingaggiate le due parti sulla piattaforma composta con anni di contatti sotto l'egida della Nazioni unite, ma occorre anche onorare gli sforzi e le dinamiche democratiche dei turco ciprioti cambiando radicalmente l'atteggiamento e mantenendo le promesse fatte quando si concesse a Nicosia di rappresentare tutta l'isola come nuovo stato membro dell'Unione Europea".
Ricordo che sia Marco Perduca che Maurizio Turco hanno chiesto e ottenuto nel 2007 la cittadinanza della Repubblica Turca di Cipro Nord.
Le interviste a Marco Perduca e Maurizio Turco sono disponibili per il podcast sul sito di Radio Radicale
venerdì 23 aprile 2010
LA DIPLOMAZIA TURCA PUNTA AI BALCANI
Gli ultimi mesi hanno rivelato l'interesse crescente della Turchia per i Balcani. Che la politica estera turca sia profondamente cambiata negli ultimi anni non è più una novità ed è anzi oggetto di studi e analisi per capire le sue dinamiche e i suoi obiettivi. Il governo islamico-moderato dell'Akp del premier Recep Tayyp Erdogan ha fatto della "profondità strategica" teorizzata dall'attuale ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu la dottrina a cui ispira la propria azione internazionale all'insegna dello slogan "Nessun problema con i nostri vicini". In questi mesi l'attenzione degli analisti e delle cancellerie è stata attratta dalle soprattutto dalle iniziative turche in un'area rovente come il Medio Oriente, con le tensioni con Israele e le aperture fin troppo affettuose all'Iran di Ahmadinejad. Meno curiosità ha suscitato invece l'interesse di Ankara per i Balcani e invece la cosa meriterebbe molta attenzione proprio nel momento in cui il negoziato per l'adesione della Turchia all'Unione Europea versa in uno stato quasi comatoso.
Il caso ha voluto, tra l'altro, che le iniziative di Ankara nei Balcani coincidano, anno più anno meno, con il centenario della fine del predominio ottomano sulla regione. Da questo punto di vista è interessante notare che mentre la Turchia odierna è un paese con un suo peso politico e diplomatico non indifferente, sostanzialmente democratico e con notevoli potenzialità economiche, importante membro della Nato e fedele alleato degli Stati Uniti, la realtà geopolitica dei Balcani assomiglia a quella determinatasi circa cento anni fa, dopo la fine dei grandi imperi, con la (ri)nascita di piccoli Stati, alcuni dei quali sottoposto al protettorato internazionale, e con i quali la Turchia condivide il progetto di integrazione nell'Unione Europea. E guarda caso, questi Stati, a parte la Croazia, il cui ingresso nell'UE è questione di un anno o due, sono proprio quelli appartenenti al cosiddetto "gruppo ottomano", ovvero Macedonia, Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Albania e Kosovo. Si tratta dei Paesi che per secoli hanno fatto parte dell’impero ottomano ed è naturale che proprio qui la Turchia stia portando avanti un’attività diplomatica piuttosto dinamica.
Al di là dei legami storici, la Turchia è impegnata soprattutto in iniziative concrete per contribuire alla stabilizzazione della regione. L'ingresso della diplomazia turca sulla scena balcanica avviene dopo il fallimento del vertice di Butmir, in Bosnia, dove il 9 ottobre scorso si è svolto un incontro organizzato da Unione Europea e Stati Uniti che avrebbe dovuto dare contribuire a sbloccare l'impasse politico-istituzionale e riavviare il processo delle riforme necessarie per l'integrazione europea in vista anche del superamento della rigida situazione disegnata dagli accordi di pace di Dayton del 1995. Questa coincidenza porta molti a domandarsi se dietro l’iniziativa turca non ci sia anche la sollecitazione di Washington. In ogni caso due cose sono da notare: la prima è che con la sua iniziativa balcanica Ankara, dopo Caucaso e Medio Oriente, si propone come attore geopolitico nel cuore stesso dell'Europa; la seconda è che la Turchia intende giocare una parte da protagonista nella partita in corso nei Balcani.
Di tutte queste questioni che qui ho cercato di sintetizzare parla un articolo pubblicato qualche tempo fa dalla rivista on-line Affari Internazionali, firmato da Miodrag Lekic, ex ambasciatore della Jugoslavia a Roma, attualmente docente presso le università "La Sapienza" e "Luiss - Guido Carli" di Roma.
Il caso ha voluto, tra l'altro, che le iniziative di Ankara nei Balcani coincidano, anno più anno meno, con il centenario della fine del predominio ottomano sulla regione. Da questo punto di vista è interessante notare che mentre la Turchia odierna è un paese con un suo peso politico e diplomatico non indifferente, sostanzialmente democratico e con notevoli potenzialità economiche, importante membro della Nato e fedele alleato degli Stati Uniti, la realtà geopolitica dei Balcani assomiglia a quella determinatasi circa cento anni fa, dopo la fine dei grandi imperi, con la (ri)nascita di piccoli Stati, alcuni dei quali sottoposto al protettorato internazionale, e con i quali la Turchia condivide il progetto di integrazione nell'Unione Europea. E guarda caso, questi Stati, a parte la Croazia, il cui ingresso nell'UE è questione di un anno o due, sono proprio quelli appartenenti al cosiddetto "gruppo ottomano", ovvero Macedonia, Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Albania e Kosovo. Si tratta dei Paesi che per secoli hanno fatto parte dell’impero ottomano ed è naturale che proprio qui la Turchia stia portando avanti un’attività diplomatica piuttosto dinamica.
Al di là dei legami storici, la Turchia è impegnata soprattutto in iniziative concrete per contribuire alla stabilizzazione della regione. L'ingresso della diplomazia turca sulla scena balcanica avviene dopo il fallimento del vertice di Butmir, in Bosnia, dove il 9 ottobre scorso si è svolto un incontro organizzato da Unione Europea e Stati Uniti che avrebbe dovuto dare contribuire a sbloccare l'impasse politico-istituzionale e riavviare il processo delle riforme necessarie per l'integrazione europea in vista anche del superamento della rigida situazione disegnata dagli accordi di pace di Dayton del 1995. Questa coincidenza porta molti a domandarsi se dietro l’iniziativa turca non ci sia anche la sollecitazione di Washington. In ogni caso due cose sono da notare: la prima è che con la sua iniziativa balcanica Ankara, dopo Caucaso e Medio Oriente, si propone come attore geopolitico nel cuore stesso dell'Europa; la seconda è che la Turchia intende giocare una parte da protagonista nella partita in corso nei Balcani.
Di tutte queste questioni che qui ho cercato di sintetizzare parla un articolo pubblicato qualche tempo fa dalla rivista on-line Affari Internazionali, firmato da Miodrag Lekic, ex ambasciatore della Jugoslavia a Roma, attualmente docente presso le università "La Sapienza" e "Luiss - Guido Carli" di Roma.
I BALCANI VERSO L'EUROPA PASSANDO PER SARAJEVO - 2
Di Marina Szikora (*)
Per la prossima conferenza ministeriale sui Balcani occidentali che si terra’ il 2 giugno a Sarajevo, diventa una delle questioni centrali assicurare la partecipazione di tutti i protagonisti della regione ad attendere questo importante appuntamento che vuole essere anche una specie di proseguimento delle due precedenti conferenze relative a quest’area tutt’ora cosi’ delicata - il vertice di Zagabria del 2000 e quello di Salonicco svoltosi nel 2003. Ricordiamolo, al vertice di Zagabria, nel novembre del 2000, la Commissione europea ha gettato le basi di una visione piu’ ambiziosa dello sviluppo della regione con il processo di associazione e di stabilizzazione. Nel giugno 2003, il vertice di Salonicco ha ulteriormente arricchito il PAS di elementi attinenti al processo di allargamento, in modo da rispondere con piu’ efficacia alle nuove sfide. Da qui, tra l’altro, i cosidetti ‘partenariati europei’ che traggono spunto dai partenariati di adesione che dovrebbero aiutare i paesi dei Blacani occidentali nel loro processo di riforme e nei preparativi per la futura adesione. Da sottolineare che al Consiglio europeo di Salonicco e’ stato roconfermato che tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno una prospettiva di adesione all’Ue.
Il nocciolo duro da risolvere in vista della conferenza di Sarajevo e’ soprattutto la questione della modalita’ di partecipazione del Kosovo, vista la ferma posizone della Serbia relativa al suo rifiuto di riconoscere l’indipendenza di Pristina e in questo senso di opporsi fermamente alla partecipazione dei suoi rappresentanti ad ogni tipo di forum regionale in quanto rappresentanti di un paese indipendente. Secondo il segretario di Stato del Ministero per il Kosovo e Metohija, Oliver Ivanovic gli organizzatori della conferenza dovrebbero trovare una opzione accettabile per tutti i partecipanti. “Il nostro principio e’ che il Kosovo puo’ liberamente partecipare alle riunioni a condizione che la presenza dei rappresentanti kosovari non implichi il loro status autoproclamato” ha detto Ivanovic per l’emittente B92 aggiungendo che sorprendono le reazioni di fattori internazionali perche’ non si puo’ pretendere che la Serbia accetti la separazione e l’indipendenza del Kosovo. “Nessuno accetterebbe la violazione della propria costituzione e la nostra Costituzione definisce il Kosovo come territorio della Serbia” ha precisato Ivanovic. Secondo la sua opinione non e’ da sottovalutare il fatto che molti paesi non hanno riconosciuto l’autoproclamata indipendenza del Kosovo e che l’opinione pubblica in Kosovo deve arrivare al punto di capire che lo status non e’ risolto.
La scelta di Sarajevo come il luogo dove si svoglera’ la conferenza che sara’ organizzata dalla presidenza spagnola all’Ue, pone l’accento anche sulla BiH che di sicuro rappresenta la questione forse ancora piu’ delicata della regione balcanica, dovuto alla sua instabile situazione politica interna le cui coseguenze sono il persistente blocco delle riforme costituzionali e la mancanza di consenso dei leader politici locali. Da sottolineare anche che la BiH si avvicina alle elezioni politiche che si terranno il prossimo ottobre. Trovare una formula di convivenza e soprattutto di riconciliazione nella regione mutilata dalle guerre degli anni novanta e’ senza dubbio il requisito indispensabile per raggiungere l’obiettivo di tutti questi paesi – le integrazioni euroatlantiche ma soprattutto per garantire il progresso, pace e stabilita’ sia della regione che dell’Europa nel suo insieme. Proprio per questo motivo, l’avanzamento di venti nuovi che modestamente ma visibilmente soffiano recentemente nella regione, destano ottimismo e speranza di tempi nuovi e politiche diverse. Ne sono la conferma le ultime vicende che vedono protagonisti in primo piano di questi possibili cambiamenti i pesidenti di Croazia e Serbia, Ivo Josipovic e Boris Tadic.
Anche se incompleta nella condanna, poiche’ non fa alcun riferimento al crimine di genocidio, e’ tuttavia un passo significativo in avanti la recente approvazione in Parlamento serbo della Risoluzione su Srebrenica, una iniziativa portata avanti dalla coalizione governativa guidata dal Partito democratico (DS) dello stesso presidente della Serbia Boris Tadic.
D’altra parte, settimana scorsa, per la prima volta, un presidente croato ha pronunciato il suo discorso nel Parlamento della BiH e con questa oportunita’, il nuovo capo dello Stato croato Ivo Josipovic ha aperto una pagina nuova e perfino storica nei rapporti tra Croazia e BiH. Ma non solo l’intervento in cui sono stati esplicitamente condannati gli errori della politica croata degli anni novanta in BiH che avevano contribuito alle vicende tragiche e alle sofferenze dei cittadini della BiH, bensi’ anche il gesto senza precedenti di Josipovic, che accompagnato dal capo della chiesa cattolica in BiH, l’arcivescovo di Sarajevo Vinko Puljic e quello della comunita’ islamica, Mustafa Ceric, si e’ recato ad Ahmici e Krizancevo Selo, per rendere omaggio ai 116 civili musulmani uccisi ad Ahmici dalle forze dell’esercito croato in BiH e ai civili croati di Krizancevo Selo, uccisi invece dalle forze musulmane. La condanna da parte del Presidente Josipovic della politica croata in BiH pronunciata nel suo discorso al Parlamento bosniaco, come abbiamo gia’ riportato sabato scorso, ha suscitato pero’ durissime critiche in Croazia nell’ambito del partito governativo, l’HDZ e della stessa premier Jadranka Kosor. Ma questa nuova svolta nella politica del neoeletto presidente croato e’ stata salutata da tutta la comunita’ internazionale, Stati Unitie ed Unione europea come un cambiamento nella direzione giusta e un impegno coraggioso verso relazioni migliori e stabili tra i Paesi della regione.
I rapporti raffredati e compromessi tra Croazia e Serbia, sempre grazie all’apertura di Josipovic e Tadic hanno assunto nell’arco di un solo mese prospettive del tutto diverse. Il primo, inaspettato e sorprendente e’ stato il cosidetto “incontro senza cravatta” tra i due presidenti ad Opatija, in Croazia, un incontro trascorso in un clima molto positivo di lunghi colloqui, contiunuato poi ai margini del Brussels forum a Bruxelles e infine l’incontro venerdi’ scorso in Ungheria, nella citta’ di Pecs, su invito del presidente ungherese Laszlo Solyom. Al centro dei discorsi le prospettive europee della Croazia che si appresta a concludere entro l’anno i negoaziati di adesione e della Serbia che durante la presidenza ungherese all’Ue dal prossimo 1 gennaio 2011, si prospetta possa ottenere lo status di candidato ufficiale all’adesione.
Nientemeno importante la questione che da anni appesantisce i rapporti tra Slovenia e Croazia a causa della disputa sul confine terrestre e marittimo e che sin dall’indipendenza delle due ex Repubbliche jugoslave e’ rimasta irrisolta. Grazie all’impegno dei governi croato e sloveno di Jadranka Kosor e Borut Pahor, lo scorso novembre e’ stato raggiunto l’accrdo sull’arbitrariato per risolvere la questione aperta. Il Parlamento croato ha gia’ ratificato l’accordo, mentre quello sloveno ha atteso il recente pronunciamento della Corte costituzionale slovena sulla legittimita’ dell’Accordo. Dopo il sengale verde della Corte costituzionale, il parlamento di Ljubljana ha ratificato l’accordo questa settimana con 48 voti a favore, vale a dire con l’approvazione dell’intera coalizione governativa, mentre l’opposizione guidata dall’ex premier Janez Jansa ha rinunciato al voto qualificando il dibattito parlamentare come tradimento della Slovenia. Ma il ministero degli esteri sloveno in un comunicato ha affermato di “appoggiare la ratifica dell’accordo di arbitrato che dopo 18 anni di negoziati rappresenta un passo significativo verso la soluzione della questione sul confine e il miglioramento delle relazioni tra i due Paesi che inserisce nella regione un modello di soluzione costruttiva delle questioni aperte”. Tuttavia, l’ultima parola tocca ai cittadini i quali saranno invitati a pronunciarsi sull’accordo in un referendum. A tal proposito il premier sloveno Borut Pahor ha dichiarato che “Infine i cittadini decideranno al referendum se l’accordo di arbitrariato e’ un modo buono per definire il confine” Ha promesso di impegnarsi affinche’ il referendum abbia sucesso e da quelli che sono contrari all’accordo di aspettarsi che nella campagna referendaria dicano qual’e’ l’alternativa all’arbitrariato, come e quando raggiungerebbero di piu’. La decisione sulla ratifica dell’accordo in Parlamento e’ stata appoggiata anche dal presidente della Slovenia Danilo Tuerk il quel si e’ detto credulo che i cittadini sloveni al referendum confermeranno la ratifica dimostrando cosi’ di prendere decisioni “razionali”.
Secondo la stampa slovena, la vera battaglia politica sull’accordo sta appena per iniziare poiche’ si attende il referendum al quale l’accordo verra’ accolto o rigettato dai cittadini, ma in effetti – scrivono i media sloveni – tutto potrebbe terminare con un referendum pro o contro il governo di Borut Pahor. “La campagna referendaria sara’ dura e spietata, mentre il governo dovra’ impegnarsi molto per vincerla. Deve convincere gli elettori che l’oggetto del referendum del prossimo giugno non e’ il misuramento del sostegno al governo o al premier Pahor e alle sue riforme, bensi’ la soluzione del problema di confine con la Croazia” scrivono i giornali sloveni.
(*) Corrispondente di Radio Radicale.Il testo è la trascrizione della corrispondenza andata in onda nella puntata dello Speciale di Passaggio a Sud Est del 21 aprile.
Per la prossima conferenza ministeriale sui Balcani occidentali che si terra’ il 2 giugno a Sarajevo, diventa una delle questioni centrali assicurare la partecipazione di tutti i protagonisti della regione ad attendere questo importante appuntamento che vuole essere anche una specie di proseguimento delle due precedenti conferenze relative a quest’area tutt’ora cosi’ delicata - il vertice di Zagabria del 2000 e quello di Salonicco svoltosi nel 2003. Ricordiamolo, al vertice di Zagabria, nel novembre del 2000, la Commissione europea ha gettato le basi di una visione piu’ ambiziosa dello sviluppo della regione con il processo di associazione e di stabilizzazione. Nel giugno 2003, il vertice di Salonicco ha ulteriormente arricchito il PAS di elementi attinenti al processo di allargamento, in modo da rispondere con piu’ efficacia alle nuove sfide. Da qui, tra l’altro, i cosidetti ‘partenariati europei’ che traggono spunto dai partenariati di adesione che dovrebbero aiutare i paesi dei Blacani occidentali nel loro processo di riforme e nei preparativi per la futura adesione. Da sottolineare che al Consiglio europeo di Salonicco e’ stato roconfermato che tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno una prospettiva di adesione all’Ue.
Il nocciolo duro da risolvere in vista della conferenza di Sarajevo e’ soprattutto la questione della modalita’ di partecipazione del Kosovo, vista la ferma posizone della Serbia relativa al suo rifiuto di riconoscere l’indipendenza di Pristina e in questo senso di opporsi fermamente alla partecipazione dei suoi rappresentanti ad ogni tipo di forum regionale in quanto rappresentanti di un paese indipendente. Secondo il segretario di Stato del Ministero per il Kosovo e Metohija, Oliver Ivanovic gli organizzatori della conferenza dovrebbero trovare una opzione accettabile per tutti i partecipanti. “Il nostro principio e’ che il Kosovo puo’ liberamente partecipare alle riunioni a condizione che la presenza dei rappresentanti kosovari non implichi il loro status autoproclamato” ha detto Ivanovic per l’emittente B92 aggiungendo che sorprendono le reazioni di fattori internazionali perche’ non si puo’ pretendere che la Serbia accetti la separazione e l’indipendenza del Kosovo. “Nessuno accetterebbe la violazione della propria costituzione e la nostra Costituzione definisce il Kosovo come territorio della Serbia” ha precisato Ivanovic. Secondo la sua opinione non e’ da sottovalutare il fatto che molti paesi non hanno riconosciuto l’autoproclamata indipendenza del Kosovo e che l’opinione pubblica in Kosovo deve arrivare al punto di capire che lo status non e’ risolto.
La scelta di Sarajevo come il luogo dove si svoglera’ la conferenza che sara’ organizzata dalla presidenza spagnola all’Ue, pone l’accento anche sulla BiH che di sicuro rappresenta la questione forse ancora piu’ delicata della regione balcanica, dovuto alla sua instabile situazione politica interna le cui coseguenze sono il persistente blocco delle riforme costituzionali e la mancanza di consenso dei leader politici locali. Da sottolineare anche che la BiH si avvicina alle elezioni politiche che si terranno il prossimo ottobre. Trovare una formula di convivenza e soprattutto di riconciliazione nella regione mutilata dalle guerre degli anni novanta e’ senza dubbio il requisito indispensabile per raggiungere l’obiettivo di tutti questi paesi – le integrazioni euroatlantiche ma soprattutto per garantire il progresso, pace e stabilita’ sia della regione che dell’Europa nel suo insieme. Proprio per questo motivo, l’avanzamento di venti nuovi che modestamente ma visibilmente soffiano recentemente nella regione, destano ottimismo e speranza di tempi nuovi e politiche diverse. Ne sono la conferma le ultime vicende che vedono protagonisti in primo piano di questi possibili cambiamenti i pesidenti di Croazia e Serbia, Ivo Josipovic e Boris Tadic.
Anche se incompleta nella condanna, poiche’ non fa alcun riferimento al crimine di genocidio, e’ tuttavia un passo significativo in avanti la recente approvazione in Parlamento serbo della Risoluzione su Srebrenica, una iniziativa portata avanti dalla coalizione governativa guidata dal Partito democratico (DS) dello stesso presidente della Serbia Boris Tadic.
D’altra parte, settimana scorsa, per la prima volta, un presidente croato ha pronunciato il suo discorso nel Parlamento della BiH e con questa oportunita’, il nuovo capo dello Stato croato Ivo Josipovic ha aperto una pagina nuova e perfino storica nei rapporti tra Croazia e BiH. Ma non solo l’intervento in cui sono stati esplicitamente condannati gli errori della politica croata degli anni novanta in BiH che avevano contribuito alle vicende tragiche e alle sofferenze dei cittadini della BiH, bensi’ anche il gesto senza precedenti di Josipovic, che accompagnato dal capo della chiesa cattolica in BiH, l’arcivescovo di Sarajevo Vinko Puljic e quello della comunita’ islamica, Mustafa Ceric, si e’ recato ad Ahmici e Krizancevo Selo, per rendere omaggio ai 116 civili musulmani uccisi ad Ahmici dalle forze dell’esercito croato in BiH e ai civili croati di Krizancevo Selo, uccisi invece dalle forze musulmane. La condanna da parte del Presidente Josipovic della politica croata in BiH pronunciata nel suo discorso al Parlamento bosniaco, come abbiamo gia’ riportato sabato scorso, ha suscitato pero’ durissime critiche in Croazia nell’ambito del partito governativo, l’HDZ e della stessa premier Jadranka Kosor. Ma questa nuova svolta nella politica del neoeletto presidente croato e’ stata salutata da tutta la comunita’ internazionale, Stati Unitie ed Unione europea come un cambiamento nella direzione giusta e un impegno coraggioso verso relazioni migliori e stabili tra i Paesi della regione.
I rapporti raffredati e compromessi tra Croazia e Serbia, sempre grazie all’apertura di Josipovic e Tadic hanno assunto nell’arco di un solo mese prospettive del tutto diverse. Il primo, inaspettato e sorprendente e’ stato il cosidetto “incontro senza cravatta” tra i due presidenti ad Opatija, in Croazia, un incontro trascorso in un clima molto positivo di lunghi colloqui, contiunuato poi ai margini del Brussels forum a Bruxelles e infine l’incontro venerdi’ scorso in Ungheria, nella citta’ di Pecs, su invito del presidente ungherese Laszlo Solyom. Al centro dei discorsi le prospettive europee della Croazia che si appresta a concludere entro l’anno i negoaziati di adesione e della Serbia che durante la presidenza ungherese all’Ue dal prossimo 1 gennaio 2011, si prospetta possa ottenere lo status di candidato ufficiale all’adesione.
Nientemeno importante la questione che da anni appesantisce i rapporti tra Slovenia e Croazia a causa della disputa sul confine terrestre e marittimo e che sin dall’indipendenza delle due ex Repubbliche jugoslave e’ rimasta irrisolta. Grazie all’impegno dei governi croato e sloveno di Jadranka Kosor e Borut Pahor, lo scorso novembre e’ stato raggiunto l’accrdo sull’arbitrariato per risolvere la questione aperta. Il Parlamento croato ha gia’ ratificato l’accordo, mentre quello sloveno ha atteso il recente pronunciamento della Corte costituzionale slovena sulla legittimita’ dell’Accordo. Dopo il sengale verde della Corte costituzionale, il parlamento di Ljubljana ha ratificato l’accordo questa settimana con 48 voti a favore, vale a dire con l’approvazione dell’intera coalizione governativa, mentre l’opposizione guidata dall’ex premier Janez Jansa ha rinunciato al voto qualificando il dibattito parlamentare come tradimento della Slovenia. Ma il ministero degli esteri sloveno in un comunicato ha affermato di “appoggiare la ratifica dell’accordo di arbitrato che dopo 18 anni di negoziati rappresenta un passo significativo verso la soluzione della questione sul confine e il miglioramento delle relazioni tra i due Paesi che inserisce nella regione un modello di soluzione costruttiva delle questioni aperte”. Tuttavia, l’ultima parola tocca ai cittadini i quali saranno invitati a pronunciarsi sull’accordo in un referendum. A tal proposito il premier sloveno Borut Pahor ha dichiarato che “Infine i cittadini decideranno al referendum se l’accordo di arbitrariato e’ un modo buono per definire il confine” Ha promesso di impegnarsi affinche’ il referendum abbia sucesso e da quelli che sono contrari all’accordo di aspettarsi che nella campagna referendaria dicano qual’e’ l’alternativa all’arbitrariato, come e quando raggiungerebbero di piu’. La decisione sulla ratifica dell’accordo in Parlamento e’ stata appoggiata anche dal presidente della Slovenia Danilo Tuerk il quel si e’ detto credulo che i cittadini sloveni al referendum confermeranno la ratifica dimostrando cosi’ di prendere decisioni “razionali”.
Secondo la stampa slovena, la vera battaglia politica sull’accordo sta appena per iniziare poiche’ si attende il referendum al quale l’accordo verra’ accolto o rigettato dai cittadini, ma in effetti – scrivono i media sloveni – tutto potrebbe terminare con un referendum pro o contro il governo di Borut Pahor. “La campagna referendaria sara’ dura e spietata, mentre il governo dovra’ impegnarsi molto per vincerla. Deve convincere gli elettori che l’oggetto del referendum del prossimo giugno non e’ il misuramento del sostegno al governo o al premier Pahor e alle sue riforme, bensi’ la soluzione del problema di confine con la Croazia” scrivono i giornali sloveni.
(*) Corrispondente di Radio Radicale.Il testo è la trascrizione della corrispondenza andata in onda nella puntata dello Speciale di Passaggio a Sud Est del 21 aprile.
I BALCANI VERSO L'EUROPA PASSANDO PER SARAJEVO - 1
Di Artur Nura (*)
I media albanesi hanno parlato dell'incontro dei ministri degli Esteri di Serbia, Spagna e Turchia a Belgrado per decidere sul modo di presentazione del Kosovo alle conferenze internazionali regionali. Come giusto l'attenzione dei media albanesi si e' concentrato sul fatto possibile di una nuova formula per la dinamica della cooperazione regionale, la cui condizione fondamentale è che nessun paese della regione venga escluso dal dialogo. Infatti, prima di questo incontro si e' fatto sapere che il ministro degli Affari esteri spagnolo, Miguel Angel Morationos, e' passato in Macedonia in cui ha fatto sapere che la Repubblica di Macedonia (FYROM) potrebbe ricevere una data per l'avvio dei negoziati di adesione all'UE durante la Presidenza spagnola. Miguel Angel Moratinos, durante una conferenza stampa congiunta di martedì con il suo omologo macedone Antonio Milososki a Skopje ha dichiarato: "Tutte le nostre energie, la determinazione e la capacità sarà messa al servizio dell'apertura dei negoziati. Siamo convinti che questo possa accadere entro la fine della presidenza spagnola". Moratinos ha sottolineato che tale ottimismo e' dovuto agli obiettivi raggiunti dalle istituzioni e dalle autorità macedoni, aggiungendo che il 2010 sarà un anno positivo per l'integrazione della Macedonia all'UE e alla NATO. In relazione alla questione del nome, il Ministro spagnolo si è dichiarato incoraggiato dagli sforzi fatti dai governi macedone e greco per superare definitivamente questa "controversa questione". Egli ha specificato che la Spagna, in qualità di titolare della presidenza, ha ottenuto il mandato della Commissione Europea a lavorare sulla definizione di una data per i negoziati con Skopje.
In effetti, secondo diversi opinionisti il caso della Macedonia, ma non solo questo paese dei Balcani, essendo parte dell'Europa, tra l'altro può essere un'occasione per l'UE per avere l'opportunità di confermare la sua credibilità ed essere in grado di ampliare la zona di sicurezza e la prosperità nei Balcani occidentali. "Non vogliamo perdere altro tempo. Abbiamo bisogno del vostro paese. Il vostro modello di tolleranza inter-culturale e di comunicazione tra le diverse comunità sarà un punto di riferimento per l'UE", ha dichiarato Moratinos a Skopje. In questo contesto, vi è una volontà politica di intensificare i colloqui con la Grecia, ha detto il ministro macedone Milososvki, pero' alla richiesta di commentare il fatto che la Grecia abbia dato il via libera all'utilizzo del nome "Macedonia del Nord", egli ha ribadito la necessità di fare dei colloqui diretti e non dichiarazioni per uso domestico o internazionale. "In definitiva, in ogni controversia, potrebbe essere trovato un compromesso se una soluzione è accettabile per entrambe le parti, condizionata o inaccettabile per entrambe le parti", ha precisato Milososki. Prima della sua visita del ministro degli Esteri spagnolo a Skopje, l'ambasciatore spagnolo Palacio Espana aveva dichiarato che in molti si sarebbero aspettati anche un incontro sulla questione della partecipazione serba e kosovara alla Conferenza di Sarajevo. "Nell'interesse della UE e di tutti i paesi dei Balcani occidentali faremo degli sforzi per raggiungere tale obiettivo con l'aiuto dei colleghi della UE e di tutti i partner della regione", aveva dichiarato l'ambasciatore di Spagna. Espana ha precisato che dopo questo incontro, sono previste delle consultazioni a Bruxelles tra l'UE e i funzionari europei in merito agli accordi raggiunti, per chiudere poi i colloqui preparativi durante la visita del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, a Belgrado la prossima settimana.
Tema dell'incontro trilaterale era la conferenza di Sarajevo del 2 giugno, alla quale si spera possa prendere parte anche la delegazione di Pristina, come promesso dal ministro degli Esteri italiano, il quale si è fatto carico dell'impegno di garantire la partecipazione di tutti gli Stati della regione, incluso il Kosovo. Pochi giorni fa a Madrid è stato confermato che la conferenza si terra il 2 giugno e all'incontro sarà invitato anche il Kosovo quale dall'altro canto ha confermato che parteciperà al summit dell'Unione Europea a Sarajevo solo in qualità di Stato. Questo lo ha fatto sapere da Tirana il ministro degli Esteri kosovaro, Skender Hyseni, precisando che non si siederà ad alcun tavolo se non viene riconosciuto come richiesto. "Il Kosovo è disponibile a mostrarsi flessibile in tal senso. Il Kosovo non accetterà di partecipare ad alcun meeting se la sua partecipazione non è del tutto paritaria a quella degli altri paesi dei Balcani Occidentali", ha dichiarato Skender Hyseni nel corso della conferenza stampa congiunta con l'omologo albanese, Ilir Meta, durante la visita ufficiale a Tirana. Hyseni non ha visto assolutamente come un problema la liberalizzazione unilaterale dei visti con la Serbia da parte dell'Albania. "E` vero che noi abbiamo chiesto che questo fosse un accordo reciproco, e normalmente così avrebbe dovuto essere", ha precisato il ministro Kosovaro. "Da parte nostra non facciamo alcuna discriminazione su basi etniche, chiedendo cioè che gli albanesi della Serbia abbiano un trattamento particolare in Albania", ha affermato il Ministro degli Esteri Ilir Meta.
Stando sulla stessa tema, dobbiamo informare che "l'indipendenza del Kosovo è irreversibile" secondo l'assistente del segretario di Stato per gli Affari Europei ed Euroasiatici, Philip Gordon, quale e' intervenuto al dibattito della commissione Esteri del Senato. "Chiederei a Belgrado di trovare un modo per cooperare sulle questioni umanitarie specifiche del Kosovo, ciò aiuterà anche la comunità serba a migliorare la qualità della vita", ha detto Gordon. Egli ha inoltre sottolineato che la Serbia ha un governo democratico che deve ancora implementare l'organizzazione dello Stato di diritto, necessita di una riforma del commercio e dello sviluppo di relazioni di vicinato. Pero', stando ancora alle relazioni della Serbia con il Kosovo ed in particolari con gli albanesi, vorrei informare che la scorsa settimana a Belgrado si e' tenuto il forum internazionale sulla valle di Presevo dedicato ai tre comuni a maggioranza albanese nel territorio della Serbia del sud. Si e' discusso in effetti l`importanza della collaborazione tra i poteri del Governo centrale e le autorità locali, nonché l`ulteriore impegno internazionale nella soluzione dei problemi che si sono concentrati in questa regione. Intervenendo alla discussione il capo della delegazione dell'Unione Europea in Serbia, Vincent Degert, ha confermato che il 70% della popolazione della valle di Presevo è disoccupato. Il 30% degli albanesi, l'11% dei serbi e il 60% dei rom risultano disoccupati, costituendo così il fattore centrale della grande differenza nello sviluppo tra la Serbia centrale e quella del sud e questa fotografia secondo Degert crea insicurezza tra i cittadini. "Non dimentichiamo che quando alla Serbia sono stati tolti i visti, vi è stato l'esodo in massa di richiedenti asilo a Brussells e altre città europee. La gente è giunta in massa in Europa per avere una vita migliore, che qui non possono avere proprio a causa delle grandi diversità regionali", ha conluso Vincent Degert.
(*) Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è la trascrizione della corrispondenza andata in onda nello Speciale di Passaggio a Sud Est del 21 aprile.
I media albanesi hanno parlato dell'incontro dei ministri degli Esteri di Serbia, Spagna e Turchia a Belgrado per decidere sul modo di presentazione del Kosovo alle conferenze internazionali regionali. Come giusto l'attenzione dei media albanesi si e' concentrato sul fatto possibile di una nuova formula per la dinamica della cooperazione regionale, la cui condizione fondamentale è che nessun paese della regione venga escluso dal dialogo. Infatti, prima di questo incontro si e' fatto sapere che il ministro degli Affari esteri spagnolo, Miguel Angel Morationos, e' passato in Macedonia in cui ha fatto sapere che la Repubblica di Macedonia (FYROM) potrebbe ricevere una data per l'avvio dei negoziati di adesione all'UE durante la Presidenza spagnola. Miguel Angel Moratinos, durante una conferenza stampa congiunta di martedì con il suo omologo macedone Antonio Milososki a Skopje ha dichiarato: "Tutte le nostre energie, la determinazione e la capacità sarà messa al servizio dell'apertura dei negoziati. Siamo convinti che questo possa accadere entro la fine della presidenza spagnola". Moratinos ha sottolineato che tale ottimismo e' dovuto agli obiettivi raggiunti dalle istituzioni e dalle autorità macedoni, aggiungendo che il 2010 sarà un anno positivo per l'integrazione della Macedonia all'UE e alla NATO. In relazione alla questione del nome, il Ministro spagnolo si è dichiarato incoraggiato dagli sforzi fatti dai governi macedone e greco per superare definitivamente questa "controversa questione". Egli ha specificato che la Spagna, in qualità di titolare della presidenza, ha ottenuto il mandato della Commissione Europea a lavorare sulla definizione di una data per i negoziati con Skopje.
In effetti, secondo diversi opinionisti il caso della Macedonia, ma non solo questo paese dei Balcani, essendo parte dell'Europa, tra l'altro può essere un'occasione per l'UE per avere l'opportunità di confermare la sua credibilità ed essere in grado di ampliare la zona di sicurezza e la prosperità nei Balcani occidentali. "Non vogliamo perdere altro tempo. Abbiamo bisogno del vostro paese. Il vostro modello di tolleranza inter-culturale e di comunicazione tra le diverse comunità sarà un punto di riferimento per l'UE", ha dichiarato Moratinos a Skopje. In questo contesto, vi è una volontà politica di intensificare i colloqui con la Grecia, ha detto il ministro macedone Milososvki, pero' alla richiesta di commentare il fatto che la Grecia abbia dato il via libera all'utilizzo del nome "Macedonia del Nord", egli ha ribadito la necessità di fare dei colloqui diretti e non dichiarazioni per uso domestico o internazionale. "In definitiva, in ogni controversia, potrebbe essere trovato un compromesso se una soluzione è accettabile per entrambe le parti, condizionata o inaccettabile per entrambe le parti", ha precisato Milososki. Prima della sua visita del ministro degli Esteri spagnolo a Skopje, l'ambasciatore spagnolo Palacio Espana aveva dichiarato che in molti si sarebbero aspettati anche un incontro sulla questione della partecipazione serba e kosovara alla Conferenza di Sarajevo. "Nell'interesse della UE e di tutti i paesi dei Balcani occidentali faremo degli sforzi per raggiungere tale obiettivo con l'aiuto dei colleghi della UE e di tutti i partner della regione", aveva dichiarato l'ambasciatore di Spagna. Espana ha precisato che dopo questo incontro, sono previste delle consultazioni a Bruxelles tra l'UE e i funzionari europei in merito agli accordi raggiunti, per chiudere poi i colloqui preparativi durante la visita del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, a Belgrado la prossima settimana.
Tema dell'incontro trilaterale era la conferenza di Sarajevo del 2 giugno, alla quale si spera possa prendere parte anche la delegazione di Pristina, come promesso dal ministro degli Esteri italiano, il quale si è fatto carico dell'impegno di garantire la partecipazione di tutti gli Stati della regione, incluso il Kosovo. Pochi giorni fa a Madrid è stato confermato che la conferenza si terra il 2 giugno e all'incontro sarà invitato anche il Kosovo quale dall'altro canto ha confermato che parteciperà al summit dell'Unione Europea a Sarajevo solo in qualità di Stato. Questo lo ha fatto sapere da Tirana il ministro degli Esteri kosovaro, Skender Hyseni, precisando che non si siederà ad alcun tavolo se non viene riconosciuto come richiesto. "Il Kosovo è disponibile a mostrarsi flessibile in tal senso. Il Kosovo non accetterà di partecipare ad alcun meeting se la sua partecipazione non è del tutto paritaria a quella degli altri paesi dei Balcani Occidentali", ha dichiarato Skender Hyseni nel corso della conferenza stampa congiunta con l'omologo albanese, Ilir Meta, durante la visita ufficiale a Tirana. Hyseni non ha visto assolutamente come un problema la liberalizzazione unilaterale dei visti con la Serbia da parte dell'Albania. "E` vero che noi abbiamo chiesto che questo fosse un accordo reciproco, e normalmente così avrebbe dovuto essere", ha precisato il ministro Kosovaro. "Da parte nostra non facciamo alcuna discriminazione su basi etniche, chiedendo cioè che gli albanesi della Serbia abbiano un trattamento particolare in Albania", ha affermato il Ministro degli Esteri Ilir Meta.
Stando sulla stessa tema, dobbiamo informare che "l'indipendenza del Kosovo è irreversibile" secondo l'assistente del segretario di Stato per gli Affari Europei ed Euroasiatici, Philip Gordon, quale e' intervenuto al dibattito della commissione Esteri del Senato. "Chiederei a Belgrado di trovare un modo per cooperare sulle questioni umanitarie specifiche del Kosovo, ciò aiuterà anche la comunità serba a migliorare la qualità della vita", ha detto Gordon. Egli ha inoltre sottolineato che la Serbia ha un governo democratico che deve ancora implementare l'organizzazione dello Stato di diritto, necessita di una riforma del commercio e dello sviluppo di relazioni di vicinato. Pero', stando ancora alle relazioni della Serbia con il Kosovo ed in particolari con gli albanesi, vorrei informare che la scorsa settimana a Belgrado si e' tenuto il forum internazionale sulla valle di Presevo dedicato ai tre comuni a maggioranza albanese nel territorio della Serbia del sud. Si e' discusso in effetti l`importanza della collaborazione tra i poteri del Governo centrale e le autorità locali, nonché l`ulteriore impegno internazionale nella soluzione dei problemi che si sono concentrati in questa regione. Intervenendo alla discussione il capo della delegazione dell'Unione Europea in Serbia, Vincent Degert, ha confermato che il 70% della popolazione della valle di Presevo è disoccupato. Il 30% degli albanesi, l'11% dei serbi e il 60% dei rom risultano disoccupati, costituendo così il fattore centrale della grande differenza nello sviluppo tra la Serbia centrale e quella del sud e questa fotografia secondo Degert crea insicurezza tra i cittadini. "Non dimentichiamo che quando alla Serbia sono stati tolti i visti, vi è stato l'esodo in massa di richiedenti asilo a Brussells e altre città europee. La gente è giunta in massa in Europa per avere una vita migliore, che qui non possono avere proprio a causa delle grandi diversità regionali", ha conluso Vincent Degert.
(*) Corrispondente di Radio Radicale. Il testo è la trascrizione della corrispondenza andata in onda nello Speciale di Passaggio a Sud Est del 21 aprile.
PASSAGGIO SPECIALE
I Balcani verso la conferenza di Sarajevo
Lo Speciale di Passaggio a Sud Est andato in onda mercoledì 21 aprile a Radio Radicale continua a occuparsi delle prospettive di integrazione europea dei Balcani occidentali in vista della conferenza internazionale che si terrà il 2 giugno a Sarajevo che in qualche modo si propone anche come un proseguimento delle due precedenti conferenze relative a quest’area tuttora così delicata, ovvero il vertice di Zagabria del 2000 e quello di Salonicco del 2003. Vale la pena ricordare che al vertice di Zagabria, nel novembre del 2000, la Commissione Europea gettò le basi di una visione più ambiziosa dello sviluppo della regione con il processo di associazione e di stabilizzazione. Nel giugno 2003 il vertice di Salonicco arricchì ulteriormente arricchito il PAS di elementi attinenti al processo di allargamento, in modo da rispondere con più efficacia alle nuove sfide. Da qui, tra l’altro, i cosiddetti "partenariati europei" che traggono spunto dai partenariati di adesione che dovrebbero sostenere e aiutare i paesi dei Balcani occidentali nel processo di riforme necessarie per preparare la futura adesione con l'adeguamento agli standard richiesti dall'Unione Europea. Da sottolineare che al Consiglio europeo di Salonicco fu riconfermato che tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno una prospettiva di adesione all’UE. Una prospettiva che è stata ricordata e ribadita dai ministri degli Esteri di Italia e Francia, Franco Frattini e Bernard Kouchner, in una lettera pubblicata il 13 aprile scorso da La Repubblica e da cui abbiamo preso spunto per lo Speciale della scorsa settimana. Per la riuscita dell'appuntamento di Sarajevo, sul quale si stanno impegnando in particolare l'Italia e la Spagna, diventa però essenziale assicurare la partecipazione di tutti i protagonisti della regione. Da questo punto di vista il nodo da risolvere è la partecipazione del Kosovo. La recente conferenza di Brdo, in Slovenia, è stata disertata dalla Serbia che non può accettare di sedersi ad un tavolo in cui il Kosovo sia presente come Stato indipendente e sovrano. Trovare un compromesso sulla formula di partecipazione del Kosovo sarà dunque uno dei problemi da risolvere per evitare il fallimento di una conferenza che invece può avere molta importanza non solo per rilanciare l'integrazione europea dei Balcani occidentali, ma anche per sostenere l'integrazione tra i Paesi della regione dopo i conflitti che hanno segnato tragicamente la disgregazione della Jugoslavia nel corso degli anni '90. In questo senso assume particolare importanza la situazione interna della Bosnia, che si avvia ad un cruciale appuntamento elettorale fissato per il prossimo ottobre in una situazione di impasse politico-istituzionale che blocca il processo di riforme necessarie per l'integrazione europea, e i rapporti tra Belgrado e Zagabria che hanno preso una nuova strada dopo l'elezione di Ivo Josipovic alla presidenza della Croazia. Nella trasmissione si ricorda anche la non ancora risolta questione che oppone Grecia e Macedonia sul nome della ex repubblica jugoslava: una querelle che impedisce a Skopje di aderire alla Nato e di aprire i negoziati per l'adesione all'UE. Altra questione interessante è quella dell'attivismo diplomatico di Ankara che segna il ritorno politico della Turchia nella regione più o meno cento anni dopo la fine del predominio ottomano nei Balcani.
Lo Speciale di Passaggio a Sud Est del 21 aprile è stato realizzato con la consueta collaborazione dei corrispondenti di Radio Radicale, Marina Szikora e Artur Nura.
Potete riascoltare lo Speciale direttamente qui sotto oppure scaricarlo dal sito di Radio Radicale
Lo Speciale di Passaggio a Sud Est andato in onda mercoledì 21 aprile a Radio Radicale continua a occuparsi delle prospettive di integrazione europea dei Balcani occidentali in vista della conferenza internazionale che si terrà il 2 giugno a Sarajevo che in qualche modo si propone anche come un proseguimento delle due precedenti conferenze relative a quest’area tuttora così delicata, ovvero il vertice di Zagabria del 2000 e quello di Salonicco del 2003. Vale la pena ricordare che al vertice di Zagabria, nel novembre del 2000, la Commissione Europea gettò le basi di una visione più ambiziosa dello sviluppo della regione con il processo di associazione e di stabilizzazione. Nel giugno 2003 il vertice di Salonicco arricchì ulteriormente arricchito il PAS di elementi attinenti al processo di allargamento, in modo da rispondere con più efficacia alle nuove sfide. Da qui, tra l’altro, i cosiddetti "partenariati europei" che traggono spunto dai partenariati di adesione che dovrebbero sostenere e aiutare i paesi dei Balcani occidentali nel processo di riforme necessarie per preparare la futura adesione con l'adeguamento agli standard richiesti dall'Unione Europea. Da sottolineare che al Consiglio europeo di Salonicco fu riconfermato che tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno una prospettiva di adesione all’UE. Una prospettiva che è stata ricordata e ribadita dai ministri degli Esteri di Italia e Francia, Franco Frattini e Bernard Kouchner, in una lettera pubblicata il 13 aprile scorso da La Repubblica e da cui abbiamo preso spunto per lo Speciale della scorsa settimana. Per la riuscita dell'appuntamento di Sarajevo, sul quale si stanno impegnando in particolare l'Italia e la Spagna, diventa però essenziale assicurare la partecipazione di tutti i protagonisti della regione. Da questo punto di vista il nodo da risolvere è la partecipazione del Kosovo. La recente conferenza di Brdo, in Slovenia, è stata disertata dalla Serbia che non può accettare di sedersi ad un tavolo in cui il Kosovo sia presente come Stato indipendente e sovrano. Trovare un compromesso sulla formula di partecipazione del Kosovo sarà dunque uno dei problemi da risolvere per evitare il fallimento di una conferenza che invece può avere molta importanza non solo per rilanciare l'integrazione europea dei Balcani occidentali, ma anche per sostenere l'integrazione tra i Paesi della regione dopo i conflitti che hanno segnato tragicamente la disgregazione della Jugoslavia nel corso degli anni '90. In questo senso assume particolare importanza la situazione interna della Bosnia, che si avvia ad un cruciale appuntamento elettorale fissato per il prossimo ottobre in una situazione di impasse politico-istituzionale che blocca il processo di riforme necessarie per l'integrazione europea, e i rapporti tra Belgrado e Zagabria che hanno preso una nuova strada dopo l'elezione di Ivo Josipovic alla presidenza della Croazia. Nella trasmissione si ricorda anche la non ancora risolta questione che oppone Grecia e Macedonia sul nome della ex repubblica jugoslava: una querelle che impedisce a Skopje di aderire alla Nato e di aprire i negoziati per l'adesione all'UE. Altra questione interessante è quella dell'attivismo diplomatico di Ankara che segna il ritorno politico della Turchia nella regione più o meno cento anni dopo la fine del predominio ottomano nei Balcani.
Lo Speciale di Passaggio a Sud Est del 21 aprile è stato realizzato con la consueta collaborazione dei corrispondenti di Radio Radicale, Marina Szikora e Artur Nura.
Potete riascoltare lo Speciale direttamente qui sotto oppure scaricarlo dal sito di Radio Radicale
mercoledì 21 aprile 2010
LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE ACCENDE LA TURCHIA
Recep Tayyp Erdogan ha rinunciato al vertice italo-turco che doveva tenersi oggi a Roma ed è rimasto ad Ankara per seguire da vicino il confronto parlamentare sulla riforma della Costituzione, elaborata sulla scia del colpo di stato del 1980, che il premier turco vuole fortemente ma che l'opposizione è altrettanto strenuamente decisa a bloccare perchè vi vede un tentativo di mettere il bavaglio alla magistratura e di ridimensionare lo strapotere dei militari da parte dell'attuale governo islamico-moderato. La riforma proposta renderebbe, tra l'altro, molto più difficile la messa al bando dei partiti politici, aprirebbe la possibilità di processare i militari anche dai tribunali civili e darebbe più peso al parlamento nella nomina dei giudici costituzionali e al premier in quella dei membri del consiglio superiore della magistratura.
Per gli oppositori il disegno di Erdogan è chiaro: il premier punta ad accrescere i propri poteri a scapito della magistrarura, in modo da evitare in futuro eventuali nuovi tentativi di chiudere il suo partitp, l'Akp, che lo scorso anno è sfuggito per poco alla messa al bando (l'accusa era quella di aver attentato al secolarismo dello Stato), misura dalla quale invece lo scorso anno non è scampato il Dtp, il partito curdo che aveva avuto un buon successo nelle elezioni del 2007 e che per un certo periodo aveva appoggiato il governo. Le nuove norme, però, andrebbero anche nella direzione auspicata dall'Unione Europea per uniformare la legislazione turca a quella dei Ventisette nel quadro del negoziato di adesione che langue da tempo e il cui esito è tutt'altro che scontato.
Ieri il parlamento turco ha cominciato l'esame degli emendamenti alla Carta: alcuni tra i meno controversi hanno ottenuto il voto anche di un paio di deputati dell'opposizione mentre questa mattina sono passati altri tre articoli. La riforma prevede infatti anche misure per rafforzare i diritti delle donne e dei minori, per la protezione della privacy e per estendere i contratti collettivi ai funzionari della pubblica amministrazione. Ma si tratta della quiete prima della tempesta: le questioni fondamentali, su cui l'opposizione promette guerra totale anche fuori dal parlamento, non sono ancora arrivate all'esame dell'assemblea. Il Partito repubblicano del Popolo (Chp), la principale formazione dell'opposizione, erede del kemalismo, ha iniziato a boicottare il voto in parlamento e si dice sicuro che la Corte Costituzionale boccherà la riforma e per questo ha già pronti tre diversi ricorsi.
Il dibattito parlamentare si annuncia, quindi, tutt'altro che facile e potrebbe durare ancora a lungo. Per questo Erdogan non ha fatto mistero di essere pronto a ricorrere al referendum popolare che potrebbe tenersi entro l'estate. "Fuggono dalla democrazia", dice in risposta alla linea dura dell'opposizione contraria ai cambiamenti. In ogni caso il braccio di ferro rischia di creare nuove gravi tensioni nel Paese dove i rapporti tra governo, alti gradi militari e magistratura sono da tempo piuttosto difficili, come dimostrato dalla scoperta di un presunto piano di colpo di stato contro il governo che lo scorso mese ha provocato l'arresto di decine di militari poi rimessi in luibertà. Sia come sia per la Turchia i prossimi saranno mesi piuttosto caldi. Non è quello di cui ha bisogno, ma è la realtà con cui si dovrà fare i conti anche fuori dai confini del Paese e l'Europa farebbe bene a non sottovalutare la situazione.
Per gli oppositori il disegno di Erdogan è chiaro: il premier punta ad accrescere i propri poteri a scapito della magistrarura, in modo da evitare in futuro eventuali nuovi tentativi di chiudere il suo partitp, l'Akp, che lo scorso anno è sfuggito per poco alla messa al bando (l'accusa era quella di aver attentato al secolarismo dello Stato), misura dalla quale invece lo scorso anno non è scampato il Dtp, il partito curdo che aveva avuto un buon successo nelle elezioni del 2007 e che per un certo periodo aveva appoggiato il governo. Le nuove norme, però, andrebbero anche nella direzione auspicata dall'Unione Europea per uniformare la legislazione turca a quella dei Ventisette nel quadro del negoziato di adesione che langue da tempo e il cui esito è tutt'altro che scontato.
Ieri il parlamento turco ha cominciato l'esame degli emendamenti alla Carta: alcuni tra i meno controversi hanno ottenuto il voto anche di un paio di deputati dell'opposizione mentre questa mattina sono passati altri tre articoli. La riforma prevede infatti anche misure per rafforzare i diritti delle donne e dei minori, per la protezione della privacy e per estendere i contratti collettivi ai funzionari della pubblica amministrazione. Ma si tratta della quiete prima della tempesta: le questioni fondamentali, su cui l'opposizione promette guerra totale anche fuori dal parlamento, non sono ancora arrivate all'esame dell'assemblea. Il Partito repubblicano del Popolo (Chp), la principale formazione dell'opposizione, erede del kemalismo, ha iniziato a boicottare il voto in parlamento e si dice sicuro che la Corte Costituzionale boccherà la riforma e per questo ha già pronti tre diversi ricorsi.
Il dibattito parlamentare si annuncia, quindi, tutt'altro che facile e potrebbe durare ancora a lungo. Per questo Erdogan non ha fatto mistero di essere pronto a ricorrere al referendum popolare che potrebbe tenersi entro l'estate. "Fuggono dalla democrazia", dice in risposta alla linea dura dell'opposizione contraria ai cambiamenti. In ogni caso il braccio di ferro rischia di creare nuove gravi tensioni nel Paese dove i rapporti tra governo, alti gradi militari e magistratura sono da tempo piuttosto difficili, come dimostrato dalla scoperta di un presunto piano di colpo di stato contro il governo che lo scorso mese ha provocato l'arresto di decine di militari poi rimessi in luibertà. Sia come sia per la Turchia i prossimi saranno mesi piuttosto caldi. Non è quello di cui ha bisogno, ma è la realtà con cui si dovrà fare i conti anche fuori dai confini del Paese e l'Europa farebbe bene a non sottovalutare la situazione.
IL PRESIDENTE CROATO APRE UNA PAGINA NUOVA PER I BALCANI
Quello che segue è il testo della corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 17 aprile su Radio Radicale. La corrispondenza era dedicata principalmente alla importante (e per certi versi storica) visita compiuta dal presidente croato Ivo Josipovic in Bosnia dove ha reso omaggio alle vittime della guerra, sia quelle croate, sia quelle provocate dai croati, e nel corso della quale ha incontrato i vertici politici del Paese e ha pronunciato un importante discorso al Parlamento di Sarajevo nel quale ha indicato una strada nuova per i Paesi dell'Ex Jugosolavia e di tutta la regione dopo le tragedie del recente passato. Il problema è se l'impegno di Josipovic saprà essere riconosciuto nella regione ma anche dalla comunità internazionale e se contribuirà a indispensabili cambiamenti della situazione politica interna della Croazia.
Senza dubbio, l’evento della settimana nella regione balcanica e da molti qualificato persino storico e’ stata la prima visita ufficiale del Presidente croato Ivo Josipovic in Bosnia Erzegovina. Due le ragioni che hanno messo in primo piano questo viaggio, molto plaudito dalla comunita’ internazionale come anche in BiH e nella regione, ma che hanno anche aperto diverse e accese polemiche in Croazia.
Ivo Josipovic e’ il primo presidente croato ad aver pronunciato un discorso alle due Camere del Parlamento statale bosniaco ed e’ stato il primo alto rappresentante della Croazia a recarsi nel villaggio di Ahmici, in Bosnia centrale, per rendere omaggio alle 116 vittime musulmane uccise dall’esercito croato in Bosnia nel 1993. Per questo crimine di guerra, ricordiamolo, il Tpi ha condannato tre ufficiali della HVO a pene carcerarie tra 6 e 25 anni, mentre un quarto ufficiale e’ stato condannato a 10 anni di reclusione dal Tribunale locale di Sarajevo. Uno tra gli ufficiali accusati e’ stato Tihomir Blaskic, il primo ad essere condannato dal Tribunale dell’Aja ad una altissima pena di 45 anni per essere poi, in un processo di secondo grado e dopo la consegna da parte del governo croato di sinistra di Ivica Racan di documenti cruciali per questo processo, condannato ad una pena definitiva di 9 anni di reclusione.
Dopo Ahmici, lo stesso giorno, il presidente croato si e’ recato anche nel villaggio di Krizancevo Selo, una ventina di chilometri distante da Ahmici per rendere omaggio alle vittime di guerra croate uccise sempre nel 1993 dalle forze miliatari musulmane. Per questo crimine pero’, non e’ stato avviato nessun processo, ne’ da parte della giustizia internazionale ne’ dalle corti locali. Il gesto finora senza precedenti del neopresidente croato ha destato molta soddisfazione in BiH tranne tra i rappresentanti serbi che hanno criticato invece il Presidente Josipovic per non aver reso omaggio anche alle vittime serbe della guerra in BiH. Particolare importanza in tutta questa vicenda ha assunto pero’ la presenza, accanto al capo dello Stato croato, dei leader religiosi croato e islamico, vale a dire l’arcivescovo di Sarajevo e cardinale Vinko Puljic e il capo della comunita’ islamica Mustafa Ceric.
“Sono venuto qui a rendere omaggio alle vittime con il messaggio che queste azioni terribili non si ripetano mai piu’” ha dichiarato il Presidente Josipovic. Ha sottolineato che per lui e’ un grande incorraggiamento il fatto che e’ accompagnato dai leader religiosi e numerosi politici di entrambi i popoli. “Ci siamo riuniti qui tutti nel desiderio di rendere omaggio alle vittime, per ricordare le vittime e per dire mai piu’” ha detto Josipovic. Il cardinale Vinko Puljic ha ringraziato il presidente croato perche’ con il suo arrivo ad Ahmici e Krizancevo Selo ha espresso rispetto alle vittime innocenti. “E’ per questo che ho accolto l’invito di rendere omaggio personalmente a queste vittime” ha detto l’arcivescovo Puljic. Reis Ceric, da parte sua, ha rilevato che con l’esempio personale si dimostra molto di piu’ che con le parole. “Questo oggi e’ uno di quei giorni in BiH quando con l’esempio personale ci siamo impegnati per la fiducia, per ristab ilire fiducia tra le persone e ci siamo riuniti su invito del Presidente Josipovic” ha detto il leader della comunita’ islamica Mustafa Ceric. In piu’, ha ricordato che Ahmici e Krizancevo Selo sono molto dolorosi sia per i bosgnacchi che per i croati. “Vogliamo in questo modo chiudere una brutta pagina nelle nostre relazioni e aprirne una nuova... La Bosnia deve altrettanto aprire alcune sue porte verso la Croazia, altre invece chiudere affinche’ le relazioni di buon vicinato tra Croazia e BiH siano utili a tutti” ha sottolineato Ceric aggiungendo che la gente in BiH a volte necessita di stimoli di buona volonta’ esterni perche’ loro stessi possano essere buoni.
Il primo giorno della sua visita in BiH, a Sarajevo, Josipovic ha incontrato tutti i vertici dello Stato e si e’ rivolto poi ai deputati in Parlamento nel quale sono stati pero’ assenti i parlamentari serbi. “Mi avete dato un onore straordinario di essere il primo Presidente della Croazia che avete gentilmente invitato a rivolgersi al Parlamento della BiH. E’ un onore che suscita in me forti sensazioni, soprattutto responsabilita’ e ringraziamento... Questo onore vorrei dedicare ai vostri e ai nostri figli, alle nuove generazioni alle quali dobbiamo tutti la nostra responsabilita’, pace e visione di prosperita’. “La risposta sta’ in noi, nella nostra capacita’ di trarre lezioni dalla storia e di trasformare queste lezioni in visioni di pace, comprensione e collaborazione.... Il passato non bisogna dimenticarlo, ma nemmeno continuare a viverlo. Perche’ il crimine possa rimanere per sempre nel passato, deve affrontare la sua punizione, mentre le vittime devono essere rispettate. Non esistono popoli incriminati, esistono soltanto criminali e crimini, che sono ancora piu’ gravi se commessi presumibilmente a nome di un popolo. In BiH, sia i bosgnacchi che i croati che i serbi hanno le loro vittime, i loro sofferenti verso i quali sento profondo rispetto e condoglianze, senza differenza a quale dei popoli appartengano” ha rilevato il presidente croato nel suo discorso davanti al Parlamento bosniaco. “Mi dispiace profondamente che la Croazia con la sua politica degli anni novanta dello scorso secolo abbia contribuito a questo. Mi dispiace profondamente che una tale politica croata abbia contribuito alle sofferenze della gente e alle divsioni che ancora oggi ci afliggono” ha detto Josipovic e proprio con queste parole ha acceso anche le dure critiche nel proprio Paese.
Ma il Presidente croato ha ricordato il passato per parlare del futuro, del progresso, della convivenza, dell’ottimismo e del futuro europeo. “Questo nostro futuro europeo – ha detto – non e’ piu’ un sogno ma un reale, vicino futuro, quasi una realta’. La Croazia e’ membro della NATO e credo, molto presto diventera’ membro dell’Ue. Ma il progetto europeo croato non sara’ completo finche’ non ci saranno dentro anche i nostri vicini, prima di tutto BiH, Serbia e Montenegro. Sono venuto qua’ ad esprimere pieno sostegno della Croazia all’orientamento europeo ed euroatlantico della BiH e offrire il nostro partenariato... Sono arrivati tempi nuovi, un nuovo periodo che chiede una nuova politica. Invece dei conflitti di una volta e le confrontazioni, sulla via della BiH nell’Ue e nella Nato, avrete il pieno sostegno, senza riserve e l’aiuto della Croazia”. “Offrite anche voi come leader dei vostri cittadini il partenariato per l’Euorpa. Trovate la forza per superare i vostri e i loro dubbi e paure” ha incorraggiato il Presidente Josipovic sottolineando che “sarete presto nelle condizioni di decidere sul futuro del vostro Paese, sulle riforme costituzionali che garantiranno stabilita’ e funzionamento della BiH. Nessuno dei tre popoli che costituiscono la BiH, bosgnacchi, serbi e croati non possono trovare da soli la formula di sucesso”.
“Appoggio fortemente i croati in BiH affinche’ in accordo con gli altri due popoli realizzino i loro uguali diritti. La BiH e’ possibile solo se una comunita’ sincera di popoli di pari diritti” ha sollecitato Josipovic avvertendo ancora una volta che “le politiche che negli anni novanta vedevano la soluzione nella divisione e separazione, nella supremazia degli uni sopra gli altri, nell’esclusione dell’altro, nelle violazioni di diritti umani, nella foza e violenza, ingiustizia e difusione della paura, devono essere una volta per sempre abbandonati. Per tempi nuovi c’e’ bisogno di una nuova politica”. “Mentre l’elite politiche si occupano di paure, sfiducia e controversie sul passato, l’elite dell’ambiente criminale utilizza le debolezze e l’inadeguatezza dello Stato...invece dello stato di diritto, si rafforza la rete di corruzione per allontanare i nostri paesi dall’Ue e l’Ue dai nostri paesi”. “La nuova epoca porta nuove sfide, innanzitutto quelle economiche. La politica regionale e la cooperazione di tutti gli Stati della regione, quindi anche tra Croazia e BiH si svolgera’ sempre di piu’ attraverso la cooperazione economica, commercio, progetti comuni economici e infrastrutturali e l’uscita sui mercati terzi. Le nostre economie sono compatibili. Oggi, piu’ che mai, sotto l’infrenabile diluvio della globalizzazione, le economie cessano di essere nazionali. Infine, soprattutto perche’ vi e’ presente anche il coro diplomatico, permettetemi di invitare da questo piu’ altro podio della BiH tutti voi rappresentanti di partiti politici, l’Ue, gli Stati Uniti e l’intera comunita’ internazionale, e in particolare la nostra vicina Republica Srpska, a realizzare l’interesse vitale: Uniamo le nostre teste e le nostre mani per la BiH! ... Ognuno e’ libero di essere Croato, Bosgnacco, Serbo, Ebreo o Rom, ortodosso, musulmano, cattolico o ateista...Mettiamo al centro dei nostri interessi vitali i popoli e gli individui che desiderano pace e liberta’ per se stessi, per i loro piu’ cari e per le future generazioni” ha concluso Ivo Josipovic, primo leader politico croato ad intervenire nel Parlamento della BiH.
Il Dipartimento di Stato americano ha salutato il gesto del presidente croato di porre omaggio alle vittime del conflitto croato-musulmano in BiH nel 1993 ad Ahmici e Krizancevo selo nonche’ il suo intervento in Parlamento qualificandoli come “passi positivi” che contribuiscono ad un ulteriore miglioramento delle relazioni tra i Paesi della regione. “Noi incoraggiamo iniziative come queste che abbiamo visto oggi e ieri, nonche’ le riforme fondamentali perche’ risolvono le questioni aperte tra questi paesi e offrono la possibilita’ di avanzamento” ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley. L’agenzia Reuters sottolinea che “Josipovic e’ il primo leader politico croato che ha pubblicamente condannato il ruolo della Croazia in BiH” e aggiunge che il suo discorso a Sarajevo e’ “il piu’ recente di diversi passi che stanno intraprendendo i politici riformisti croati e serbi nel tentativo di sanare le ferite della guerra degli anni novanta”. C’e’ da dire che tutte le agenzie di stampa mondiali hanno informato dell’intervento del Presidente croato sottolineando il fatto che e’ stato espresso rammarico perche’ la Croazia con la sua politica degli anni novanta del secolo scorso aveva contribuito alle sofferenze della gente e alle divisioni che non sono ancora svanite.
Secondo Associated Press, l’intervento di Josipovic e’ “finora il messaggio piu’ chiaro di pace e riconciliazione di un leader politico nella regione” mentre per France Presse, il Presidente della Croazia ha inviato “un messaggio forte di riconciliazione” alla BiH scegliendola come la sua prima visita nella regione e restando cosi’ fedele alla sua promessa elettorale che insistera’ sul tema della riconciliazione nei Balcani. “Sara’ il primo Presidente croato che visitera’ Ahmici che sono diventati il simbolo di violenze che hanno diviso i croati e i musulmani bosgnacchi nel 1993 e 1994. I due alleati contro la Serbia, croati e musulmani bosniaci in questi due anni hanno combattuto anche gli uni contro gli altri” ha ricordato AFP. L’agenzia serba Tanjug ha pubblicato un lungo testo in cui sono state riportate tutte le parti importanti dell’intervento del Presidente croato incluse le sue espressioni di rispetto a tutte le vittime della guerra in BiH con l’affermazione che “ogni vita persa e’ una perdita per tutti” e l’annuncio di Josipovic che visitera’ sicuramente i luoghi in BiH dove sono stati uccisi anche i serbi.
Tra coloro che hanno salutato la visita di Josipovic ad Ahmici e Krizancevo Selo dove sono stati commessi crimini contro musulmani e croati e’ stato anche Tihomir Blaskic, ex ufficiale della HVO e allora comandante della zona operativa in Bosnia centrale, condannato dal Tpi dell’Aja ad una pena di nove anni di carcere. “Appoggio e saluto la decisione del Presidente croato Ivo Josipovic di andare ad Ahmici. Innanzitutto saluto questo aproccio di rendere omaggio alle vittime innocenti che sono state uccise nella guerra in BiH. Siamo stati accerchiati e abbiamo condotto una battaglia per la pura vita e vi fu anche questo crimine infelice” ha detto Blaskic sottolineando di aver dichiarato ancora nel 1993 tutto quello che pensava di questa vicenda tragica e si era recato successivamente ad Ahmici per esprimere lui stesso le scuse per i crimini contro gli abitanti di questo villaggio. Da ricordare che la vicenda tragica ad Ahmici che all’epoca si trovavano sull’importante posizione strategica di comunicazione sulla linea Busovaca – Vitez, avenne il 16 aprile 1993 alle ore 5 e 30 del mattino. All’epoca, le forze croate sono state accerchiate da tutte le parti mentre le forze dell’armata della BiH erano sempre piu’ forti. E’ stato valutato il pericolo che minacciava dal vilaggio di Ahmici e per questo le forze della HVO iniziarono l’attacco. Si afferma che questo attacco ebbe un motivo militare legittimo ma termino’ con un grave crimine di guerra. Furono uccisi 116 civili, tra cui donne e bambini, distrutto il patrimonio e abbattuta una moschea. “Proprio il gesto del Presidente Josipovic e’ la luce che conduce verso la collaborazione e l’uscita dalla colpevolezza colettiva che e’ estremamente importante per la convivenza sul territorio della BiH”, ha concluso Tihomir Blaskic.
E’ chiaro che l’iniziativa del Presidente Josipovic, commentata cosi’ positivamente dalla comunita’ internazionale e soprattutto in BiH, ha suscitato pero’ reazioni diverse in Croazia. Mentre l’opposizione, soprattuto il Partito socialdemocratico parla di un gesto di grande statista e leader politico, il primo a commentare negativamente a nome del partito governativo, l’HDZ e’ stato il candidato alle recetni elezioni presidenziali e capogruppo dell’HDZ in Parlamento, Andrija Hebrang il quale ha replicato che la Croazia non aveva mai diviso la BiH e che doveva entrare sul suo territorio per difendere quello proprio. Hebrang ha detto che la divisione della BiH e’ stata compiuta con la proposta della Commissione del Consiglio d’Europa del 1992 ed e’ questa la vertia’ sulla divisione della BiH e non quella raccontata a Sarajevo dal Presidente Josipovic. L’intero partito, l’HDZ il giorno seguente ha criticato duramente l’intervento di Ivo Josipovic a Sarajevo rigettando una parte del suo discorso che, secondo l’HDZ non e’ in sintonia con la Dichiarazione della Guerra per la patria approvata dal Parlamento nel 2000 la quale stabilisce che la Croazia aveva condotto “una guerra giusta, legittima, di difesa e di liberazione, e non di agressione e occupazione verso qualcuno”. La premier croata Jadranka Kosor di seguito ad una riunione straordinaria della presidenza dell’HDZ ha dichiarato alla stampa che la conclusione di questa riunione e’ che “tutti quelli che hanno responsabilita’ per la Croazia devono attenersi alla Costituzione e alla Legge”. La Kosor ritiene di dover essere stata informata precedentemente dal Presidente Josipovic su quello che sarebbe stato il suo discorso in BiH. “La presidenza dell’HDZ deplora che nell’intervento del presidente Ivo Josipovic in Parlamento della BiH e’ mancata una chiara condanna dell’agressione di Milosevic ed e stato taciuto il contributo della Croazia all’esistenza stessa della BiH, dalla sistemazione di centinaia di migliaia di profughi della BiH fino alla salvezza della citta’ di Bihac dal nuovo genocidio simile a quello di Srebrenica” si legge nel comunicato dell’HDZ.
Ma il capo dello Stato croato non si e’ astenuto dalla replica e ha risposto che il suo discorso e’ disponibile a tutti, quindi non di non capire perche’ lo commentano quelli che non l’hanno nemmeno letto. Restando fermo sulle sue posizioni, il Presidente Josipovic ha ribadito che secondo la sua opinione in BiH una politica sbagliata ha causato sofferenze tra l’altro anche del popolo croato. “Se questa politica fosse stata minimamente giusta, il numero dei craoti non sarebbe stato quasi dimezzato rispetto ai tempi prima della guerra” ha detto Josipovic sottolineando che “proprio la prontezza di ammettere gli aspetti sbagliati delle precedenti politiche danno la legittimita’ e la possibilita’ alla Croazia di aiutare i tentativi del popolo croato in BiH a realizzare i loro pari diritti”. Alla premier Kosor ha risposto che ne parlera’ con lei volentirei perche’ i loro colloqui “sono sempre molto interessanti e costruttivi”.
Senza dubbio, l’evento della settimana nella regione balcanica e da molti qualificato persino storico e’ stata la prima visita ufficiale del Presidente croato Ivo Josipovic in Bosnia Erzegovina. Due le ragioni che hanno messo in primo piano questo viaggio, molto plaudito dalla comunita’ internazionale come anche in BiH e nella regione, ma che hanno anche aperto diverse e accese polemiche in Croazia.
Ivo Josipovic e’ il primo presidente croato ad aver pronunciato un discorso alle due Camere del Parlamento statale bosniaco ed e’ stato il primo alto rappresentante della Croazia a recarsi nel villaggio di Ahmici, in Bosnia centrale, per rendere omaggio alle 116 vittime musulmane uccise dall’esercito croato in Bosnia nel 1993. Per questo crimine di guerra, ricordiamolo, il Tpi ha condannato tre ufficiali della HVO a pene carcerarie tra 6 e 25 anni, mentre un quarto ufficiale e’ stato condannato a 10 anni di reclusione dal Tribunale locale di Sarajevo. Uno tra gli ufficiali accusati e’ stato Tihomir Blaskic, il primo ad essere condannato dal Tribunale dell’Aja ad una altissima pena di 45 anni per essere poi, in un processo di secondo grado e dopo la consegna da parte del governo croato di sinistra di Ivica Racan di documenti cruciali per questo processo, condannato ad una pena definitiva di 9 anni di reclusione.
Dopo Ahmici, lo stesso giorno, il presidente croato si e’ recato anche nel villaggio di Krizancevo Selo, una ventina di chilometri distante da Ahmici per rendere omaggio alle vittime di guerra croate uccise sempre nel 1993 dalle forze miliatari musulmane. Per questo crimine pero’, non e’ stato avviato nessun processo, ne’ da parte della giustizia internazionale ne’ dalle corti locali. Il gesto finora senza precedenti del neopresidente croato ha destato molta soddisfazione in BiH tranne tra i rappresentanti serbi che hanno criticato invece il Presidente Josipovic per non aver reso omaggio anche alle vittime serbe della guerra in BiH. Particolare importanza in tutta questa vicenda ha assunto pero’ la presenza, accanto al capo dello Stato croato, dei leader religiosi croato e islamico, vale a dire l’arcivescovo di Sarajevo e cardinale Vinko Puljic e il capo della comunita’ islamica Mustafa Ceric.
“Sono venuto qui a rendere omaggio alle vittime con il messaggio che queste azioni terribili non si ripetano mai piu’” ha dichiarato il Presidente Josipovic. Ha sottolineato che per lui e’ un grande incorraggiamento il fatto che e’ accompagnato dai leader religiosi e numerosi politici di entrambi i popoli. “Ci siamo riuniti qui tutti nel desiderio di rendere omaggio alle vittime, per ricordare le vittime e per dire mai piu’” ha detto Josipovic. Il cardinale Vinko Puljic ha ringraziato il presidente croato perche’ con il suo arrivo ad Ahmici e Krizancevo Selo ha espresso rispetto alle vittime innocenti. “E’ per questo che ho accolto l’invito di rendere omaggio personalmente a queste vittime” ha detto l’arcivescovo Puljic. Reis Ceric, da parte sua, ha rilevato che con l’esempio personale si dimostra molto di piu’ che con le parole. “Questo oggi e’ uno di quei giorni in BiH quando con l’esempio personale ci siamo impegnati per la fiducia, per ristab ilire fiducia tra le persone e ci siamo riuniti su invito del Presidente Josipovic” ha detto il leader della comunita’ islamica Mustafa Ceric. In piu’, ha ricordato che Ahmici e Krizancevo Selo sono molto dolorosi sia per i bosgnacchi che per i croati. “Vogliamo in questo modo chiudere una brutta pagina nelle nostre relazioni e aprirne una nuova... La Bosnia deve altrettanto aprire alcune sue porte verso la Croazia, altre invece chiudere affinche’ le relazioni di buon vicinato tra Croazia e BiH siano utili a tutti” ha sottolineato Ceric aggiungendo che la gente in BiH a volte necessita di stimoli di buona volonta’ esterni perche’ loro stessi possano essere buoni.
Il primo giorno della sua visita in BiH, a Sarajevo, Josipovic ha incontrato tutti i vertici dello Stato e si e’ rivolto poi ai deputati in Parlamento nel quale sono stati pero’ assenti i parlamentari serbi. “Mi avete dato un onore straordinario di essere il primo Presidente della Croazia che avete gentilmente invitato a rivolgersi al Parlamento della BiH. E’ un onore che suscita in me forti sensazioni, soprattutto responsabilita’ e ringraziamento... Questo onore vorrei dedicare ai vostri e ai nostri figli, alle nuove generazioni alle quali dobbiamo tutti la nostra responsabilita’, pace e visione di prosperita’. “La risposta sta’ in noi, nella nostra capacita’ di trarre lezioni dalla storia e di trasformare queste lezioni in visioni di pace, comprensione e collaborazione.... Il passato non bisogna dimenticarlo, ma nemmeno continuare a viverlo. Perche’ il crimine possa rimanere per sempre nel passato, deve affrontare la sua punizione, mentre le vittime devono essere rispettate. Non esistono popoli incriminati, esistono soltanto criminali e crimini, che sono ancora piu’ gravi se commessi presumibilmente a nome di un popolo. In BiH, sia i bosgnacchi che i croati che i serbi hanno le loro vittime, i loro sofferenti verso i quali sento profondo rispetto e condoglianze, senza differenza a quale dei popoli appartengano” ha rilevato il presidente croato nel suo discorso davanti al Parlamento bosniaco. “Mi dispiace profondamente che la Croazia con la sua politica degli anni novanta dello scorso secolo abbia contribuito a questo. Mi dispiace profondamente che una tale politica croata abbia contribuito alle sofferenze della gente e alle divsioni che ancora oggi ci afliggono” ha detto Josipovic e proprio con queste parole ha acceso anche le dure critiche nel proprio Paese.
Ma il Presidente croato ha ricordato il passato per parlare del futuro, del progresso, della convivenza, dell’ottimismo e del futuro europeo. “Questo nostro futuro europeo – ha detto – non e’ piu’ un sogno ma un reale, vicino futuro, quasi una realta’. La Croazia e’ membro della NATO e credo, molto presto diventera’ membro dell’Ue. Ma il progetto europeo croato non sara’ completo finche’ non ci saranno dentro anche i nostri vicini, prima di tutto BiH, Serbia e Montenegro. Sono venuto qua’ ad esprimere pieno sostegno della Croazia all’orientamento europeo ed euroatlantico della BiH e offrire il nostro partenariato... Sono arrivati tempi nuovi, un nuovo periodo che chiede una nuova politica. Invece dei conflitti di una volta e le confrontazioni, sulla via della BiH nell’Ue e nella Nato, avrete il pieno sostegno, senza riserve e l’aiuto della Croazia”. “Offrite anche voi come leader dei vostri cittadini il partenariato per l’Euorpa. Trovate la forza per superare i vostri e i loro dubbi e paure” ha incorraggiato il Presidente Josipovic sottolineando che “sarete presto nelle condizioni di decidere sul futuro del vostro Paese, sulle riforme costituzionali che garantiranno stabilita’ e funzionamento della BiH. Nessuno dei tre popoli che costituiscono la BiH, bosgnacchi, serbi e croati non possono trovare da soli la formula di sucesso”.
“Appoggio fortemente i croati in BiH affinche’ in accordo con gli altri due popoli realizzino i loro uguali diritti. La BiH e’ possibile solo se una comunita’ sincera di popoli di pari diritti” ha sollecitato Josipovic avvertendo ancora una volta che “le politiche che negli anni novanta vedevano la soluzione nella divisione e separazione, nella supremazia degli uni sopra gli altri, nell’esclusione dell’altro, nelle violazioni di diritti umani, nella foza e violenza, ingiustizia e difusione della paura, devono essere una volta per sempre abbandonati. Per tempi nuovi c’e’ bisogno di una nuova politica”. “Mentre l’elite politiche si occupano di paure, sfiducia e controversie sul passato, l’elite dell’ambiente criminale utilizza le debolezze e l’inadeguatezza dello Stato...invece dello stato di diritto, si rafforza la rete di corruzione per allontanare i nostri paesi dall’Ue e l’Ue dai nostri paesi”. “La nuova epoca porta nuove sfide, innanzitutto quelle economiche. La politica regionale e la cooperazione di tutti gli Stati della regione, quindi anche tra Croazia e BiH si svolgera’ sempre di piu’ attraverso la cooperazione economica, commercio, progetti comuni economici e infrastrutturali e l’uscita sui mercati terzi. Le nostre economie sono compatibili. Oggi, piu’ che mai, sotto l’infrenabile diluvio della globalizzazione, le economie cessano di essere nazionali. Infine, soprattutto perche’ vi e’ presente anche il coro diplomatico, permettetemi di invitare da questo piu’ altro podio della BiH tutti voi rappresentanti di partiti politici, l’Ue, gli Stati Uniti e l’intera comunita’ internazionale, e in particolare la nostra vicina Republica Srpska, a realizzare l’interesse vitale: Uniamo le nostre teste e le nostre mani per la BiH! ... Ognuno e’ libero di essere Croato, Bosgnacco, Serbo, Ebreo o Rom, ortodosso, musulmano, cattolico o ateista...Mettiamo al centro dei nostri interessi vitali i popoli e gli individui che desiderano pace e liberta’ per se stessi, per i loro piu’ cari e per le future generazioni” ha concluso Ivo Josipovic, primo leader politico croato ad intervenire nel Parlamento della BiH.
Il Dipartimento di Stato americano ha salutato il gesto del presidente croato di porre omaggio alle vittime del conflitto croato-musulmano in BiH nel 1993 ad Ahmici e Krizancevo selo nonche’ il suo intervento in Parlamento qualificandoli come “passi positivi” che contribuiscono ad un ulteriore miglioramento delle relazioni tra i Paesi della regione. “Noi incoraggiamo iniziative come queste che abbiamo visto oggi e ieri, nonche’ le riforme fondamentali perche’ risolvono le questioni aperte tra questi paesi e offrono la possibilita’ di avanzamento” ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley. L’agenzia Reuters sottolinea che “Josipovic e’ il primo leader politico croato che ha pubblicamente condannato il ruolo della Croazia in BiH” e aggiunge che il suo discorso a Sarajevo e’ “il piu’ recente di diversi passi che stanno intraprendendo i politici riformisti croati e serbi nel tentativo di sanare le ferite della guerra degli anni novanta”. C’e’ da dire che tutte le agenzie di stampa mondiali hanno informato dell’intervento del Presidente croato sottolineando il fatto che e’ stato espresso rammarico perche’ la Croazia con la sua politica degli anni novanta del secolo scorso aveva contribuito alle sofferenze della gente e alle divisioni che non sono ancora svanite.
Secondo Associated Press, l’intervento di Josipovic e’ “finora il messaggio piu’ chiaro di pace e riconciliazione di un leader politico nella regione” mentre per France Presse, il Presidente della Croazia ha inviato “un messaggio forte di riconciliazione” alla BiH scegliendola come la sua prima visita nella regione e restando cosi’ fedele alla sua promessa elettorale che insistera’ sul tema della riconciliazione nei Balcani. “Sara’ il primo Presidente croato che visitera’ Ahmici che sono diventati il simbolo di violenze che hanno diviso i croati e i musulmani bosgnacchi nel 1993 e 1994. I due alleati contro la Serbia, croati e musulmani bosniaci in questi due anni hanno combattuto anche gli uni contro gli altri” ha ricordato AFP. L’agenzia serba Tanjug ha pubblicato un lungo testo in cui sono state riportate tutte le parti importanti dell’intervento del Presidente croato incluse le sue espressioni di rispetto a tutte le vittime della guerra in BiH con l’affermazione che “ogni vita persa e’ una perdita per tutti” e l’annuncio di Josipovic che visitera’ sicuramente i luoghi in BiH dove sono stati uccisi anche i serbi.
Tra coloro che hanno salutato la visita di Josipovic ad Ahmici e Krizancevo Selo dove sono stati commessi crimini contro musulmani e croati e’ stato anche Tihomir Blaskic, ex ufficiale della HVO e allora comandante della zona operativa in Bosnia centrale, condannato dal Tpi dell’Aja ad una pena di nove anni di carcere. “Appoggio e saluto la decisione del Presidente croato Ivo Josipovic di andare ad Ahmici. Innanzitutto saluto questo aproccio di rendere omaggio alle vittime innocenti che sono state uccise nella guerra in BiH. Siamo stati accerchiati e abbiamo condotto una battaglia per la pura vita e vi fu anche questo crimine infelice” ha detto Blaskic sottolineando di aver dichiarato ancora nel 1993 tutto quello che pensava di questa vicenda tragica e si era recato successivamente ad Ahmici per esprimere lui stesso le scuse per i crimini contro gli abitanti di questo villaggio. Da ricordare che la vicenda tragica ad Ahmici che all’epoca si trovavano sull’importante posizione strategica di comunicazione sulla linea Busovaca – Vitez, avenne il 16 aprile 1993 alle ore 5 e 30 del mattino. All’epoca, le forze croate sono state accerchiate da tutte le parti mentre le forze dell’armata della BiH erano sempre piu’ forti. E’ stato valutato il pericolo che minacciava dal vilaggio di Ahmici e per questo le forze della HVO iniziarono l’attacco. Si afferma che questo attacco ebbe un motivo militare legittimo ma termino’ con un grave crimine di guerra. Furono uccisi 116 civili, tra cui donne e bambini, distrutto il patrimonio e abbattuta una moschea. “Proprio il gesto del Presidente Josipovic e’ la luce che conduce verso la collaborazione e l’uscita dalla colpevolezza colettiva che e’ estremamente importante per la convivenza sul territorio della BiH”, ha concluso Tihomir Blaskic.
E’ chiaro che l’iniziativa del Presidente Josipovic, commentata cosi’ positivamente dalla comunita’ internazionale e soprattutto in BiH, ha suscitato pero’ reazioni diverse in Croazia. Mentre l’opposizione, soprattuto il Partito socialdemocratico parla di un gesto di grande statista e leader politico, il primo a commentare negativamente a nome del partito governativo, l’HDZ e’ stato il candidato alle recetni elezioni presidenziali e capogruppo dell’HDZ in Parlamento, Andrija Hebrang il quale ha replicato che la Croazia non aveva mai diviso la BiH e che doveva entrare sul suo territorio per difendere quello proprio. Hebrang ha detto che la divisione della BiH e’ stata compiuta con la proposta della Commissione del Consiglio d’Europa del 1992 ed e’ questa la vertia’ sulla divisione della BiH e non quella raccontata a Sarajevo dal Presidente Josipovic. L’intero partito, l’HDZ il giorno seguente ha criticato duramente l’intervento di Ivo Josipovic a Sarajevo rigettando una parte del suo discorso che, secondo l’HDZ non e’ in sintonia con la Dichiarazione della Guerra per la patria approvata dal Parlamento nel 2000 la quale stabilisce che la Croazia aveva condotto “una guerra giusta, legittima, di difesa e di liberazione, e non di agressione e occupazione verso qualcuno”. La premier croata Jadranka Kosor di seguito ad una riunione straordinaria della presidenza dell’HDZ ha dichiarato alla stampa che la conclusione di questa riunione e’ che “tutti quelli che hanno responsabilita’ per la Croazia devono attenersi alla Costituzione e alla Legge”. La Kosor ritiene di dover essere stata informata precedentemente dal Presidente Josipovic su quello che sarebbe stato il suo discorso in BiH. “La presidenza dell’HDZ deplora che nell’intervento del presidente Ivo Josipovic in Parlamento della BiH e’ mancata una chiara condanna dell’agressione di Milosevic ed e stato taciuto il contributo della Croazia all’esistenza stessa della BiH, dalla sistemazione di centinaia di migliaia di profughi della BiH fino alla salvezza della citta’ di Bihac dal nuovo genocidio simile a quello di Srebrenica” si legge nel comunicato dell’HDZ.
Ma il capo dello Stato croato non si e’ astenuto dalla replica e ha risposto che il suo discorso e’ disponibile a tutti, quindi non di non capire perche’ lo commentano quelli che non l’hanno nemmeno letto. Restando fermo sulle sue posizioni, il Presidente Josipovic ha ribadito che secondo la sua opinione in BiH una politica sbagliata ha causato sofferenze tra l’altro anche del popolo croato. “Se questa politica fosse stata minimamente giusta, il numero dei craoti non sarebbe stato quasi dimezzato rispetto ai tempi prima della guerra” ha detto Josipovic sottolineando che “proprio la prontezza di ammettere gli aspetti sbagliati delle precedenti politiche danno la legittimita’ e la possibilita’ alla Croazia di aiutare i tentativi del popolo croato in BiH a realizzare i loro pari diritti”. Alla premier Kosor ha risposto che ne parlera’ con lei volentirei perche’ i loro colloqui “sono sempre molto interessanti e costruttivi”.
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è in onda il sabato alle 22,30
su Radio Radicale
Nella puntata di sabato 17 aprile: il futuro europeo dei Balcani (con l'intervista a Luka Zanoni di Osservatorio Balcani e Caucaso che commenta la lettera dei ministri degli Esteri italiano e francese pubblicata martedì 13 da Repubblica); la visita del presidente croato Ivo Josipovic in Bosnia con l'omaggio alle vittime della guerra e il discorso al parlamento di Sarajevo e le sue iniziative, anche insieme al suo omologo serbo Boris Tadic, per la pacificazione e stabilizzazione dei Balcani occidentali; il processo di integrazione europea dell'Albania che ha presentato a Bruxelles il questionario che ogni stato che aspira all'adesione all'Ue deve compilare; le relazioni bilaterali tra Albania e Macedonia; gli accordi di cooperazione tra Germania e Kosovo che prosegue nella sua offensiva diplomatica in risposta al rifiuto della Serbia di riconoscere l'indipendenza proclamata nel 2008.
La trasmissione è stata realizzata come di consueto on la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura ed è disponibile per il podcasting sul sito di Radio Radicale nella sezione delle Rubriche oppure è ascoltabile direttamente qui sotto.
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Nella puntata di sabato 17 aprile: il futuro europeo dei Balcani (con l'intervista a Luka Zanoni di Osservatorio Balcani e Caucaso che commenta la lettera dei ministri degli Esteri italiano e francese pubblicata martedì 13 da Repubblica); la visita del presidente croato Ivo Josipovic in Bosnia con l'omaggio alle vittime della guerra e il discorso al parlamento di Sarajevo e le sue iniziative, anche insieme al suo omologo serbo Boris Tadic, per la pacificazione e stabilizzazione dei Balcani occidentali; il processo di integrazione europea dell'Albania che ha presentato a Bruxelles il questionario che ogni stato che aspira all'adesione all'Ue deve compilare; le relazioni bilaterali tra Albania e Macedonia; gli accordi di cooperazione tra Germania e Kosovo che prosegue nella sua offensiva diplomatica in risposta al rifiuto della Serbia di riconoscere l'indipendenza proclamata nel 2008.
La trasmissione è stata realizzata come di consueto on la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura ed è disponibile per il podcasting sul sito di Radio Radicale nella sezione delle Rubriche oppure è ascoltabile direttamente qui sotto.
martedì 20 aprile 2010
IL FUTURO EUROPEO DEI BALCANI
"Il 2010 può rappresentare un anno decisivo per i Balcani Occidentali se riusciremo ad imprimere un nuovo e rinnovato impulso per superare i veri problemi che ancora incombono: l´indifferenza e la negligenza", scrivevano martedì 13 aprile i ministri degli Esteri italiano e francese, Franco Frattini e Bernard Kouchner, in una lettera pubblicata da La Repubblica, dopo il vertice franco-italiano e in coincidenza con la visita di Frattini a Sarajevo.
Dieci anni dopo il vertice di Zagabria nel quale per la prima volta l'Ue affermava ufficialmente la prospettiva europea per i Balcani occidentali, Roma e Parigi concordano nella necessità di sostenere il cammino dei Balcani verso Bruxelles. "Ne va della nostra pace e della nostra stabilità, ma soprattutto della pace e della stabilità delle generazioni future", scrivono i due ministri dichiarando di voler "rafforzare la nostra azione comune in questa regione vicina proprio perché crediamo che l´Europa ha bisogno dei Balcani e che i Balcani hanno bisogno dell´Europa".
Per andare avanti, però, "occorre innanzitutto far progredire la causa europea" e dunque il primo concreto compito da portare a termine riguarda la liberalizzazione dei visti di ingresso nell'area Schengen "a breve termine" anche per Albania e Bosnia, mentre "i progressi della causa europea giungeranno anche dall´avanzamento dei negoziati di adesione all´Unione Europea".
Naturalmente, "anche da parte dei Paesi balcanici, dovranno compiersi sforzi analoghi", continuano Frattini e Kouchner esortando i Paesi dei Balcani occidentali a "voltare pagina: da un passato doloroso verso il loro futuro europeo. Pensiamo in maniera particolare alla Serbia e al Kosovo, che possiedono la stessa vocazione a entrare nell´Unione europea ma che devono ancora definire i termini della loro coesistenza pacifica". Poi la Bosnia, "altro esempio della difficoltà e del bisogno di cambiar pagina", dove a giugno si svolgerà una conferenza internazionale con i Paesi dei Balcani Occidentali, l'Ue, la Russia e gli Usa.
Sui contenuti della lettera di Frattini e Kouchner vi segnalo il commento di Luka Zanoni di Osservatorio Balcani e Caucaso che ho raccolto in un'intervista per Radio Radicale.
La potete ascoltare direttamente qui sotto oppure andando su radioradicale.it
Dieci anni dopo il vertice di Zagabria nel quale per la prima volta l'Ue affermava ufficialmente la prospettiva europea per i Balcani occidentali, Roma e Parigi concordano nella necessità di sostenere il cammino dei Balcani verso Bruxelles. "Ne va della nostra pace e della nostra stabilità, ma soprattutto della pace e della stabilità delle generazioni future", scrivono i due ministri dichiarando di voler "rafforzare la nostra azione comune in questa regione vicina proprio perché crediamo che l´Europa ha bisogno dei Balcani e che i Balcani hanno bisogno dell´Europa".
Per andare avanti, però, "occorre innanzitutto far progredire la causa europea" e dunque il primo concreto compito da portare a termine riguarda la liberalizzazione dei visti di ingresso nell'area Schengen "a breve termine" anche per Albania e Bosnia, mentre "i progressi della causa europea giungeranno anche dall´avanzamento dei negoziati di adesione all´Unione Europea".
Naturalmente, "anche da parte dei Paesi balcanici, dovranno compiersi sforzi analoghi", continuano Frattini e Kouchner esortando i Paesi dei Balcani occidentali a "voltare pagina: da un passato doloroso verso il loro futuro europeo. Pensiamo in maniera particolare alla Serbia e al Kosovo, che possiedono la stessa vocazione a entrare nell´Unione europea ma che devono ancora definire i termini della loro coesistenza pacifica". Poi la Bosnia, "altro esempio della difficoltà e del bisogno di cambiar pagina", dove a giugno si svolgerà una conferenza internazionale con i Paesi dei Balcani Occidentali, l'Ue, la Russia e gli Usa.
Sui contenuti della lettera di Frattini e Kouchner vi segnalo il commento di Luka Zanoni di Osservatorio Balcani e Caucaso che ho raccolto in un'intervista per Radio Radicale.
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